Una visita tra gli etruschi e i fascisti

Lawrence, l’autore di “L’amante di Lady Chatterly”, visitò Volterra nei giorni 10 e 11 aprile dell’anno 1927 in compagnia del pittore americano E.H. Brewzter.

Vi si trattenne due giorni ospite dell’Albergo Nazionale e descrisse le sue impressioni nei suoi “Travel” inserendo le pagine su Volterra nel “Viaggio nel paese degli Etruschi”, una specie di ricerca del mondo solare primitivo degli Etruschi attraverso la visita dei centri di Cerveteri, Tarquinia, Vulci e Volterra.

Lawrence, nato l’11 settembre 1885 ad Eastwood (Nottingham), morì a Vence in Provenza il 2 marzo 1930. Figlio di un minatore e di una madre borghese derivò, da questa diversità di origine dei genitori, quel dissidio tra istinto ed intelletto che lo accompagnò per tutta la vita.

Per i suoi romanzi (tra i quali, oltre a quello ricordato sopra, citiamo “Figli e amanti”, “Il serpente piumato”, “Il pavone bianco”, vari saggi di letteratura, poesie) egli è considerato il poeta ed il profeta del sesso. Crede che il mondo moderno sia disumanizzato dal progresso meccanico e dall’industrialismo, è affascinato, come tanti altri scrittori del Decadentismo, dalle civiltà meno adulterate come quelle degli Aztechi e degli Etruschi.


VOLTERRA, GLI ETRUSCHI E I FASCISTI

Dimorò a lungo, anche per ragioni di salute, in Italia, a Gargnano sul Garda, a Fiascherino, a Taormina e, per qualche tempo, anche a Firenze. Durante il soggiorno fiorentino visitò molte località dell’antica Etruria tra cui Volterra. Sono questi gli ultimi anni della sua travagliata esistenza. Inquietudine e scontentezza si andavano accentuando. Nelle lettere degli ultimi anni della sua vita c’è una frase che ritorna costante: «This place is no good» (questo posto non mi va). Ciò, forse, spiega anche certi giudizi un poco crudi su Volterra e i Volterrani.

Lawrence amava molto l’Italia. Ha scritto: «Per noi andare a penetrare addentro l’Italia è come compiere un atto di affascinante scoperta di noi stessi, risalire sempre più addietro le antiche strade del tempo. Strane e meravigliose corde si destano e vibrano in noi ancor dopo centinaia di anni d’intero oblio».

Lawrence giunse a Volterra col treno da Cecina in una freddissima domenica di aprile. Lo scrittore si sofferma sulla descrizione della vallata «… una vallata verde, romantica, completamente dimenticata, malgrado il vai e vieni degli antichi Etruschi e dei Romani, dei Volterrani e dei Pisani del Medioevo». Per lui Volterra è una specie di isola interna che rimane ancora curiosamente isolata e selvaggia. Non manca la descrizione del trenino a cremagliera e del vecchio autobus sballottante che lo porta all’albergo. Questo è descritto come semplice, rudimentale ma abbastanza accogliente e, soprattutto, fornito di un impianto di riscaldamento in piena funzione. Lawrence a Volterra patì molto freddo. Insiste su questo particolare più volte.

Era una domenica insolita quella dell’arrivo di Lawrence a Volterra. Si preparavano i festeggiamenti per l’arrivo da Firenze del primo podestà fascista, colonnello cavalier Carraro.

«È domenica. Delle persone temporaneamente importanti vanno e vengono. Si ha l’impressione che stia per accadere qualcosa. Nell’aria c’è odor di politica. Il cameriere ci porta dei thè ed io gli domando che cosa succede. Egli risponde che deve aver luogo un grande banchetto per festeggiare il nuovo podestà che arriva da Firenze e che appartiene al nuovo regime. Evidentemente, davanti ad un tale avvenimento, noi altri poveri stranieri, non abbiamo nessuna importanza. È una giornata grigia e fredda. La tramontana soffia a tutti i cantoni di questa città medioevale, stretta e arcigna. Una folla di piccoli uomini tracagnotti vestiti di nero e di ragazze pseudoeleganti passeggia nelle strade e si sente quell’atmosfera beffarda, furtiva e minacciosa che accompagna sempre le cerimonie, soprattutto quelle politiche, nelle piccole città italiane. È come se le persone, non essendo sicure delle proprie opinioni, fossero tanto più disposte a sterminarsi. Questa malattia, questa indecisione fondamentale è assai curiosa nell’anima italiana. Si direbbe che il popolo non possa mai essere quello che è, perché egli non ha fede in niente. E questa incapacità di credere è alla radice di tutti gli sbandamenti politici. Essi non hanno fede in sé stessi. Come potrebbero aver fede nei loro capi o nel loro partito?».

