Nell’ordine naturale delle cose figura anche la gramigna, come dannosa all’agricoltura, ma gradita al cavallo. Ce lo fa supporre anche il Cannicci, nel suo quadro «Le Gramignaie al fiume». Vi riprende alcune donne in cappello, intente a sciamannare l’erba, nel fiume stanco e senza rattaio; più lontano alcuni ragazzi stanno al guazzo. Per la zona piatta, per l’orizzonte a fior d’acqua. si direbbe che siamo in Maremma, dove il pittore aveva l’amorosa. Le ombre azzurre e violette del tardo impressionismo italiano non lo avevano ancora avvinto.

Storpiando leggermente il nome, i Volterrani le chiamavano «Gremignaie»; ricordiamo Merope Bianchi, modesta e simpatica nella sua semplicità.

«Mi chiamano Pèpe perché è più facile; e poi Merope è un brutto nome, le pare?».
«A me pare di no; anzi è un bel nome di foggia greca. Anche a Scipione Maffei piaceva: ci scrisse una tragedia!».

E così la riportò al racconto.

«Mi levavo abbonora, giravo un pane scuro nella pezzola da spesa (per poterlo portare legato alla vita) e andavo a chiamare le mie compagne. Volterra dormiva al sodo.  L’aria frizzante spazzava i viottoli delle Balze e ci fìniva di svegliare. Più avanti, più indietro le giovani cantavano d’ottava e di stornello e le parole, portate in alto dal vento, tornavano mozzate dall’eco di Badia. Lo sberluzzo ci trovava in Capriggine, all’Acqua-cascata, a Pian di zoccolo, dove si scelbiava subito la gremigna per poi sciamannarla e risciacquarla. Nel tempo che asciugava si prendeva a mangiare il nostro pan-solo, rare volte accompagnato dai frutti della giornata. Da Pomarance, da Villamagna ci raggiungeva il suono della campana di mezzogiorno; era il segnale: passo su passo, col fastello in capo, si prendeva la via del ritorno ma la voglia di cantare era passata. Si agognavano i tosatoi del Colletto al Chiodo, del muro del Becorpi, del Leccione, delle Piagge e dei Castagnini. Finalmente si arrivava in Piazzetta dell’Erbe per vendere i fastelli ai barrocciai, per venti centesimi l’uno. Se la chiesta era stanca ci davano quindici centesimi e se non si riusciva a venderli si mettevano nella stanza di Bachino per piazzarli il giorno dopo. Ma lo sa che per staccare un cappello alla volterrana da Poldo cappellaio bisognava vendere sette fastelli di gremigna! Era vitaccia, creda! Le ragazzine di oggi (quelle che chiamatc jè-jè) non ce la farebbero neppure a tornare a vòto! Già loro non porterebbero neanche il cappello di feltro; e nemmeno quello nuovo che si portava a festa per fare la coglia su e giù per via Guidi! Dicevano i corteggiatori: “Ecco le Bersagliere!”. E noi, sculettando garbatamente, si metteva la testa a vento, sagomate dal guancialetto allora in voga. Le penne di galletto, sul cappello alla volterrana, si agitavano da sè».

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Penso che il cognome Gremigni derivi da questa laboriosa categoria, che cominciò a diradarsi con l’avvento del motore, per eclissarsi alla guerra del 1915 – 1918 con la requisizione dei cavalli.

Oggi non c’è più Poldo a fare il cappello alla volterrana, e forse non ci sarebbe nessuno per portarlo.

© Pro Volterra, GIOVANNI BATISTINI
Le Gremignaie, in “Volterra”