Questo studio offre un contributo alla conoscenza della vita familiare e quotidiana e dei luoghi di Volterra e delle sue pendici nel 1429 – 1430. Si basa sullo spoglio completo del registro 271 (più di 900 fogli) e parziale del 193 (enti religiosi), conservati nel fondo del Catasto dell’Archivio di Stato di Firenze.
> Sommario, Il quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30
Le spese più comuni in agricoltura riguardavano le potature, le legature, gli scavi, i rincalzi della vigna, il sarchiare e mietere, la seghatura e trebbiatura, il rimettere fosse e altro, il mantenere l’acqua e racchonciare (accomodare) le case e gli acquedotti dei mulini, la vettura di portare la raccholta a Volterra, l’acquisto di sementi, di pali e salci, terratico e sovesci (seppellimenti della biada per ingrassare il terreno), i rassini, le funi, le corregge, i marroni, maretti e ferri aratoli (aratri e altro), i somieri (asini), la perdita dei buoi e di pecore… Dobbiamo l’abbondanza di informazioni al fatto che nel catasto le spese o perdite diminuivano l’imponibile e quindi le tasse.
Sono numerose anche le notizie sugli addetti all’agricoltura: lavora Urbano e Domenico d’Andrea a mezzo (una possessione a Selci degli Incontri); lavora Antonio e Taviano di Michele vochato Ceppatello da Montechatini (un podere a Ragone dei Seghieri); lavora a mezzo Bartolo di Meo da santo Gimignano (le terre a Corrente dei Serguidi); furono lavoratori di messer l’abate di santo Giusto in un podere chon un paio di buoi (Giovanni e Michele di Betto); fu lavoratore dei frati (Mariano di Giovanni); fu lavoratore dei frati di santo Andrea (Biagio); Michele di Bonaiuto lavora terre da Chorso d’Andrea Adimari e da ser Michele di Matteo e così via.
Meno frequenti appaiono le società di lavoratori-finanziatori o lavorerie: Tancredi di Martino aveva una lavoreria insieme a Iachopo di Vannino da Gello, hanno tolte [prese] più terre a terraticho da più persone, un paio di bufali li hanno tolti a gioaticho; ser Ottaviano dei Vermicelli teneva una chonpagnia chon Iachopo di Francescho e fratelli [Cinelli] per lavoro di terre; [ha di] prestanza 5 buoi giovani e vecchi, l. 35; su detti terreni raccholghono grano mog. 14, biada mog. 2, fave st. 12, lino lib. 32; sbattuto il seme e il terraticho resta grano mog. 3 e st. 6, biada st. 10, fave st. 4, lino lib. 16.
Altri addetti ai lavori di campagna erano i fattori, cioè gli amministratori di terre per conto altrui. Francesca Mannucci dava 40 lire a Giusto di Taviano suo fattore; Niccolaio di Piero era creditore di Meo di Cara fattore di tale Bertaccio; Bonifazio Pardi aveva avuto un affare con il fattore dell’abate di Settimo (Firenze); il vescovo teneva un fattore per sé e un altro con un fante per la chalonicha di Paurano.
I contratti regolavano i rapporti tra proprietario e lavoratore. Nelle zone meno abitate era in uso il terratico: il proprietario concedeva la terra a un lavoratore, spesso un emigrante, e riceveva una su tante parti di raccolto. Ramondo Baldinotti a Gello aveva un podere spezzato non sa del tutto i chonfini e vi ricavava grano e olio a terratico; Francesco di ser Luca dichiarava un podere nella Zambra lavorato in parte a terratico da Michele di Giusto da Fatagliano.
Con il contratto di prestanza invece il proprietario (oste) concedeva la casa poderale al lavoratore e anticipava il denaro con la condizione della restituzione alla raccolta. Il lavoratore cercava di fare rendere la terra in modo ottimale. Si caricava di debiti in caso contrario. Così era successo a Verano di Giusto che doveva una somma a Nanna vedova di Piero di ser Michele per presto gli fece chome suo lavoratore della cholonbaia; e a Simone di Gano Colli debitore di 156 lire verso ser Michele Turini suo oste.
Un altro contratto, l’affitto, era usato per le pasture o per le terre di valore. L’affittuario poteva ingaggiare un salariato per la guardia degli animali o per lavorare la terra. Per esempio, la Badia aveva un credito da ser Michele di ser Turino per fitto di pasture poste alla Brulanda; lo spedale di S. Maria aveva affittato un podere a ser Andrea del Giorno per 6 lire e 10 soldi all’anno; e Tommaso Buonamici teneva in affitto un poderetto da Antonio di Niccolaio di ser Gabriello chome erede di ser Antonio di Michele Ganucci (sic).