Si possono anche non condividere questi giudizi, ma essi ci sembrano molto acuti e particolarmente centrati se si pensa alla indolenza ed alla apatia dei Volterrani.

Lawrence prosegue le sue amare ed ironiche considerazioni verso questi festeggiamenti.

«Volterra ha soprattutto lottato contro il giogo fiorentino in maniera che sarà difficile chiarire quali siano i suoi veri sentimenti verso questo nuovo tiranno del villaggio, verso questo podestà che sta per festeggiare questa sera. È probabile che i Volterrani stessi non lo sappiano. In ogni caso le ragazze insolenti (le giovani italiane forse) ci fanno il saluto “alla romana” con un’aria un po’ spavalda. È un saluto che non ha niente a che fare con me, così io non lo restituisco».

Qui intuiamo l’incompatibilità tra lo spirito fazioso, grossolano, rozzo e superficiale del fascismo con l’estetismo raffinato dello scrittore inglese. Il fascismo, ancor prima che sul piano politico, è ripudiato sul piano estetico perché è brutto. Del resto per Lawrence «la politica, qualunque essa sia, non è che una maledizione». Ma «… in una città etrusca che ha così a lungo lottato contro Roma io penso che quel saluto romano sia fuori posto».

Vi sono altri aspetti che servono a ridonarci, con sobrie pennellate, il clima sociopolitico di quei primi anni della dittatura fascista a Volterra. A Lawrence non sfugge nulla e niente egli tralascia per ridicolizzare il costume fascista. Si sofferma su certe scritte tracciate sui muri.

«È curioso anche vedere ferocemente tracciato sui muri “Morte a Lenin” come se quel buon uomo non fosse morto da abbastanza tempo perché anche un volterrano lo ignori. Più curiose ancora altre scritte recanti queste parole “Mussolini ha sempre ragione”. Certi esseri nascono infallibili. Altri lo diventano, ad altri, infine, si decreta l’infallibilità. Ma non mi riguarda tuffare, sia pure solo il mignolo, nel pasticciaio politico. Ciascun paese dopo la guerra ha abbastanza guai per governarsi senza che gli stranieri vi si mescolino».

Lawrence, a questo punto, scrive delle pagine piene di fastidio verso alcuni monumenti della città, verso il suo insieme architettonico. Non si sa se sia la malattia (la tisi) a dettargliele o il senso di stizza e di malumore suscitato in lui da questi preparativi per la festa fascista. L’aspetto della città è per lui raggelante. Piove, c’è fanghiglia nelle strade, è una di quelle giornate in cui sembra che piova anche dentro di noi, in cui, per dirla carduccianamente, guardando la gente che passeggia vien voglia di dire: «guarda quest’altro fango che anche si muove».

Lawrence esprime quasi leopardianamente il senso di fastidio della sera del dì di festa in una piccola città di provincia con la gente che sbadiglia, che si annoia più o meno consapevolmente. Il Palazzo dei Priori, malgrado tutti i deliziosi stemmi, non gli piace. La fredda Cattedrale, benché abbastanza bella, non gli va.

«Insomma io sono difficile a contentarsi» conclude. La porta etrusca invece lo affascina «con la facciata esterna che domina la campagna desolata… Tre teste scure, oggi senza lineamenti, si staccano curiosamente dal cielo della volta e dalle due basi dell’arco, sembrano contemplare il mondo che si estende assai lontano nella vallata. Strane e nere teste etrusche. Anche senza lineamenti esse conservano una vitalità particolare che si diffonde all’intorno».

Quasi per non sentirsi soffocato lo scrittore si dirige verso la campagna, verso la zona delle Balze. Gli sembra di calare in un mondo particolarmente congeniale, in mezzo a quei ruderi etruschi delle mura di Santa Chiara su cui crescono l’edera e ciuffi di ginestra e di maggiorana.

