Luigi Scabia nacque a Padova il 16 agosto 1868 e si laureò in medicina nella Università di quella città nel luglio 1893. Durante il corso universitario meritò la borsa di studio Engheschi che gli permise di continuare gli studi con minori preoccupazioni economiche. Ancora laureando frequentò la Clinica Psichiatrica dove compilò la dissertazione di laurea. Già era evidente in lui la vocazione per l’investigazione e lo studio degli affascinanti misteri della mente umana. Gli anni di studio e di formazione del professor Scabia si svolsero in un periodo agitato e convulso per il nostro paese che, raggiunta l’unità, non riusciva ad organizzarsi in stato moderno ed efficiente. Erano gli anni degli scandali bancari, della corruzione nella classe politica, delle prime violente agitazioni sociali contro le impossibili condizioni di vita della classe lavoratrice. Il Paese, sotto Crispi, si avviava verso la sua prima avventura coloniale e la sua prima conseguente grande catastrofe.
L’ambiente universitario padovano era allora dominato dalla corrente del positivismo il cui più autorevole esponente italiano, Roberto Ardigò, insegnava dal 1881 nella cattedra di filosofia di quell’Ateneo ove sarebbe rimasto fino al 1911. Possiamo affermare che l’influenza delle dottrine positiviste fu assai viva nello Scabia.
Il positivismo, più che una dottrina filosofica, fu un metodo di indagine. Esso affermava che, qualunque fosse l’oggetto della ricerca, si doveva considerare l’esperienza come l’unico criterio della verità. Scabia ricercò sempre la verità nei fatti positivi e considerò sempre l’esperienza come fonte unica del sapere e criterio ultimo della certezza. L’Ardigò, è vero, insegnava nella facoltà di filosofia, ma per il positivismo c’è accordo e quasi identità fra cognizione filosofica e cognizione scientifica. Qualcosa dell’altruismo istintivo dell’Ardigò non è difficile rintracciarlo nel pensiero e nell’operato dello Scabia. Del resto, proprio per suggestione ed influenza del positivismo, si svilupparono qui in Italia, verso la fine del secolo scorso, gli studi di antropologia, di criminologia, di biologia, di psichiatria e psicologia con benefica reazione alle intemperanze ed alla ripetizione di luoghi comuni retorici, con un coraggioso richiamo alla realtà che sul piano letterario aveva trovato un corrispondente nelle opere di Verga e degli altri veristi.
Altre tracce di pensiero positivista le possiamo trovare in quella specie di religione della umanità di stampo massonico che animò, insieme ad un certo democraticismo, il pensiero e l’azione dello Scabia.
Per completare le influenze scientifiche faremo anche i nomi di Lombroso, Ferri, Livi, per non parlare della scuola medica tedesca che allora dominava largamente il campo e non soltanto nella psichiatria, anche come conseguenza della politica germanofila della classe dirigente dopo la stipulazione del trattato della Triplice Alleanza.
Pochi mesi dopo la laurea, nel marzo 1894, il giovane Scabia fu incaricato di assumere provvisoriamente l’ufficio di secondo medico aggiunto nel manicomio di San Clemente in Venezia, posto che gli fu regolarmente conferito nell’agosto successivo. Nell’agosto 1897, in seguito a concorso per esami, ottenne il posto di medico assistente nel manicomio provinciale di Genova a Quarto dei Mille dove rimase fino all’aprile del 1900 frequentando, nello stesso tempo, la clinica psichiatrica di Genova allora diretta dal professor Morselli. Nel 1900 fu nominato per concorso, direttore dell’Asilo dei dementi di Volterra, posto che egli occupò fino a pochi mesi prima della morte trasformando, con un’attività che ha del geniale, quel modestissimo Istituto in un grande manicomio moderno.
Le prime origini del futuro Ospedale Psichiatrico di Volterra risalgono al 1884 quando fu fondato un Ricovero di mendicità, opera pia formata con un legato del concittadino Giuseppe Niccolò Viti e con i fondi raccolti molti anni prima per erigere un monumento in Volterra al pontefice Pio IX, già studente nel collegio di San Michele. Di tale monumento, prima dell’unione della Toscana al Regno d’Italia, era stato realizzato il modello in gesso poi distrutto. In seguito, come abbiamo detto, i danari raccolti, con il consenso di Pio IX, furono devoluti a quella opera di carità.