Il livello invece era poco usato e per lo più da enti religiosi (l’abbazia di S. Giusto, il vescovado, la chiesa di S. Piero, i frati Olivetani). Unico caso in città era quello di Niccolaio Pellegrini con un pezzo di terra… vi ha fatto una fornacetta che fa chalcina e mattoni tiella a livello dai frati di santo Andrea.
Ma il contratto più diffuso per vigne, orti, poderi e proprietà di valore era la mezzadria (a mezzo): il proprietario e il lavoratore si dividevano il raccolto in parti uguali. Numerosi sono gli esempi nel catasto, e di questi citiamo la bella possessione a Fonte Nuova delle eredi dello Spera, lavorata a mezzo da Michele di Iacomello.
Altri «patti» erano particolari: Attaviano Barlettani teneva il podere di Villamagna perché il lavoratore Salvi di Giusto abbia fichi e dell’uva per mangiare; Guasparrino Nardi aveva patto chol lavoratore che della terra non gli dia nulla purché lavori gli ulivi e gli dia la metà di ciò che viene dagli ulivi; e Taviano di Simone aveva allogato terra ulivata e boscata in Lecceto ad Antonio di Donato per dieci anni, per 3 anni non à a dare nulla, gli altri 7 deve dare l’anno l. 2.15.
Da segnalare, sebbene non faccia parte delle «obbligazioni per locazione-conduzione», l’acquisto a vita di una terra. Citiamo dalla posta di Taviano di Lenzo la possessione di S. Iacopo che chonprò dal monastero di santa Chiara di Volterra per tutta la vita di lui e della sua donna, poi ritorna al monastero. Chostogli l. 400; metà era a sua mano, l’altra metà alloghata ad Antonio genero di Lorenzo dalla Porta49.
Le produzioni più comuni dei poderi erano il grano, il vino e l’olio, la spelda, l’orzo, le fave, il lino, le noci, i fichi e lo zafferano. I fiori violetti di questa spezia decoravano le località Valle, Santonuovo, Rioddi, Porta di S. Angelo, Torricchi, Pinzano, Terminello, Cetine. Il prezzo corrente sul mercato nel 1429-30 era di 12 soldi l’oncia.
Il grano era coltivato dove era possibile farlo, e la terra veniva dichiarata come lavoratia. Una volta fatto il raccolto, si mettevano da parte la semente per l’anno dopo e il necessario per la vita della famiglia del lavoratore. Il resto veniva portato in città, nei granai privati o venduto al mercato, al prezzo di 10 soldi lo staio, oppure 12 lire il moggio (un moggio erano 24 staia). Gli altri cereali e le graminacee avevano queste valutazioni: l’orzo 6 soldi lo staio, la spelda 4 o 5 soldi lo staio, la biada 4 o 5 soldi lo staio, il fieno 6 soldi la soma oppure 18 soldi il migliaio.50
Il grano veniva macinato nei mulini, che necessitavano di un corso d’acqua, anche modesto, per muovere le pale. Si trovavano sull’Era, sul botro di Pinzano e sul Cecina.
Sull’Era era situato il mulino della Noce presso la via che va alla Rocca, associato ad un podere che rendeva 3 staia di grano, polli, uova e piccioni, e affittato dal proprietario Iacopo Compagni al mugnaio Matteo di Giusto del contado di S. Gimignano – o a Chele di Tomme secondo altre poste catastali.
Un secondo mulino sul fiume veniva detto il Mulino del Prato, di proprietà sempre dei Compagni e dei canonici. Aveva una colombaia e pioppeti intorno, ed era allogato a persone non dichiarate.
Un terzo mulino, fatto di nuovo e non è fornito, richolto a ghora per stecchaia era pertinenza di un palazzetto di chorte sopra di sé, per il mezo dei quali è il fiume Era. Apparteneva ai Serguidi ed era affittato a Montanino di Nicolaio.
Un altro ancora, del vescovado e dei canonici, era situato accanto ad uno di Iacopo Compagni, e tenuto da Giacomo e Matteo Angelini debitori di st. 40 di grano, salvo che veschovo e chapitolo hanno a restituire del choncimo d’un solaio e del tetto, per quello diranno due maestri…
Un quinto mulino, dei Lotteringhi, si trovava a Suomina (Cortilla), ma era guasto (non macina).
Un’altro ancora, terragnolo chon una sovita e un postino, era a Capreggine e Casale. Apparteneva ai Lottini e ad Ambrogio di Santino di Ghese e veniva fatto funzionare dai mugnai Meo di Bartolo e Mato di Buonavia.
Un settimo mulino invece risultava diviso tra i Cortinuovi, a loro volta comproprietari di un altro opificio simile, ma ghuasto, a Serma assieme ai Lottini, a Bonifazio Bindi, a Agostino di Guiduccio e ai dello Scozza.