«Seduti sopra dei resti di ruderi noi contempliamo quelle voragini spalancate come delle grandi cave. Le rondini, volgendoci il dorso blu, volano via dalle rovine nella luce giallastra della sera, obbedendo alla potenza del vento, battendo le ali come dei piccoli frammenti di vita in disfacimento, con un effetto abbastanza terrificante al di sopra di quelle voragini fantastiche. Il fondo dell’abisso appare di un grigio cenere e tutto l’insieme sembra nuovo come un enorme cava in demolizione. La località si chiama Le Balze».

Le pagine che descrivono il ritorno verso la città da San Giusto sono assai belle con quel contrappunto coloristico tra il meraviglioso tramonto che trasporta il poeta in un mondo fiabesco e l’aspetto grigio e triste della città piena di omuncoli vocianti.

«Di tanto in tanto, ritornando verso la città, noi ci avviciniamo all’orlo delle mura per contemplare il meraviglioso tramonto del sole tutto d’oro; i ripidi dirupi che s’incupiscono nella notte e la lontana vallata silenziosa di un colore verdastro, le cui colline respirando dolcemente irradiano una luce che va a confondersi con la luce del mare in lontananza, su cui un’ombra, forse un’isola, si sposta come un atomo di vita, e montagne di Carrara, potenti guardiane, si profilano sotto la luce con le loro imponenti creste. Si direbbe che esse avanzino sopra di noi, mentre il vasto emisfero occidentale sembra tutto rutilante d’oro, come se, essendo giunta l’ultima ora, gli dei ci introducessero nuovamente nell’universale armonia trasformata. Ma niente è cambiato. Impauriti noi distogliamo gli occhi dal vasto fiammeggiare e ritorniamo tristi alle strade dove la banda della città fa ascoltare gli accordi disarmonici, mentre delle ragazze vestite di bianco si dirigono in massa verso la piazza. Come la banda, la folla è disarmonica e canta artificiosamente. Sta per formarsi un corteo. Al limite della piazza che è vicina all’albergo, noi contempliamo ancora l’universo che si stende nella parte occidentale della vallata. Tutto è di un rosso spento e lo stesso rosso fiammeggia puro e ardente sul mare in lontananza mentre le vallate intermedie sono nell’ombra. La città sola, con le sue vie strette e la sua luce elettrica, sembra impenetrabile».

Tornato all’albergo il poeta pranza poco dopo le diciannove perché per le ore ventuno è fissato il banchetto.

«I camerieri vanno e vengono pieni di zelo e carichi di centinaia di bicchieri e di caraffe scintillanti che depongono nella sala del banchetto. Dei giovanotti sfaccendati, con in testa i cappelli neri e con il cappotto gettato sopra una spalla, si affacciano alla soglia del locale come se dovesse apparire loro Lazzaro, ma, non vedendolo, essi ritornano al nulla da cui provengono… S’intende lontano, portato via dal vento freddo, il rumore della banda e, non essendo invitati alla festa, noi andiamo a dormire. Ciò non ci impedisce di essere svegliati di soprassalto da un baccano infernale, senza dubbio degli applausi, e poco dopo, dagli strilli di un bambino».

Così si chiudono le impressioni della prima giornata di Lawrence a Volterra. La descrizione è molto più ampia: noi ci siamo limitati a cogliere quegli aspetti che meglio ci sono sembrati adatti a sottolineare certe annotazioni di costume, colte da uno spirito inquieto e particolarmente rivelatore della sensibilità moderna. Lawrence rifiutava gran parte della sua vita così come era concepita dalla società contemporanea.

Egli ha scritto altrove: «Non voglio più vivere in quest’epoca. Conosco ciò che è e la respingo. Per quanto mi sarà possibile, voglio rimanere fuori di questo mondo. Voglio vivere la mia vita e, se possibile, essere felice. Benché tutto il mondo scivoli inorridito verso l’abisso senza fondo… credo che la più alta virtù sia di essere felici, di vivere nella più grande varietà senza sottomettersi alla falsità di questi tempi personali».

Qui a Volterra, dinanzi agli stupendi tramonti volterrani, come abbiamo visto sopra, e dinanzi alle urne del nostro Museo, egli si sentì per un momento felice.