La prima sede di detto Asilo fu collocata in una parte espropriata del convento di San Girolamo. Nel novembre del 1888 dal manicomio di Siena giunsero nell’Istituto quattro mentecatti tranquilli. Per impulso del presidente, avvocato Caioli, nel 1890 fu presa in affitto la villa di Papignano per istituirvi la sezione femminile dei dementi.
Il primo psichiatra che diresse per breve tempo l’Asilo dei dementi fu il dottor Antonio Gammarelli, primario del manicomio di Roma; gli subentrò per pochi mesi il professor Augusto Giannelli, sempre di Roma. Con il 1900 inizia la direzione del professor Luigi Scabia. Essa durerà fino all’anno 1934.
Anche a Volterra in quell’inizio di secolo c’era un certo fermento di idee e di attività. Stava per iniziare il periodo giolittiano che avrebbe visto un nuovo corso della politica nazionale. Erano quelli, anche nella nostra città, gli anni di un forte risveglio socialista, gli anni della predicazione anarchica di Pietro Gori, di un certo rinnovamento, con l’arrivo verso la fine del primo decennio del nuovo secolo del vescovo Mignone, anche tra i cattolici che con il loro settimanale La Scintilla avrebbero dato vita a furibonde polemiche con il foglio monarchico-liberale Il Corazziere.
In quel clima della bella epoque il giovane professore si inseriva nella vita sociale cittadina accolto con simpatia e cordialità dalla gente bene della nostra città. Dopo dieci anni di permanenza e di attivo lavoro a Volterra, nel 1910, il cavalier Giulio Bianchi, presidente della Amministrazione del frenocomio di Volterra, nella prefazione di un grosso volume sull’opera svolta dallo Scabia, definiva la di lui direzione come “zelante e geniale”. Infatti, il modesto Asilo aveva, in questo primo decennio, fatto passi giganteschi. Leggendo le relazioni ufficiali dell’epoca sembra di assistere alla vicenda di uno di quei geniali costruttori di complessi ospedalieri in lontane terre coloniali; c’è in quella impresa la febbre di azione e la rivelazione di un pioniere, di una grande individualità forse un poco accentratrice come quella di certi capitani d’industria dell’Ottocento.
Nasce sui poggi e nella vallata presso la chiesa di San Girolamo un vero “manicomio villaggio”. In data 5 giugno 1902 era avvenuta la trasformazione dell’Istituto in un Ente morale col nome di frenocomio di San Girolamo. Nel 1903 venne presa in affitto la villa Inghirami. Cominciarono a diffondersi in città i nomi, spesso un poco strani per il profano, imposti ai padiglioni del complesso ospedaliero che si ingrandisce a vista d’occhio. Nel 1985 era stato costruito il padiglione Krafft Ebing, ora lo si ampliò come pure avvenne della villa Falconcini ricostruita ab imis in padiglione Kraepelin e poi seguirono gli altri padiglioni sempre più moderni e funzionali a cui vennero imposti i nomi di Verga, Lombroso, Zacchia, colonia agricola Zani, Koch, lavanderia Morel, Morgagni (interamente costruito dai ricoverati), l’officina elettrica (costruita dai ricoverati), la Villa dei Cronici, gli opifici, le colonie agricole, i casotti per l’allevamento delle oche. Fu un vero boom edilizio quale Volterra non ha mai più conosciuto. E, già che siamo in tema, accenniamo qui alle altre importanti costruzioni che seguirono sempre sotto l’impulso geniale dello Scabia mirabilmente assecondato dai presidenti del consiglio di amministrazione, tutti volterrani. In piena guerra, nel 1916, vennero portati a termine i padiglioni Biffi, Vidoni, il vecchio forno; nel 1918 la cucina, il reparto Esquirol e poi ancora, dal 1926 al 1935, i padiglioni Charcot, Caggio, Ferri, le infermerie, i magazzini, il macello, la lavanderia, i laboratori scientifici, il garage, altri reparti presso le aziende agricole Caggio e Tignamica.
Dopo Scabia, e già progettati o ideati sotto di lui, saranno costruiti solo altri tre o quattro edifici. In tutto questo lungo periodo, l’opera dello Scabia non si limitò al campo edilizio, alla costruzione di edifici. Vennero continuamente allacciati contatti con le varie amministrazioni provinciali per ottenere la custodia di altri ammalati dalle varie parti d’Italia.
