Ponte della Quagliera

Il Ponte della Quagliera, posto all’incirca a metà strada tra Saline e le Moie Vecchie è sempre stato, fin dalla mia infanzia, la meta preferita di piacevoli passeggiate. Costruito al tempo dei tempi al limitare di un boschetto, circondato e rinchiuso dai folti rami degli ultimi lecci e delle ultime querce del bosco medesimo, questo ponte lasciava filtrare ben poca luce anche in pieno giorno ed anche in piena estate. Luogo abituale di ritrovo di barbagianni e di civette, un tempo assai numerosi nella zona, il ponte aveva una fama alquanto sinistra. Eppure si trattava di un ponte come tanti altri, fatto di una sola volta a mattoni e provvisto di due spallette anch’esse a mattoni ed invitanti al riposo per chi transitava da quelle parti quando batteva implacabile il solleone. Sotto il ponte scorreva un rivo d’acqua salaticcia e sul lato sinistro passava la vecchia conduttura in legno che portava l’acqua salata allo stabilimento.La conduttura era formata da grosse tavole inchiodate ad «U» ed era sorretta da una fitta serie di colonne a mattoni. In certi punti era così bassa che si poteva immergere le mani nell’acqua salsa che per il lieve declivo della conduttura scorreva placida verso il suo destino. Questa immersione nell’acqua salata e fresca era come un rito ed era bello ritirare le mani ed osservare il leggero velo di salsedine che, a contatto dell’aria, subito le ricopriva.

Per raggiungere il ponte si usciva dal recinto della Salina formato da una imponente e bellissima ringhiera in ghisa, fusa nientemeno che nelle fonderie granducali di Follonica. Di questa ringhiera non vi sono ora più tracce e mai ho potuto sapere dove sia finita.

Usciti dall’imponente cancello sud, si imboccava la stradina che portava al Ponte della Quagliera. Il primo edificio che si incontrava sulla sinistra era uno dei tanti pozzi scavati per l’estrazione dell’acqua salata. Questo pozzo, che si chiamava «La Trivella», si trovava all’interno di una modesta costruzione in pietra ed era vigilato gelosamente dal buon Olinto, un anziano operaio perennemente intento a lucidare i macchinari e specialmente le parti in ottone che sempre rilucevano come fossero d’oro.

Più avanti ancora si trovava il boschino che, come tutti i boschi, esercitava una forte attrazione su noi ragazzi, sia per il forte odore di muschio che emanava, sia per le numerose varietà di fiori come pervinche, viole, anemoni che a primavera vi spuntavano in gran copia.

Subito dopo il boschino si arrivava al famigerato ponte.

Nonostante la placidità e la rustica bellezza del luogo, qualcuno in paese asseriva che sotto il ponte «ci si sentiva» e, specialmente nelle notti di luna, vi si vedevano comparire tre magrissime sorelle, a cavallo di scope, che lanciavano rauche grida di minaccia.

Un cacciatore raccontava di averla viste una notte e di aver sparato un colpo contro ciascuna di esse senza tuttavia colpirle perché i pallini attraversavano quei dannati corpi come fossero stati d’aria. In cambio, il povero cacciatore ebbe sulla testa dalle tre sorelle inferocite alcune granatate dalla parte del manico. Per la verità ben pochi credevano a questo strano racconto, ma il cacciatore si ostinava a confermarlo e mostrava a tutti, a sostegno della veridicità del fatto, due grosse protuberanze che gli ornavano la fronte, asserendo che si trattava appunto dei colpi infertigli dalle tre streghe in quella cupa notte di tregenda. I maligni dicevano però che quelle sporgenze erano opera di sua moglie la quale, per fargliele, non aveva avuto nessun bisogno della granata. Bisogna infatti sapere che sotto il ponte della Quagliera non si svolgevano soltanto convegni di civette, di barbagianni e di streghe; ecco forse la vera ragione per cui «ci si sentiva»: superato il ponte, si trovava, dopo un centinaio di passi, il pozzo di S. Giusto. Questo pozzo era simile a quello della Trivella ma aveva un macchinario antiquato fatto di enormi ruote che si muovevano giorno e notte con un rumore monotono e spaventevole. Più avanti ancora si trovavano le poche e malandate case delle Moie Vecchie, abitate da pochissime persone. Oltre l’abitato c’era un altro pozzo detto di S. Lino simile a quello precedente ma forse ancora più tetro.

Si sussurrava infatti che qui si vedesse saltellare, nelle ore notturne, il fantasma di un vecchio operaio che vi aveva perduto una gamba, anni e anni prima, durante certi lavori di scavo.

Oltre questo pozzo se ne trovava un ultimo, quello di Santa Maria, anch’esso con le sue brave storie di fantasmi e di apparizioni. Narrano infatti certi storici che al tempo dei romani, in località Santa Maria ebbe luogo un cruento Scontro tra le truppe di Mario e quelle di Silla. Qui la storia (o la leggenda) è suffragata dal fatto che nei dintorni fiJrono veramente scoperte grandi fosse con gran numero di ossa umane.

