Ospedale Psichiatrico

La città di Volterra, per molto tempo, oltre ad essere ricordata come la città etrusca e medievale del vento e del macigno, veniva spesso identificata come la città dei “matti”. L’appellativo non era riferito ai cittadini volterrani, quanto agli ospiti dell’Ospedale Psichiatrico, malati di mente che, per loro disgrazia, ancor oggi, anche se in numero assai più esiguo, abitano alcuni padiglioni del vecchio ospedale di S. Lazzero.

La piccola cittadella che oggi accoglie l’Ospedale civile, trasferitosi da qualche anno da Piazza S. Giovanni per fare posto alla stupenda struttura del Centro Studi Santa Maria Maddalena, sembra che fin dal XIII secolo fosse adibito ad Ospedale.

Quando la Toscana passò dalle mani dei Medici a quelle dei Lorena, anche lo spedale ebbe le sue trasformazioni. Pietro Leopoldo soppresse le corporazioni religiose e tutti i beni della Commenda di S.Lazzero furono, prima inventariati e, poi nel 1785, alienati e posti all’asta. Non solo. E’ probabile che, come il più grande spedale cittadino di S. Maria Maddalena anche quello ormai per soli pellegrini di S. Lazzero ricevesse quella riorganizzazione stata le voluta dallo stesso Granduca per trasformare l’assistenza di beneficenza ai pellegrini e viandanti, in sicurezza sociale e assistenza ospedaliera vera e propria.

Niente comunque restò dell’antico leprosario e del più moderno ospizio e solo al piccolo podere rimaneva il nome della Commenda.

I primordi del futuro Ospedale Psichiatrico si erano però già affacciati nel vecchio ospizio, quando nel 1669 una donna, di nome Ottavia e un’altra di nome Margherita vedova Donatucci di 76 anni morivano nel nosocomio di Borgo S. Lazzero entrambe “pazze” da lungo tempo. Se quindi i primi ricoveri di ammalati mentali possono essere fatti risalire al XVII secolo, occorre aspettare il XIX secolo perché nasca, nella coscienza civile, politica e sociale, la volontà di costruire un vero e proprio ospedale psichiatrico.

E comunque ancora una volta nel periodo leopoldino che si tracciano le linee di base su cui poi si svilupperà la moderna psichiatria e l’assistenza a questa tipologia di malati. Negli edifici di “pazzeria” – come erano definite le strutture atte ad ospitare i malati mentali – prevaleva il custodialismo, con interventi medici solo nelle malattie occasionali. Se il governo dei Lorena, subentrato a quello dei Medici, cerca subito di ridurre la parte clericale nella gestione diretta delle opere assistenziali, è nel 1785 che c’è la vera e propria svolta. Il commissario dell’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, Pietro Covoni, chiamato da Pietro Leopoldo per riformulare e riorganizzare le strutture ospedaliere presenti in Toscana, trasformandole alla base, nomina Vincenzo Chiarugi responsabile dell’ospizio di Santa Dorotea, o “Casa de’ Pazzarelli”. Il Regolamento del Chiarugi, diventando l’espressione tipica del riformismo leopoldino, manifesta l’esigenza e il diritto dei malati a trovare nello spedale “un asilo, una custodia, un’assistenza, una cura”, dichiara come sia supremo “dovere umano e necessità medica, il rispetto della persona fisica e morale dei malati di mente”, impone come essenziali “la comodità, la riservatezza e la tranquillità” degli ambienti che devono sempre e comunque essere ampi e puliti, ben esposti e aerati, immersi nel verde.1