Dalle poche diecine di ricoverati dei primordi, nel 1934 gli ammalati erano saliti a circa 3.700.
Prima del professor Scabia non è possibile avere dati statistici positivi; mancavano cartelle individuali, registri, tabelle nosologiche. Con lui inizia anche la struttura scientifica.
Già in una relazione dei professori Bonfiglio e Tamburini, ribadita poi dai professori Cascaino e Morselli, nel 1902 leggiamo quanto segue: «Il frenocomio di Volterra dista dalla città 1.200 metri. Il poggio di San Girolamo è a 490 metri sul livello del mare. I padiglioni sono costruiti sul versante sud-ovest abbandonando ogni criterio di simmetria e quella uniformità che finisce per essere un poco stucchevole. E’ un vero manicomio villaggio. E’ esposto ottimamente per orientamento, altitudine, per natura del suolo. A nord la sconfinata ed ubertosa valle dell’Era sul cui sfondo maestoso si ergono il Monte Pisano e le Alpi Apuane, ad est la valle dell’Era con i Cornocchi, a sud-est il Voltraio, tra l’Era viva e l’Era morta, a sud la vallata della Cecina, a nord-ovest il verde poggio di Sant’Andrea. C’è area e aria. Il tipo di villaggio non ha carattere di reclusione, non ci sono muri di cinta. C’è un senso di conforto».
Da questa sommaria descrizione emergono alcuni dei criteri organizzativi ed anche scientifici alla base della cura delle malattie mentali secondo il professor Scabia. Per lui l’ammalato non doveva sentirsi rinchiuso tra quattro pareti come in una prigione; anticipando, in maniera veramente moderna, certi metodi che oggi vigono soprattutto per il ricupero di giovani minorati psichici, voleva che l’ammalato si sentisse come in famiglia, libero di girare nei viali del complesso ospedaliero come per le strade di una piccola città ed anche nella campagna circostante al di fuori del perimetro delle costruzioni. Per meglio sviluppare il concetto di villaggio autonomo egli fece impiantare all’interno dell’ospedale officine per elettricisti, falegnamerie, botteghe per ciabattini, officine per stagnini, fabbri, eccetera, in modo da rendere autosufficiente sotto ogni aspetto l’Istituto. Per un certo periodo egli istituì anche un tipo di moneta che doveva essere spesa esclusivamente nell’acquisto di generi vari nello spaccio interno dell’ospedale. Per un qualche tempo funzionò anche un autonomo ufficio postale. Egli voleva che l’Istituto fosse una piccola città.
Il settore in cui egli portò un contributo scientifico autorevolissimo ed originale fu quello della ergoterapia o terapia del lavoro. Mai forse il lavoro fu innalzato a tanta dignità ed importanza. Egli pensava che se il malato fosse stato strappato alla abulica passività in cui gli incubi ed i sogni ossessionanti della follia lo piombavano, se avesse potuto interessarsi ad una attività pratica un grande passo in avanti sarebbe stato compiuto sulla via della guarigione o comunque sulla via della stabilizzazione della malattia. Perciò gli ammalati venivano impiegati nei lavori edili, nelle varie officine, nei lavori agricoli, negli scavi in terreno di interesse archeologico ed in altre attività sedentarie per quelli dal fisico più debole.
Anche la ricreazione aveva una funzione importante nel pensiero di Scabia. Per questa ragione egli organizzava quello che certi giornalisti italiani e stranieri chiamavano il “Carnevale dei Pazzi”, consistente in feste da ballo ed in recite a cui prendevano parte ammalati, infermieri e personale sanitario, così che il degente potesse scaricare in attività estrose le sue anomalie psichiche.
Sul piano teorico tutto ciò era stato anticipato da Chiarugi, Pinel, Livi e da altri scienziati ma in Italia non si era fatto molto di concreto in questo senso. Il professor Scabia parla diffusamente di questi suoi sistemi in numerose relazioni tenute in congressi di alienisti ed anche in un lungo articolo pubblicato nel numero II dell’anno 1933 della Rivista di diritto penitenziario dal titolo La terapia del lavoro nello Ospedale Psichiatrico di Volterra al quale è annessa una sezione di manicomio giudiziario. Secondo lui il pericolo di fuga dell’ammalato era ridotto al minimo ed aveva carattere di allontanamento temporaneo; in genere, dopo poche ore, esso era ricondotto all’Asilo per il suo non facile orientamento. L’inattività, invece, aumentava il torpore della psiche. Rarissimi poi erano gli infortuni tra i ricoverati applicati ai vari lavori.
