No, cancelliere è inutile che insista – disse con voce nasale l’illustrissimo signor Pretore, accomodandosi gli occhiali sulla punta del naso -. Lei oggi non si sente troppo bene, dica la verità. Me ne sono accorto stamani in udienza. Quelle sue distrazioni, quella stanchezza… Ma non si impressioni, sa. E’ un po’ di costipazione, non è altro. L’aria di Volterra lo fa, con questa stagione invernale specie a chi non c’è abituato come Lei -. Il cancelliere Lorenzo era rimasto in piedi davanti al tavolo del suo superiore e non ebbe forza di aggiungere sillaba.

– Non perda tempo, concluse il signor Pretore, vada subito a casa e si riguardi. Un buon letto caldo, due pasticche di aspirina, una bella sudata e soprattutto dieta, dieta. Ha capito? Dieta! – E nel dir così lo spinse amorevolmente fuori della porta. Il cancelliere Lorenzo tornò nella sua stanza, scrisse in fretta poche righe, le chiuse in una busta d’ufficio e lasciò la busta senza indirizzo sopra il tavolino sotto un pressacarte; poi staccò il cappello ed il pastrano dall’attaccapanni e discese lentamente sulla piazza Maggiore. La traversò, era quasi deserta, e infìlata via Ricciarelli si diresse verso casa.

Sentiva un certo malessere, un sudorino ghiaccio gli bagnava la fronte, gli tremavano le gambe; o questa! che si sentisse male davvero? Ma scosse la testa. Ora parlava con la sua coscienza e comprendeva benissimo che quel malessere era tutto un effetto nervoso e quel sistema di vita non si poteva conciliare con le sue modeste risorse di impiegato.

Eppoi, al dieci del mese aveva già dato fondo allo stipendio e non aveva pagato la pigione e Nacco, fornaio, aveva sollecitato il conto della pasta e del pane e aveva Ettorino senza scarpe e la moglie non gli parlava più da due giorni. Sfìdo! Due giorni avanti era tornato alle tre di notte dal circolo e vi aveva lasciato più di mille lire in poche ore di gioco. E quella povera donna gli aveva confessato, piangendo, che erano rimasti da un pezzo senza biancheria e aveva dichiarato con dignità che non voleva più uscire, nemmeno fuor di porta, per non essere costretta a mostrare quella calia di vestito vecchio, rabberciato e ritinto, lei che veniva di buona famiglia, lei moglie di un cancelliere.

Con questo esame di coscienza Lorenzo era arrivato alla Porta San Francesco, davanti a casa sua. Ma non si sentiva forza di salire le scale. E si indugiò per la piazzetta senza sentirsi attratto dalle grida gioiose dei fanciulli che facevano il giro tondo sul sagrato della Chiesa.

Poi, come preso da una decisione improvvisa, varcò la porta quattrocentesca e si diresse a S. Giusto, verso la voragine…

S’era levata una brezza ghiaccia che gli sferzava il viso; a ponente, verso il piano di Pisa, una leggera striscia di rosso smontato nel cielo a pecorelle preannunciava la notte.

Lorenzo allungò il passo, ma procedeva a caso, come trasognato. Nel borgo di S. Stefano un alabastraio tutto bianco di polvere dalla soglia del suo fondaccio lo riconobbe, lo salutò; egli non capì e non rispose. Aveva da pensare a ben altro, ora che aveva deciso di fìnirla con la vita! A che giovava ostinarsi a restare nella miseria, nella vergogna, a lavorare tutto il giorno in ufficio per aspettare un giorno qualunque, eppoi un ventisette di passione? Pensava: gli uomini che oggi mi assillano e mi accuseranno e mi metteranno alla gogna si leveranno il cappello domani davanti al mio corpo sanguinante tratto dal fondo delle Balze! Mia moglie avrà una pensione, mio figlio ah! mio fìglio…! Ma scacciò il pensiero con un gesto della mano. Arrivò al tiro a segno. Il prato era già buio. Girò a destra ed infilò la viottola sotto le mura ciclopiche. Grossi macigni qua e là vi formano come degli scalini. Per non inciamparvi Lorenzo procedeva piano, con precauzione. Un’ombra si alzò dalla viottola scura: – O voi, siete matto, non lo sapete che la strada è franata stamani; non venite oltre vi rompereste l’osso del collo; tornate indietro, tornate e prendete per la via diritta.

La strada lunga e spaziosa che gli abitanti del Borgo chiamano «La via Diritta» era poco lontana da lì e Lorenzo tornò indietro e la prese.

