In Toscana si chiamavano «bande» le milizie volontarie del contado riorganizzate nel secolo XVI dal duca Alessandro e da Cosimo I de’ Medici come supporto militare capillarmente diffuso nello stato, poco costoso e soggetto a servizio in caso di necessità. Ne facevano parte uomini dai 18 ai 60 anni circa, senza stipendio e non accasermati, da radunare nelle rassegne per istruirsi nelle armi e nelle manovre, ma beneficiari a compensazione di ampi privilegi fiscali, politici e amministrativi.
Anche Volterra, città di riferimento di un ampio territorio, aveva la sua banda. Ne era capitano nel 1542 Luchino Valazzana da Fivizzano, coniuge della volterrana Elisabetta di Mariotto Lisci. L’uomo aveva ricevuto l’incarico di verificarne l’efficienza e di informare il duca Cosimo sullo stato della fortezza dopo anni di trascuratezza. Così redasse una relazione in cui scrisse tra l’altro che il torrione della rocca vecchia aveva bisogno di restauri e gli archibugi «da posta» erano «guasti da ruggine».
Nel 1543 della banda fu redatto il «ruolo» che riportava i nomi di Piero di Salvestro luogotenente e di Vincentio Falconcini. I Comuni «fornitori» di soldati erano, nell’ordine scritto nel documento, Villamagna e pendici, Montecatini e Gello, Pomarance, Castelnuovo, Querceto, Montecastelli, San Dalmazio, Sillano, Montecerboli, Serrazzano, Leccia, Lustignano, Sasso, Sassa, Libbiano, Micciano, Monteverdi, Canneto, Campiglia, Castagneto, Sassetta, Bolgheri, Bibbona, Casale, Guardistallo e Montescudaio.
Nel giugno dello stesso 1543 la banda di Volterra fu mandata in soccorso di Piombino che stava per essere attaccata dalla flotta ottomana del feroce Khayr al-Din detto il Barbarossa, alleato dei francesi. Il duca Cosimo, pressato da Carlo V, aveva già inviato a Iacopo V Appiani, signore del luogo, il commissario delle bande Girolamo degli Albizi per far rinforzare le mura e l’organico. La missione però non aveva avuto successo, di modo che quando l’armata ottomana fu avvistata sul mare, i piombinesi fuggirono calandosi dalle mura, mentre l’Appiani, «spaventato et fuora di sé, con una corona di paternostri in mano, cominciò a piagnere» – come scrisse il duca Cosimo all’ambasciatore imperiale Francisco Alvarez de Toledo.
Il commissario allora introdusse nella fortezza le truppe del signore e la banda di Volterra, capitanata da Luchino: in totale 550 fanti, ai quali si aggiunsero nel giro di un paio di giorni altri 300 uomini del colonnello Otto da Montauto. Possiamo immaginare con quali sentimenti i soldati si preparassero alla battaglia contro uno degli avversari più spietati dell’epoca. Fortuna volle che, mentre il corsaro si apprestava a entrare nel canale, si levasse un forte vento di libeccio e il mare ingrossasse, costringendo la flotta a riparare a Portoferraio nell’Isola d’Elba.
«Certamente habbiamo da ringratiare Iddio Nostro Signore che non habbi tentato Piombino, perché se lo havesse fatto, ancorché vi fusseno entrati dentro quelli capi et soldati miei, nientedimeno per la debolezza della muraglia, et per trovarsi quella terra spogliata d’ogni bene, era facil cosa che Barbarossa se ne insignorisse, et la tenesse et fortificasse per sé o per i franzesi» – scrisse Cosimo a don Francisco e si può esser sicuri che, oltre al duca, anche gli uomini della banda di Volterra furono lieti dell’imprevisto soffiare di vento.