Le sue pubblicazioni scientifiche furono oltre quaranta, tra le quali ricordiamo:
Terapia delle malattie mentali – Guida all’infermiere dei malati di mente – Intorno all’azione della atropina sulla frequenza del polso nelle varie psicopatie – Sul ricambio materiale delle demenze – È veramente efficace la nitroglicerina nella cura della epilessia? – Custodia omofamiliare ed eterofamiliare – L’arte ed il concetto di degenerazione – Sul tipo etnico degli Etruschi rilevato dallo studio dei monumenti del III e IV secolo ed altri studi sull’isterismo, sulla diatesi paralitica, eccetera.
Ecco ora alcuni giudizi della stampa estera qualificata sul valore scientifico dell’opera di Luigi Scabia. La Tribune de Geneve del 5 giugno 1926 parla del “valore internazionale” delle esperienze effettuate nel manicomio di Volterra. La Suisse liberale del 9 agosto 1926 sottolinea il successo dell’ergoterapia nell’Istituto di Volterra; giudizi lusinghieri sul valore del professor Luigi Scabia sono dati dall’illustre psichiatra Charles Ladame dell’Università di Ginevra e direttore del manicomio svizzero di Bel Air. Il Giornale d’Italia del 3 febbraio 1928 definisce il professor Luigi Scabia “uno dei primi alienisti d’Europa”. Su La Nazione del 7 ottobre 1933, il professor Manzoni, direttore del manicomio svizzero di Mendrisio nel Canton Ticino, dichiara che «il Manicomio di Volterra è giunto a tale altezza che non teme confronti. Esso si può ritenere “Le Geel d’Italie”, cioè simile alla grande colonia psichiatrica olandese ove gli ammalati godono tutti della più grande libertà».
Concludendo questi cenni necessariamente brevi sugli interessi scientifici del professor Scabia, vogliamo accennare ad alcuni esperimenti di colorazione di vari tipi di alabastro (macchiato, bardiglio, ecc.) di cui abbiamo trovato parziali cenni in alcune ingiallite paginette di quaderno. È un problema ancora oggi non del tutto definito scientificamente. Era un suo hobby extraprofessionale in cui impiegava il suo poco tempo libero. Altra sua passione erano i fiori. Li faceva coltivare ovunque nell’interno dell’Ospedale Psichiatrico: i crisantemi in maniera particolare.
Ci siamo lasciati prendere un poco la mano ed abbiamo anticipato qualche notizia sull’attività e sulla vita dello Scabia.
Ci piace rilevare ora la stima e la profonda considerazione provata da Gabriele D’Annunzio verso l’illustre psichiatra. Il poeta nel 1909 fu a Volterra ove trasse ispirazione per il suo romanzo Forse che sì forse che no.
Conobbe il professore e strinse con lui una ammirata e rispettosa amicizia come è dimostrato da una lunga corrispondenza oggi purtroppo quasi tutta dispersa. Il poeta andò a trovarlo nel suo ufficio di Direzione e gli pose minuziose domande per il suo romanzo ed in una lettera così il poeta scriveva: «Vede come sono fastidioso? Ma come le dimostrerò la mia gratitudine? Intanto le prometto uno tra i primissimi esemplari del mio libro. E spero che dalla lettura Ella abbia qualche gioia». La promessa fu mantenuta. Il romanzo fu inviato con la seguente dedica: «Al dottor Luigi Scabia in cambio dei crisantemi coltivati dalla Follia». Il D’Annunzio aveva chiesto anche al direttore diversi libri di psichiatria ed impressioni su vari aspetti del manicomio. Così lo definisce in un passo del suo romanzo: “L’uomo d’alto ingegno, di profonda coscienza e di rigidissima disciplina della reggia della Follia”.