CON LAWRENCE AL MUSEO GUARNACCI

Dopo la notte trascorsa al Nazionale e turbata dagli “alalà” del banchetto fascista, l’11 aprile 1927 Lawrence e l’amico pittore americano uscirono, di buon ora, per andare a visitare alcuni laboratori di alabastro ed il Museo.

Persiste nelle pagine dello scrittore, che amava tanto i paesaggi solari, l’impressione di freddo provata il giorno prima.

«Il mattino ci appare freddo e nebbioso in questo paese sgradevole che dà un senso di noia… Il mare rimane invisibile. Noi percorriamo le strade strette che dei cupi muri di pietra sembrano schiacciare ed entriamo nelle botteghe di alabastro ove degli operai, non ancora del tutto svegli e pieni del cupo torpore del lunedì, stanno tagliando e lucidando il tenero alabastro».

Non si era ancora giunti al crollo di Wall Street e l’alabastro veniva ancora largamente esportato dopo la parentesi imposta dalla prima guerra mondiale. Lawrence dice di aver visto oggetti di alabastro anche prima di venire a Volterra, specialmente “lampade di materia translucida che velano il lume di tanti alberghi”.

Ma non mostra di apprezzare questi lavori dal punto di vista estetico; dice infatti: «Se ne fanno tutti quegli oggetti di cattivo gusto: abatjour, plafoniere, statue, vasi, tazze il cui bordo sostiene dei colombi, pampini di vite ed altre sciocchezze». Tutta questa paccottiglia niente ha da vedere con l’arte. «Ahimè la dea dalle belle forme scultoree è fuggita anch’essa». Ma, se non gli interessa l’alabastro moderno, lo scrittore sente il potente richiamo di quello antico, delle urne di alabastro del Museo Guarnacci. Sotto una pioggia gelida i due amici si affrettano a raggiungerlo.

«Freddo, silenzioso, vuoto, triste tale ci sembra il Museo. Infine giunge un vecchio in uniforme».

È il custode; la visita ha inizio e l’impressione di tristezza si muta, ben presto, in entusiasmo. Lo scrittore inglese, così inquieto e scontento, qui si trova soddisfatto e felice. È a suo agio.

«Il Museo è veramente bello ed interessante… ben presto, davanti a quelle centinaia di piccoli sarcofaghi, la potenza del passato comincia a riscaldarci… io ricavo più piacere dalla visita di queste urne volterrane che… stavo quasi per dire, dai fregi del Partenone».

Lo scrittore è cosciente di esagerare ma non troppo perché il fascino della civiltà etrusca è enorme su di lui. Egli, che ha voluto sempre vivere con la beata incoscienza di un primitivo, godere e dimenticare, si sente attratto dalla civiltà degli Etruschi che vissero gioiosamente senza, però, dimenticare o temere la morte. Egli vede realizzato, in questa civiltà non classica, l’istinto, la conoscenza immediata della vita non intellettualizzata. Forse per questo amò assai la vita istintiva dei contadini italiani e tradusse molto dai nostri novellieri e dal Verga.

Pochi scrittori hanno parlato così a lungo delle sale del nostro Museo, del significato misterioso dei mostri marini, dell’uomo alato dalla coda di pesce, dell’uomo e della donna alata con le gambe di serpente. «Sono gli Etruschi che hanno donato delle ali a queste figure e non i Greci» egli dice. Intendiamoci: le spiegazioni di certe figure e gruppi che egli ci dà non soddisfano, sempre, l’archeologo ma ci sembrano assai suggestive. Sono le interpretazioni di un poeta e non di un erudito.

«Bisogna ricordare che nel mondo antico il centro di ogni potere si trovava al centro della terra o dell’acqua ed il sole non era che un elemento secondario in movimento. Il serpente rappresentava la potenza ardente dell’interno della terra, non solamente eruzioni vulcaniche o scuotimenti della terra, ma la potenza generatrice che circola nelle radici delle piante per formare il grande tronco dell’albero, l’albero della vita… e, d’altra parte, il pesce era il simbolo della profondità dell’acqua dove tutto è nato, persino la luce. Si capirà, di conseguenza, l’importanza che avevano quei simboli per i volterrani. Erano un popolo marinaro e vivevano in un paese vulcanico. È così che la potenza della terra e dell’acqua donano e riprendono la vita… Io non so più chi ha detto che le ali degli dei marini rappresentavano l’evaporazione del sole… ».