Su queste basi nacque l’Ospedale Psichiatrico di Volterra. La condizione preliminare ai fini della realizzazione del progetto fu la morte, nel 1860, di Giuseppe Viti, illustre cittadino volterrano, famoso per i suoi viaggi in Oriente e per la sua collezione pregevolissima di alabastro, che si può ammirare in Palazzo Viti in Via Sarti. Il Viti aveva lasciato al Comune di Volterra la somma di 29.400 lire perché fosse costruito un Ospizio di mendicità per i poveri del Comune. La somma, insufficiente allo scopo, fu in seguito coadiuvata da altri fondi, provenienti dal Comune e dal Capitolo della Cattedrale. Il progetto iniziale vedeva il nuovo Ospedale sorgere nei locali del monastero di S. Lino. Ma, su proposta del Presidente della Congregazione di Carità, Lorenzo Falconcini, la scelta cadde sul convento di S. Girolamo, appartenente ai francescani ma, dall’epoca delle leggi della soppressione degli ordini religiosi, abbandonato.

Già nel 1865 leggi provinciali e comunali, sopprimendo le diversità normative preunitarie, attribuivano alle Amministrazioni Provinciali l’onere di provvedere ai malati di mente poveri. Si prevedeva, inoltre, la custodia familiare che poteva essere omo familiare od etero familiare e il ricovero dei cronici negli ospizi. Con atto del gennaio 1875 il governo concesse l’uso del Convento al Comune che divise il medesimo in due parti: una riservata ad Ospizio di Mendicità, l’altra destinata ad accogliere la Scuola e Convitto del Consorzio Agrario. il Consorzio non ebbe lunga vita e il convento venne, ben presto, interamente occupato dall’altra istituzione che apri le porte ai primi vecchi malati il 27 gennaio 1884. Fu riconosciuto come Ente Morale il 5 giugno 1884 e rappresentò l’inizio dell’opera Pia di S. Chiara in S. Girolamo.

Quando, sulla fine del 1887, Aurelio Cioli subentrò al Falconcini, ci fu la svolta. Nel 1888, quando ancora vigeva la legge comunale e provinciale del 1864, in base alla quale il Prefetto fungeva sia da Presidente della Deputazione provinciale, sia da autorità tutoria per Comuni ed Opere Pie, e la nuova proposta del Ministro Crispi non era stata ancora approvata, i malati di mente della Provincia di Pisa – circa cinquecento – venivano inviati al S. Niccolò di Siena che, ben presto diventò superaffollato. Fu allora che Caioli, vincendo anche le resistenze di chi riteneva Volterra periferica, fece una convenzione con la Provincia di Pisa. I primi trenta ammalati, con una retta giornaliera di una lira, furono trasferiti da Siena a S. Girolamo. Il primo psichiatra che diresse, per breve tempo però, l’Asilo dei dementi, fu il Dott. Antonio Giannelli, sostituito da Augusto Giannelli. La popolazione aumentò sempre di più, tanto che si impose il problema di trasferire i vecchi a S. Chiara, dando inizio, per altro, all’Ospizio di S. Chiara, e di costruire un nuovo edificio attorno al quale poi si svilupperà l’intero Ospedale Psichiatrico di Volterra: il reparto, oggi Scabia, inaugurato nel 1896.

E al Prof. Luigi Scabia si deve la realizzazione di uno dei più grandi e moderni Ospedali psichiatrici d’Italia. Nato a Padova il 16 luglio 1868, Luigi Scabia si laureò in Medicina nel 1893. Dopo aver lavorato, per alcuni anni, al Manicomio di Quarto a Genova, il Prof. Scabia fu, da subito ammaliato come tanti altri, dalla filosofia del positivismo. Il pensiero e il metodo positivista lo indussero sempre a ricercare la verità nei fatti positivi e a considerare l’esperienza come fonte unica del sapere e criterio ultimo di certezza. Armato di queste forti convinzioni, il Professore arrivò a Volterra nel 1900, assumendo la Direzione dell’Ospedale che manterrà fino al 1934. Nel 1902 iniziò la trasformazione dell’Asilo dei dementi in Ente Morale col nome di “Frenocomio di S. Girolamo” e, nel 1903, venne presa in affitto la vicina Villa Giardino, di proprietà della famiglia Inghirami.