Giunse nel Borgo di S. Giusto davanti alla porta Menseri; nello sfondo sotto l’arco corroso si prospettava tutta la valle sconfinata, meravigliosa sotto la luna nascente, come una visione biblica; ma Lorenzo non vi fece caso. Da una stalla semi aperta, d’onde sprigionava l’odore caratteristico del fieno e dello strame, si affacciò una ragazza che gli allungò sul viso una lucernina ad olio. Dentro la stalla c’erano delle mucche da mungere.

– Passar di costì con questo buio non la consiglio, signoria, – disse la donna con bel garbo – la balza è qui presso e senza riparo; prenda per la via diritta, giungerà in fondo al Borgo lo stesso.

Lorenzo trasalì: – La via Diritta! Cosa vorrà dir la via Diritta? Ma fu sempre la più lunga e la più penosa, e io cerco invece la più corta – e si tastò il mento come per controllare se per caso avesse il viso contraffatto e traditore.

Arrivò alle ultime casette del Borgo, riconobbe la viuzza che mena sul precipizio e vi si incamminò in fretta, furtivamente. Ora sentiva una forza sovrumana che lo spingeva, che lo spingeva; una volontà più forte di tutte le volontà. Raggiunto l’orlo del baratro stette un istante fermo in piedi a misurare con l’occhio l’altezza del vuoto. Quel vuoto era incommensurabile, non si poteva guardare; non ebbe coraggio di mirare a lungo, voleva far presto, voleva. Voleva evitare l’agonia. Per vincere la ripugnanza si abbassò sui ginocchi col viso appoggiato sul palero secco. Affacciato così guardò lontano e abbracciò con uno sguardo il vasto semicerchio di colline che si profilava meraviglioso nella penombra lunare. Poi tornò a guardare di sotto. L.e nebbie e la luna in un improvviso gioco di luce vi avevano fatto apparire un mare di latte evanescente. Dalla vicina Pieve di S. Cipriano una campana fessa suonò l’or di notte.

– Per buona sorte t’ho sentito a tempo col bastone – disse una voce roca -. C’era un bel gusto farmi far la frittata di cent’uova e passa…

Lorenzo alzò il capo e si vide a ridosso un vecchio asciutto, asciutto curvo sotto il peso di un gran corbello che portava a spalla. Infilato ad un braccio teneva due grappoli vivi di penne di colli e di creste che si misero a starnazzare.

– Mi scusi, mi scusi -. Aggiunse il vecchio appena Lorenzo si mostrò in piedi -. L’avevo preso per uno di questi ragazzi del Borgo che vengono di notte a cavare i nidi delle cornacchie!

Lorenzo rimase in silenzio. Il vecchio approfittò della sosta per riposarsi un momento. Si liberò del corbello, posò in terra i mazzi dei polli e stiracchiandosi un braccio indolenzito attaccò discorso.

Disse che si chiamava Sorba, che aveva più di settanta anni, che veniva di lontano dalle parti di Villamagna. Dieci miglia di strada con quel peso addosso e che tornava a casa. ~ E giacché ho avuto la fortuna di incontrarlo – supplicò – mi faccia tanta carità, mi dia una mano a rialzare il corbello, che da solo non ce la faccio. – E ora – aggiunse -. Badi dove mette i piedi e venga dietro a me, a menarlo sulla strada diritta ci penso io che la conosco bene! – Lorenzo ubbidì.

Come ebbero raggiunto la strada maestra il vecchio gli si mise al lato, aveva una gran voglia di parlare:
– Beati lor signori che la sera vengono a prendere il fresco sulle balze! Per me tutti i santi i giorni è questa vita, piova o nevichi; ho fatto miglia quanto il sole. Ma non mi lamento veh! Se Dio vuole, la salute non mi manca, la mi’ vecchia è fiera, son sempre andato innanzi senza pensieri. Sia lodato il Signore; che, dico bene?

Lorenzo assentiva col capo. Giunsero presto alle mura. Infilata la Porta S. Francesco Lorenzo si fermò davanti casa: – Buona notte – disse al vecchio. – Grazie.

– Buona notte, – rispose la solita voce roca – e Dio lo conservi in salute -. E sparì col suo enorme corbello per un vicolo buio.
. . .

Passarono tre mesi. Era il meriggio di pasqua. Sulla via Diritta, su quella stessa via tre persone comparvero. Lorenzo nel mezzo, col solito vestito bigio delle feste, lei a braccetto in abito nuovo a rosami, per mano Ettorino con le scarpette nuove, di bulgaro. E andavano, andavano stretti nel sole di primavera che abbacinava: parevano tre gemme rare incastonate in un anello di prezzo.

© Pro Volterra, ARTURO POCHINI
La Via Diritta, in “Volterra”