In altre pagine del romanzo sono vivissime le annotazioni che il poeta colse e trascrisse direttamente sul suo taccuino circa la vita dell’Ospedale Psichiatrico come segue: «Contro un muro scialbo, le pazze sono sedute a cucire i ferzi delle lenzuola ed intorno gracidano le oche. I dottori hanno lunghi camici e l’aria indifferente. Prima di giungere sul sagrato di San Girolamo si vede la Casa, di là dalla rete di ferro… Fabbricano, fabbricano sempre, essi stessi, perché non c’è più posto. Il numero cresce ogni anno. Essi portano la calcina, portano le pietre. S’intravede un muro fresco che s’alza. C’è l’odore di quella cosa nell’aria. Qualche volta s’incontra per un sentiere, tra gli ulivi, uno che si ferma a guardarti e ride, ride, sotto un povero berretto bianco, con un’aria dolce… ».
Potremmo continuare ma i nostri lettori potranno trovare altre citazioni nel bel libro di Luigi Pescetti su D’Annunzio e Volterra. Il romanzo del D’Annunzio innalzò ancora di più, se ce ne fosse stato bisogno, la fama e la stima universale del professor Luigi Scabia.
Non vogliamo ricordare diffusamente i molti concorsi a cui il professore partecipò, più per accumulare titoli che con l’intenzione di abbandonare il suo lavoro a Volterra che gli aveva preso letteralmente l’anima.
Intanto nel 1912 fu incaricato dal Ministero della Sanità di organizzare tutti i servizi degli alienati nella colonia della Tripolitania conquistata l’anno precedente. Egli si recò a Tripoli ove dimorò per circa sei mesi espletando ottimamente il suo incarico. Con gli intimi, più tardi, si rammaricava di un fatto che lo aveva profondamente angustiato. Un alto ufficiale dell’esercito, qualche tempo dopo, aveva requisito una parte dell’edificio manicomiale per trasformarlo in un postribolo per la truppa di stanza in quel settore della colonia.
Poi venne la prima guerra mondiale. Sin dagli ultimi dell’Ottocento si erano formate in Volterra varie associazioni politiche. Erano presenti i liberali-monarchici, i radicali-liberali, i socialisti, gli anarchici e, con il vescovo Mignone, sorsero anche alcuni circoli giovanili cattolici. Lo Scabia non si interessò mai molto di politica. Fu per qualche tempo vicepresidente della locale Associazione Monarchica e per molto tempo consigliere comunale; poi si legò in stretta amicizia con il concittadino Arnaldo dello Sbarba, prima socialista e poi socialriformista, divenuto più tardi ministro di Grazia e Giustizia.
Durante la guerra egli fu chiamato alla direzione degli Spedali di Santa Chiara in Pisa con annessi ospedali militari, fra cui quello sussidiario di Volterra a Sant’Andrea nei locali del Seminario. In questo periodo egli fece costruire un raccordo ferroviario aprendo un varco nella cinta delle mura pisane in modo che i vagoni giungessero all’interno dell’ospedale senza effettuare ripetuti, pericolosi trasbordi. Con tutti questi incarichi egli non aveva che il suo più che modesto stipendio dell’Ospedale Psichiatrico di Volterra e non percepiva niente altro, neppure una indennità di trasferta.
Finita la guerra, nel 1919 fu inviato dal prefetto di Pisa a combattere una terribile epidemia di vaiolo scoppiata a Legoli nel Comune di Peccioli. Fra i colpiti c’era anche un soldato proveniente dalle tenute di San Rossore dove in quell’epoca soggiornava la famiglia reale. L’epidemia fu particolarmente grave. Circa il quaranta per cento dei colpiti morì. Gli era compagno il figlio, giovane aspirante ufficiale medico. I due vissero isolati per diverso tempo in Legoli. Ci fu anche un sopralluogo del direttore generale della Sanità, Lutrario. La malattia fu vinta e il professor Scabia fu insignito con la medaglia d’argento al merito della Sanità Pubblica.
Altri faticosi interventi poi, sempre su ordine del prefetto, il professor Scabia dovette effettuare in molti paesi nei dintorni di Pisa durante la successiva grave epidemia di influenza.
Intanto stava mutando il clima politico del paese con l’instaurazione della dittatura fascista.
Su Il Corazziere dell’8 novembre 1922 c’è un’anonima protesta di un gruppo di infermieri ex combattenti che affermano di non aver potuto partecipare alla cerimonia del 4 Novembre perché trattenuti in servizio. Il professor Scabia risponde nel numero successivo pacatamente che, oltre agli infermieri in regolare permesso, erano stati concessi permessi straordinari a numero 1 musicante, a numero 6 fascisti, a numero 6 nazionalisti, a numero 6 combattenti, a numero 6 infermieri in divisa in rappresentanza dell’Istituto con relativa bandiera. Il totale degli infermieri assenti era stato di numero 61 e ciò era avvenuto con notevole pregiudizio del servizio.