Altri mulini si trovavano sul botro di Pinzano e sul fiume Cecina.
Sul botro di Pinzano uno di questi opifici apparteneva sempre a Iacopo Compagni.
La gora passava dal Piano dell’Aia e aveva terre di pertinenza a S. Andrea e a Casezzano. Altri due mulini, del parente Antonio, invece erano descritti con due mantici, due macine e una gora; mentre un quarto mulino di Niccolaio Compagni era detto il Mulino di Sopra, e aveva intorno bosco e oppi. Non macinava perché la chasa chade e ha altri manchamenti. Niccolaio aveva anche una quota di quelli dei parenti e dichiarava le loro magagne: un mulino nel botro di Pinzano … non macina perché sono ghuasti i doccioni, e il tetto è parte schoperto; sul detto terreno sono oppi e ghattari mezzi suoi e mezzi di Antonio di Giovanni Chonpagni; j mulino macinante con oppi e ghattari e ulivi, strada in mezzo.
Due mulini ricordati sul Cecina invece erano abbandonati. Quello a Tegolaio di Querceto vicino al Trossa apparteneva ai del Bava, a Michele Dini e ai soliti Compagni: non fa nulla già da 10 anni… non si stima la rendita perché non è stanziale.
L’altro era una mezza chasa che fu già mulino è di lachopo di Paolo [Inghirami], è rotto e ghuasto [da 14 anni] ed è più tenpo che non macina più, al Chavallare alla Quagliera. Faceva parte delle pertinenze di un podere selvatico situato vicino a S. Giovanni e al botro della moia di Casicci.
Sulle pendici infine erano ricordati anche una casa e un mulino, ghuasto e non macina da lungho tenpo, su un torrente a Valle (oggi Villa di Valle e Molino del Comune), appartenente ai Borselli. Un ultimo opificio, non si sa dove situato, invece era detto della Badia e tenuto a fitto da Iacopo di Giusto di S. Stefano51.
Come possiamo vedere, lo stato dei mulini corrispondeva all’incirca a quello delle zone dove erano stati costruiti. Ci sembra pertanto di capire che nel passato la zona del Cecina fosse stata più curata e più produttiva.
Le viti erano piantante un po’ dovunque sulle pendici. Le piante giovani erano dette posticci e fruttavano dopo 4-5 anni dall’impianto. Nella posta di Guglielmo di Nuccio, impaziente di vedere dell’uva, troviamo ricordata la terra alloghata a Maso di Lorenzo di Banduccio in chapo a 10 anni, per la vigna sono già tre anni e anchora nulla. Invece Pardo d’Antonio, per un suo posticcio presso il castello di Montecerboli, poteva ben dire: è d’anni 4 e chomincia afare dell’uva.
I poderi che producevano vino buono erano a S. Lorenzo, a S. Cristina, a Poggio Franco, Ulignano e a S. Cipriano; e nel contado a Pomarance e a Querceto, dove le vigne di Filicaia di Piero di Iacopo rifornivano Vinciguerra vinattiere di città. A Pomarance, alla Porta Lomerina, sono citate anche delle pergole di greco e di trebbiano. Le 12 some di vino qui ricavate erano vendute nel 1429-30 a 40 soldi il barile (2 barili = 1 soma), mentre il prezzo normale era 30 soldi la soma o 15 soldi il barile. E a proposito di metrologia, una vigna o vero pastino (scasso) in Valle di Lodovico di Cino rendeva all’anno alla misura volterrana: vino some 6 a 30 soldi la soma.
Le terre e gli orti da cui si ricavava uva per il vinello erano citati a Caterello (di Agnese vedova di Corsino e del genero Michele di Ridolfo) e al Poggio, di Angela madre di ser Matteo Turini. Quelle che davano vino cattivo sono ricordate una sola volta a Docciarello, di proprietà di ser Attaviano Barlettani52.
Oltre alle estensioni di grano e alle vigne, i tanti pezzi di terra rammentati dal catasto avevano quasi tutti qualche pianta da cui ricavare olive, su un ciglio o al limitare del campo. Estesi oliveti invece erano al Posatoio, al Casato, all’Aia, a Fonte all’Olmo, a Misciatico, a Rioddi, a S. Margherita, a Valle (fitti), a Montebradoni (del produttore Antonio di Miscianza), e a Casa Bianca tra Fatagliano e il Cecina (chon parecchi ulivi non si lavorano già da 40 anni).
Alcuni frantoi si trovavano in città (vedi). Quelli di campagna erano a Fibbiano, Luppiano, Montenero di Ulignano e alla Nera. Al mercato l’olio era venduto a 4 lire a orcio oppure 6 soldi e 8 denari lapanata (un orcio erano circa 12 panate).