Scabia, fin dall’inizio, pensò l’ospedale come una struttura a padiglioni, corrispondente al modello dei manicomi auspicata e sostenuta dalla psichiatria dell’epoca. Riprendendo quanto già esposto nella Relazione del precedente Direttore Giannelli, Luigi Scabia tracciò una panoramica ancora più precisa e dettagliata del luogo e dell’ambiente del Frenocomio di S. Girolamo. Avvallando ogni tesi naturalistico-ambientale con tesi scientifico-mediche, Scabia, nella sua Relazione del 1904, ribadì la ottimale posizione e locazione del Frenocomio, adattissima e funzionale per l’allestimento ed edificazione di una Struttura in linea con una tipologia di manicomi moderni e, all’epoca, all’avanguardia. “Sia per posizione, che per orientamento, altitudine, natura del suolo” diceva Scabia, il complesso si presta egregiamente per la costruzione di un manicomio.

Dotata di una tabella dietetica divisa in dieta qualitativa e quantitativa, la Relazione, tesa a relazionare su quanto già era presente e funzionale nel Frenocomio, ma soprattutto a convincere gli esperti ad avvallare il suo progetto del nuovo Ospedale Psichiatrico, conteneva anche importanti notizie sulle Sorelle dei Poveri “che più intelligenti, più attive, più premurose non potrebbero essere, nell’adempiere al loro mandato”.

Impossibile tracciare la storia dello Psichiatrico senza fare continuo riferimento a Luigi Scabia, la cui storia personale e lavorativa procede di pari passo con l’evoluzione stessa della sua creatura. Prima di lui non è possibile avere dati statistici positivi, mancando cartelle individuali, registri, tabelle nosologiche di riscontro. Con lui inizia, oltre alla grande e rivoluzionaria attività medica in campo psichiatrico, anche la struttura scientifica che consentirà a medici e istituzioni di conoscere in ogni minimo dettaglio cosa i malati potevano trovare a Volterra. E già nel 1902, al principio dell’attività, illustri professori potevano parlare del Frenocornìo di S. Girolamo come di “un vero manicomio villaggio”. L’ammalato, infatti, per Scabia non doveva sentirsi come prigioniero dentro l’ospedale, ma come in famiglia, libero di girare nei viali del complesso ospedaliero, come per le strade di una piccola città. Aveva voluto creare, e ci riuscì perfettamente, un villaggio autonomo che ospitasse gli ammalati ma che, contemporaneamente, pur essendo inserito nell’ambito cittadino, vivesse di una sua vita autosufficiente ed indipendente dal resto della città. Nel suo ospedale trovarono posto officine di elettricisti, falegnamerie, botteghe per ciabattini, per fabbri, lavanderie. Tutto rientrava nella sua teoria della “ergoterapia o terapia del lavoro”, secondo cui, il malato, strappato agli incubi e ai sogni ossessionanti della follia che generano passività, poteva interessarsi ad una attività pratica, grazie alla quale avrebbe potuto intraprendere la strada della guarigione o, comunque, di una stabilizzazione della malattia.

Rifacendosi all’esperienza del manicomio di Bonifazio, aperto nel 1788, e alle sue teorie di Chìarugi, che con Pietro Leopoldo aveva dettato il Codice di Sapienza medico-psicologica e di civile dottrina, Scabia andava sostenendo il ruolo fondamentale del lavoro come elevazione morale, tanto maggiore, quando il malato poteva venire incontro alla società. Provvedendo ai propri fabbisogni, l’istituto, seguendo le massime dei vecchi, doveva nascere fra l’aria, la tranquillità della campagna e vivere a porte aperte, nel cosiddetto “open door”. L’inattività, per Scabia, doveva essere bandita perché portava, naturalmente, ad un più forte e rapido decadimento psichico. Al contrario l’operosità doveva prevalere. E particolarmente valorizzato era il lavoro campestre, sia perché distraeva la mente e rinvigoriva il corpo, sia perché, essendo facile e affascinante, poteva essere praticato da tutti. Inoltre il lavoro agricolo era stato il primo lavoro che l’uomo aveva conosciuto e, d’altra parte, il territorio volterrano era ricco di campi da coltivare e sfruttare.