Abbiamo voluto riportare questi particolari perché essi sono un sintomatico documento della nuova situazione che andava lentamente maturando in Volterra e negli Istituti Ospedalieri dove si inizierà negli anni seguenti una progressiva politicizzazione. È il primo scontro tra una mentalità razionale e l’irrazionalità della dittatura.
Scorrendo le raccolte de Il Corazziere degli anni seguenti si nota che il nome di Luigi Scabia ricorre ancora abbastanza spesso, ma non con quella frequenza con cui avveniva un tempo.
Verso gli anni 1927-1928-1929 circolano nella nostra città valanghe di lettere anonime tanto che il podestà fascista, colonnello A. Carraro, è costretto a pubblicare una dichiarazione su Il Corazziere del 13 gennaio 1929 contro questo vergognoso uso, minacciando severe sanzioni ed invitando gli anonimi a farsi riconoscere specialmente nel caso di gravi accuse a carico di eminenti cittadini.
Tra questi eminenti cittadini si trova anche il professor Scabia. La sua formazione culturale, il suo temperamento, la sua istintiva carica di umanità, la sua intelligenza erano quanto di più lontano si potesse immaginare nei confronti del fascismo. Ciò nonostante egli continuava ad essere stimato e rispettato dalla cittadinanza ed anche da un discreto numero di autorità fasciste e parafasciste. Egli continuava a ricoprire cariche importanti nei vari istituti cittadini come quelle di presidente del consiglio di amministrazione del Conservatorio di San Pietro che sotto la sua guida raggiunse il massimo del suo splendore, di presidente della locale Scuola d’Arte, di membro del consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Volterra, di membro dell’Accademia dei Sepolti, di componente del direttivo della Pro Volterra. Troviamo citato il suo nome con grandi lodi anche in una relazione del dottor Levi, pubblicata nel 1928 negli Atti della Regia Accademia dei Lincei, per aver messo a disposizione una squadra di ammalati nella campagna di scavi effettuata sul piano di Castello durante la quale furono trovati ruderi interessantissimi e frammenti statuari.
Intorno agli anni Trenta vi furono a Volterra festeggiamenti per celebrare il trentesimo anno della Direzione dello Scabia. Fu tenuto anche un solenne banchetto (l’ampia sala non conteneva più le persone) e vi intervennero tutte le autorità civili e militari. Forse queste sincere dimostrazioni di affetto non piacquero a certi ambienti politici. Si ebbe forse paura di questo grande movimento spontaneo di simpatia verso una persona non inquadrata nel sistema politico vigente. Poco dopo vennero sferrati attacchi violenti contro il professor Scabia. L’atmosfera divenne asfissiante tanto che il professore capì che la sua posizione stava divenendo insostenibile. Egli non era più desiderato. Stava tentando di trovare la via per una soluzione onorevole. Ma quando si sembrava sulla via dell’intesa, ed a ciò si adoperavano alte personalità come il senatore Viola, il senatore Rocco, il senatore Guidi, tutti in ottimi rapporti con lo Scabia, la lotta divenne più vivace fino ad assumere la forma di una vera persecuzione provocatoria.
All’Amministrazione dell’Istituto si susseguirono i commissari governativi in luogo delle regolari amministrazioni che avevano portato alla floridezza il manicomio. Il commissario Fiamingo venne ben presto allontanato perché non riuscì a trovare capi di accusa contro il direttore Scabia. Anzi, in una intervista rilasciata a La Nazione in data 6 settembre 1932, egli così parlava dello psichiatra: «Dobbiamo essergli grati di quel tanto che ha fatto e che ancora farà per l’incremento dell’Istituto al quale ha donato interamente sé stesso».