Potremmo continuare per pagine e pagine sulla simbologia dei grifoni e degli altri animali delle urne. Ma anche le realistiche scene della vita quotidiana lo attraggono, come la caccia al cinghiale, i giochi dell’arco, le processioni, le partenze in carri coperti, con navi che levano l’ancora, gli assedi di città, le scene di sacrifici.

Il vecchio guardiano del Museo osserva i due stranieri gesticolanti ed ascolta affascinato quello più alto, col pizzetto e con gli occhi luccicanti di febbre, che si esalta e che si esprime così bene in italiano dicendo tante cose belle. Lawrence ci ha lasciato un vivo ritratto di questo custode:

«Era uno di quei dolci e timidi italiani troppo rispettosi per osare solo di guardare le urne che egli custodisce. Ma quando io gli raccontai ciò che significavano, secondo me, alcune scene, egli fu affascinato come un ragazzo, meravigliato, quasi emozionato. Ed io pensai di nuovo come l’italiano di oggi è più vicino all’etrusco che al romano. Egli è sensibile, deferente, con un sincero bisogno di simboli e di misteri».

Riportiamo qui alcune sue belle impressioni sulle urne del Museo raffiguranti viaggi in carpento e scene di caccia al cinghiale.

«Seducenti sono le scene dei viaggi in carri coperti, trascinati da due o tre cavalli, accompagnati dal conducente a piedi, da anime a cavallo, da cani, mentre altri cavalieri vengono incontro. Sotto la tenda del carro, un uomo, una donna o tutta una famiglia, sono stesi e, per quanto io abbia potuto vedere, il carro è sempre trascinato da cavalli e non da bovi. Si tratta certamente del viaggio dell’anima. Ma la memoria sembra giocare nella scena un ruolo ben più profondo. Si ha l’impressione di un popolo di emigranti, come i Boeri e i Mormoni. Sembra che questi viaggi in carri coperti siano caratteristici di Volterra e che non si trovino in nessun’altra località etrusca. E l’impressione generale di queste scene è, in realtà, particolare. Si ha come la sensazione di un viaggio, come un popolo che si ricordasse delle sue migrazioni sia marittime che terrestri. Vi si sente una singolare inquietudine molto diversa dalla danzante sicurezza dell’Etruria del sud».

«Spesso il cinghiale occupa il centro della scena, là dove si trova colui che sta per morire. Spesso è assalito non da uomini ma da giovani alati, come degli spiriti. I cani, impauriti, si arrampicano sugli alberi, la scure volteggiante sta per abbattersi su di lui ed egli si difende con un gesto selvaggio e commovente. Gli archeologi pretendono che là siano Meleagro ed il cinghiale Caledonio. Ma, a mio avviso, la spiegazione non è sufficiente. La scena qui è simbolica e sembra che sia proprio il cinghiale la vittima, come la selvaggia vita patriarcale perseguitata e attaccata dai cani e dagli avversari… Egli è il padre della libera vita della foresta e deve morire. Si dice anche che egli rappresenti l’inverno, epoca in cui si celebrava il culto dei morti».

Troppo lungo sarebbe continuare ad esporre le emozioni di Lawrence dinanzi a quei capolavori.

Poi la visita si conclude ed i due amici escono all’aperto dalle poco illuminate sale del Museo e si dirigono verso Porta a Selci. Fuori la pioggia non cade più e, finalmente, è comparso un pallido raggio di sole aprilino.

«Usciamo dalla città per la porta a Selci cercando riparo sotto le mura del grande castello medioevale che è, ora, una prigione di Stato. Qualche cittadino passeggia in questo momento. Al di là la campagna verde e deserta forma delle ondulazioni, delle creste: si direbbe il mare visto dall’alto della prora di una nave. Qui a Volterra noi dominiamo il mondo».

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
Volterra, gli etruschi e i fascisti, in “Volterra”, a. marzo e aprile 1968; in “Scritti Volterrani”, a cura di Gianna, Enrico e Fabrizio Rosticci, Pisa, Pacini Editore, 2004, pp. 186-189 e 195-193.
I brani sono stati tradotti dall’autore dell’articolo da O.H. Lawrence, “Promenades etrusque”, Paris, Gallimard, 1949.

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