Così i “pazzi” diventarono muratori, addetti alla lavanderia, falegnami, operai, contadini, elettricisti, provetti aiuto archeologi, godendo di ampia libertà e autonomia. li pericolo di fuga era ridotto al minimo e se accadeva il di orientamento provato fuori dall’ospedale era tale che induceva, in pochissime ore, il malato a ritornare a casa per ritrovare quel posto tranquillo e sicuro, asilo naturale e vitale della loro sfortunata esistenza.

E intanto il complesso ospedaliero si amplia, con nuovi padiglioni che si vanno ad aggiungere al reparto Scabia. Il padiglione Krafft Ebing si ampliò con la Villa Falconcini e fu ribattezzato Padiglione Kraeplin. Poi la costruzione di edifici sempre più moderni e funzionali denominati Verga, Lombroso, Zacchia, Colonia agricola Zani, Lavanderia Morel, Morgagni – interamente costruita dai ricoverati con l’Officina elettrica – la villa dei Cronici, gli opifici, i casotti per l’allevamento delle oche. Nel 1916 furono conclusi i padiglioni Biffi, il vecchio forno e nel 1918 la cucina e il Reparto Esquiral. Dal 1926 al 1935 i padiglioni Charcot, Caggio, Ferri, le Infermerie, i Magazzini, il Macello, il Garage, i Laboratori scientifici.

Nel 1934 gli ammalati, grazie all’opera di Scabia che continuamente manteneva contatti con le varie amministrazioni provinciali italiane, avevano raggiunto quota 3.700. Per non parlare della produzione interna raggiunta in trenta anni di attività. Dal 1928 l’officina fabbri aveva prodotto 1.100 letti e 1.000 erano in costruzione. La falegnameria aveva sfornato 1.500 infissi, 150 tavoli, 300 panche e 100 armadi. La fornace produceva, ogni anno, mezzo milione di mattoni; il mulino forniva 12.000 quintali di pasta. Per non parlare poi dell’allevamento delle oche che avevano reso 25.000 lire di carne.

La grande crisi del 1929 ebbe ripercussioni gravissime su Volterra, colpita soprattutto nell’industria dell’alabastro. Il manicomio svolse un ruolo di importanza fondamentale, offrendo posti di lavorio a tantissimi volterrani, tanto che nel 1929 si potevano contare 362 dipendenti. Poi il fascismo, preoccupato della troppo accresciuta popolarità di Scabia, mise in piedi una riuscitissima campagna denigratoria contro di lui. Assalito psicologicamente, con continue calunnie, insinuazioni e ripetuti attacchi politici, il Professore venne isolato e poi allontanato dall’ospedale. Costretto, dopo lo sfratto, ad alloggiare in una camera dell’albergo Etruria, il Professor Luigi Scabia mori nell’ottobre del 1934. Nonostante l’ordine del silenzio, imposto dal regime, ai suoi funerali accorse una immensa folla che volle così testimoniare la gratitudine della città tutta. L’esperimento di manicomio aperto, però, era perfettamente riuscito; la creatura di Scabia continuò a vivere e lavorare come Scabia avrebbe voluto.

La grande espansione dello Psichiatrico, oltre che al suo ideatore, si deve anche all’amministratore Paolo Paoletti che tenne le redini della Congregazione di Carità dal 1924 al 1943. Dopo avere ottenuto dalle province convenzionate con l’Ospedale di Volterra la rivalutazione delle rette a loro carico, Paoletti impostò una politica economica scrupolosa, nel 1932 concluse, con il Ministero di Grazia e Giustizia, una convenzione per il ricovero di 550 alienati. L’aumento del numero dei ricoverati e l’esecuzione di opere edilizie atte ad ospitare gli ammalati, determinò assunzione di personale e di mano d’opera volterrana. Nominato nel 1934 Commissario Prefettizio, Paoletti dette inizio al suo grande periodo di gestione, animato da due obiettivi: consolidare la situazione dello Psichiatrico, adeguandone le strutture e i servizi, e incrementare e migliorare la recettività e l’organizzazione degli altri importanti istituti cittadini legati alla Congregazione. E di questo periodo il grande impulso edilizio interno ed esterno allo Psichiatrico.