Ma ormai da certi ambienti locali e provinciali del PNF si voleva giungere alla normalizzazione. Si nominò un nuovo commissario, docile strumento di quegli ambienti politici. Si intensificò la campagna contro di lui. Si cercò di colpirlo nella onorabilità, nella famiglia. Da relazioni e da testimonianze di cittadini che a quell’epoca ne furono a diretta conoscenza e da tracce trovate nelle poche carte lasciate dal professor Scabia, rileviamo questa fitta rete di calunnie. L’operato del direttore dell’Ospedale Psichiatrico è controllato da spie, dal comando locale della milizia fascista. Si tratta l’illustre scienziato come un volgare delinquente comune. Si piantona notte e giorno la sua abitazione. Ogni particolare della sua vita passata viene sottoposto a faziosa, grottesca e malevola interpretazione. Si cercò in ogni modo di sminuire i suoi meriti nella creazione del manicomio. Si cercò di screditarlo presso i suoi dipendenti. Si attaccò nella maniera più grossolana e più rozza la sua preparazione scientifica; lo si accusò di essere affetto da megalomania, di abuso di autorità, di avere una mentalità democratica (sic), ma non si poté trovare altro che il fatto di aver stampato due fotografie personali nel laboratorio fotografico dell’Istituto.
L’accusa più grave e più ripetuta era quella di aver svolto una condotta politica antifascista, sia in servizio che fuori servizio. Si disse che nel 1921 avrebbe assunto come dipendenti del manicomio elementi antifascisti, che aveva sottoscritto pro Matteotti nel periodo aventiniano, che con la sua propaganda antifascista tra i dipendenti aveva fatto allontanare dal PNF circa quaranta infermieri, che aveva rimproverato sempre elementi fascisti (si trattava di provvedimenti verso dipendenti che non facevano il loro dovere).
È veramente una pagina vergognosa nella storia del nostro maggior istituto cittadino. Il Corazziere dell’11 febbraio 1934 accenna ad una delibera del commissario straordinario in cui si paventa il distacco dell’Ospedale Psichiatrico di San Girolamo dagli altri organismi cittadini per la erezione in Ente Autonomo alla diretta dipendenza del Ministero. Fu anche questo, forse, un tentativo per liberarsi della incomoda presenza del professor Scabia. Contro questo ventilato progetto prese posizione, in un numero successivo dello stesso giornale, il N.H. Michelangiolo Inghirami che, interpretando il pensiero della pubblica opinione, sollecitava un chiarimento sulla questione. Seguì una rabbiosa ed ambigua smentita della locale Giunta esecutiva fascista in difesa dell’operato del commissario.
Ormai si era alle strette. Il vecchio professore venne sottoposto ad inchiesta e sospeso dal servizio e dallo stipendio sotto le insensate accuse sopra accennate che poi, alla fine della ridicola e faziosa indagine, per la loro inconsistenza portarono alla sola censura.
Intanto si modificava lo Statuto interno e si abbassava il limite di età per la collocazione in pensione da 70 a 65 anni. Il Corazziere del 3 giugno 1934 pubblicava il bando di concorso per titoli al posto di direttore dell’Ospedale Psichiatrico. Lo Scabia veniva così messo d’autorità in pensione ed estromesso, benché sofferente, dalla villa di San Lazzero. Gli si rifiutò anche una proroga dello sfratto. Entro il 9 settembre 1934 dovette lasciare l’abitazione.
Siamo ormai alla fine. Il vecchio professore è solo; è costretto a riparare in una cameretta dell’Albergo Etruria, in Via Guidi. Non esce quasi più, è spezzato. Il Corazziere del 21 ottobre 1934 così annunciava la morte del professor Scabia: «Nelle prime ore del giorno 20 corrente, dopo breve malattia, ha cessato di vivere il Comm. Prof. Luigi Scabia, per 34 anni Direttore del Frenocomio di San Girolamo. Alla famiglia esprimiamo le nostre profonde condoglianze».
Così ne parlava il settimanale cattolico L’Araldo in data 27 ottobre 1934, dopo aver accennato alla visita del vescovo Munerati alla vigilia della morte: «La città di Volterra deve essere riconoscente alla memoria dello scomparso; alla energia, alla ferma volontà, alle doti sue preclare di esimio amministratore si deve se l’Ospedale Psichiatrico, che 35 anni or sono era composto di due padiglioni, oggi è un paese che, in momento di crisi, dà il sostentamento a buon numeri di famiglie volterrane».… «Noi ci inchiniamo davanti la sua bara ed auguriamo pace all’Anima sua».
La Rivista di Psichiatria e di Neuropatologia dava notizia della scomparsa dello scienziato in due fittissime pagine di necrologio nel fascicolo IV del 1934, dicendo tra l’altro: «Una raffica di discordie insorte con l’Amministrazione dell’Ospedale (e che noi non conosciamo nella loro essenza) determinò la sua andata a riposo e dopo pochi mesi, forse scoraggiato dal dolore di aver dovuto abbandonare quell’opera alla quale aveva sacrificato tante fatiche e tante pene del suo spirito ed alla quale si accingeva ad aggiungere ulteriori fatiche che l’avrebbero resa più bella e più nobile, non poté resistere al destino che crudelmente lo fiaccò e lo spense. Questa rivista non può fare a meno di rimpiangere la perdita di quest’Uomo di cui, se si può in certo qual modo criticare i concetti e i metodi (talvolta eccessivi) applicati alla tecnica manicomiale, è necessario riconoscere l’intelligenza, la fede, la grande energia e l’arditezza che ne fanno un carattere tenace, qualità sempre molto lodevole».
I funerali si svolsero il 21 ottobre 1934. Il trasporto funebre partì dalla stanzetta dell’Albergo Etruria dove la buona proprietaria lo aveva curato amorevolmente e gratuitamente negli ultimi tempi.
Le autorità avevano imposto le esequie alle ore 6 del mattino. Era una brutta giornata di ottobre, pioveva e tirava un vento violentissimo, ricordo. Si voleva impedire ai cittadini di tributare l’estremo commosso omaggio al loro “papà”. Ma il trasporto si trasformò in una manifestazione silenziosa di elevata dignità umana e di coraggio. Via Guidi e le strade adiacenti erano gremite di persone incuranti dell’ora antilucana e della pioggia.
Il professor Scabia volle essere sepolto nel Campaccio, allora settore del cimitero quasi deserto e pieno di erbacce in cui si inumavano poveri diavoli o dementi estinti non reclamati dalle famiglie. La sua tomba, modestissima, da allora nel giorno dei Morti fu sempre letteralmente ricoperta di fiori e ravvivata dalla luce tremolante di centinaia di lumini accesi quasi a ricordare quella luce di amore e bontà, di fratellanza e di speranza che egli, da vivo, aveva acceso in tanti cuori.
Di chi la colpa? La solitudine fu per quest’uomo una notte piena di misteriose minacce. Non gli mancava il coraggio, ma l’amarezza lo travolse. Negli ultimi mesi era come se fosse al confino. La sua creatura, l’Ospedale, ora apparteneva ad altri. L’ingratitudine umana l’offendeva. La molla vitale che lo aveva spinto ad affrontare tante battaglie vittoriose, si era spezzata. Fu la fine, perché morire è anche desiderio di non vivere.
Di chi la colpa? E’ forse inutile oggi andare a rovistare in quel groviglio viperino di rancori, passioni, odi, sentimenti assurdi e pazzeschi. Noi lo abbiamo fatto e ne siamo stati disgustati. La viltà è una forma di pigrizia fisica e morale che degenera rapidamente in malafede. Non è vile chi ha paura ma chi cede alla propria paura e cerca un alibi morale. Quando l’uomo è chiamato di fronte a sé stesso o di fronte ad altri a giudicare la propria condotta, quando tradisce un amico, una parola, un ideale, quando cambia bandiera, quando china la testa o la schiena, l’uomo vile dirà sempre: «Ma io che ci posso fare? Io non c’entro». E tutto il male che si commette nel mondo si compie da parte di uomini che di proprio, in quel male, a sentir loro, non ci hanno messo davvero nulla.
Ma chi lo compie allora questo male? La storia ha fatto giustizia. Ma non ancora giustizia vera agli occhi dei cittadini di Volterra.
Esiste da tempo presso gli uffici dell’Amministrazione dell’Ospedale Psichiatrico un progetto per la sistemazione di un’ampia terrazza con giardini e panchine all’interno del complesso ospedaliero, il tutto dominato da una grande statua bronzea del fondatore di questo nostro massimo Istituto. Dopo trenta anni dalla sua morte crediamo che sia giunto il momento di realizzare questo progetto.
Per 34 anni egli visse per l’Ospedale Psichiatrico. I cittadini volterrani vogliono che anche tangibilmente egli continui a vigilare dall’alto del suo piedistallo sulla bianca città della follia sorta dalla sua passione di uomo, di scienziato e di italiano.