Ma il nome di Paolo Paoletti è legato anche all’istituto Ricciarelli e alla Casa di Riposo che fu iniziata nel 1935 e terminata nel 1942. In applicazione del R.D. 24 febbraio 1939 anche il Frenocomio venne a fare parte degli “Istituti Ospedalieri e di ricovero di Volterra”, comprendenti anche gli Spedali Riuniti di S. Maria Maddalena, l’Orfanotrofio Ricciarelli e la “Casa di Riposo S. Chiara”. L’orfanotrofio Ricciarelli forse per volontà testamentaria del cav. Mario Ricciarelli che volle che parte del suo patrimonio servisse per il ricovero di giovani poveri e abbandonati. Fondato nel 1890, l’istituto veniva amministrato dalla Congregazione di Carità. Dopo essere stato trasferito nei locali della Casa di riposo di S. Chiara, ne1 1935 prese fissa dimora nell’ex Collegio di S. Michele.

Nel 1947, dopo la grave crisi della seconda guerra mondiale, che aveva portato da 5.000 a 1.800 le presenze nello Psichiatrico, nel 1949 venne stipulata una nuova convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia per il ricovero di 500 minori corrigendi in un apposita sezione che si chiamò “Istituto di rieducazione minorenni” e nel 1950 venne aperto un “Preventorio minorile”. Il 2 ottobre 1963, dopo lo sblocco amministrativo degli Istituti Ospedalieri e di ricovero di Volterra, l’istituto acquistò una propria autonomia amministrativa, assumendo la denominazione di “Ospedale Psichiatrico”.

© Pacini Editore S.P.A., CECILIA GUELFI
Ospedale Psichiatrico, in “Dizionario di Volterra / II, La città e il territorio : strade – piazze – palazzi – chiese – ville e opere d’arte del volterrano”, a. 1997, ed. Pacini
1 Z. Ciuffoletti – L. Rombai, pp. 311-350
M. CAVALLINI, Gli antichi spedali della Diocesi Volterrana, in “Rassegna Volterrana”, a. X-XI, 1939, pp. 78-117 e a. XIV-XVI, 1942, pp. 1-17;
L. SCABIA, Come e quando nasce l’ospedale psichiatrico, in “Volterra”, a. m, n. 11, 20 marzo 1987, pp. 8-13;
L. DELLE PIANE, Come è sorto l’Ospedale psichiatrico, in “Volterra”. a. XIII, n. 11, novembre 1974, p. 8;
S. BERTINI, A trent’anni dalla morte. Luigi Scabia e l’ospedale psichiatrico, in “Volterra”, a. m, n. 9, 1964, pp. 12-15 e n. 10, pp. 12-13;
B. BERNARDINI, L’origine dell’ospedale psichiatrico, in “Volterra”, a. XV, n. 10, ott. 1976, pp. 18.19;
A. CINCI, Dall’archivio di Volterra. Memorie e documenti, Volterra, 1885;
M. BATTISTINI, Gli spedali dell’antica diocesi di Volterra, Pescia, 1932;
M. BATTISTINI, L’Ospedale di S. Lazzero in Volterra poi Commenda dei Cavalieri di Malta, Roma, 1918; La Toscana dei Lorena, riforme, territorio, società, a cura di Z. Ciuffoletti – L. Rombai, Firenze, Olschki, 1989;
E. FIUMI, L’avv. Paolo Paoletti: un amministratore onesto ed esemplare che spese una vita al servizio della sua città, in “Volterra”, a. XI, n.6, giugno 1971, pp. 12-13.