Dopo quest’ultimo pozzo, la stradina sale in lieve pendio e raggiunge l’amena fattoria di Scornello da cui si gode dopo tanti «orrori» uno dei panorami più belli del volterrano.

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Nei primi anni della mia infanzia avevo il compito, non molto gradito per la verità, di fare da Scorta alla mia cara e buona nonna Nunziata (vecchia come il cucco ma ancora abbastanza in gamba) durante le rare visite che essa faceva ad una sua amica delle Moie Vecchie. Il passo di mia nonna era uguale a quello del personaggio della Sfinge che ha raggiunto il tramonto della vita, ma il bastone era per lei come un attestato di debolezza al quale mal si adattava il suo orgoglio ancora assai vivo di donna che nel corso della sua esistenza, mai aveva vacillato né moralmente né fisicamente. Quindi il bastone doveva servire soltanto per il lungo tragitto della campagna, ma nessuno doveva vederla con quell’«aggeggio» in mano all’uscita e al ritorno in paese.

L’aggeggio restava dunque nascosto sotto le sue ampie sottane e saltava fuori quando nessun conoscente era in vista.

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Prima dell’inizio di una di queste passeggiate con mia nonna (badando bene che lei non sentisse perché non ci credeva affatto ed anzi andava su tutte le furie quando se ne accennava) qualcuno mi ricordava che l’amica di mia nonna era «strega» e che mi fossi guardato bene dall’accettare da lei qualsiasi cibo se non volevo essere colpito dal «malocchio».

Il luogo dove la «strega» abitava e il cupo percorso da fare prima di raggiungerlo, unitamente al fatto, purtroppo vero, che la poveretta soffriva di crisi isteriche durante le quali si abbatteva improvvisamente a terra in preda a violente convulsioni, aveva accreditato presso molta gente la ridicola leggenda. Bastò poi che una di queste crisi si verificasse sul Ponte della Quagliera perché la diceria prendesse vigore e si propagasse per tutto il paese. Io benché piccolo, non prestavo nessuna fede a queste dicerie ed anzi non vedevo l’ora di arrivare a destinazione per gustarmi la enorme fetta di pane e miele che la «strega» non mancava mai di offrirmi e che io divoravo golosamente in barba a tutte le fantasticherie di questo mondo.

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Ho già detto che l’incarico di accompagnare mia nonna non mi era molto gradito e non per lei che era la più cara e affettuosa nonna del mondo ma per il fatto che mentre le sue «tre» gambe si muovevano lentamente, le mie due gambette non avrebbero fatto che correre. Succedeva così che appena iniziata la passeggiata, eseguito, così per pudore, un breve tragitto di conserva con la mia ava, dimenticavo il mio compito di vigilatore ed anche pensando al pane col miele che sicuramente mi aspettava, mi mettevo a correre verso il traguardo non tralasciando tuttavia di tenere d’occhio da lontano la lenta avanzata della nonna.

Accadeva così che quando la povera vecchia era alla Trivella, io ero al boschino, quando lei era al boschina io ero al Ponte della Quagliera e così via fino alle Moie Vecchie. Qui, nella mia qualità di primo arrivato, ero accolto dalla buona Ottavina (la «strega») come un trionfatore e, quale ambito premio, mi veniva subito ammannita l’enorme fetta dolcissima e dorata. Poco dopo, stanca e trafelata, giungeva mia nonna che avrebbe voluto minacciarmi col bastone come già aveva fatto per tutta la strada ma, vedendomi divorare avidamente la ghiotta merenda (segno evidente di illimitata fiducia nella sua buona amica e di supremo disprezzo delle fandonie propalate sul suo conto) lasciava cadere ogni risentimento e finiva con l’accarezzarsi i riccioli ribelli.

Tra le due donne iniziava allora una fitta conversazione su avvenimenti lontani e spesso su persone scomparse da tempo dalla scena di questo mondo. Poiché questi conversari non mi interessavano minimamente, aprivo la porta a rete fittissima (eravamo allora in zona malarica) ed uscivo all’aperto ad osservare i polli starnazzanti e le ronzanti cassette delle api.

Verso sera, col fresco, salutata, abbracciata e ringraziata la nostra ospite, si iniziava il viaggio di ritorno che avveniva su per giù con le modalità dall’andata e cioè col nipotino sempre in testa e con la nonna eterna seconda, faticosamente arrancante e minacciante per la stradina polverosa.

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Non so nemmeno io perché ho rievocato questi piccoli fatti e queste piccole storie di tanti anni fa. Fatti e storie che nessuno più ricorda e che comunque, nel mondo frenetico di oggi fatto di consumi, di chiasso, di motori, di petrolio, di lotte, di violenze, non interessano più nessuno.

Interessano forse soltanto la mia mente perché quando a primavera viene una bella giornata di sole, io ripercorro col pensiero la stradina del Ponte della Quagliera e poi, alle Moie Vecchie, contro le molte amarezze dell’esistenza, immagino di gustare ancora e con lo stesso appetito di una volta, una bella fetta di pane col miele.

© Pro Volterra, PIETRO GAZZARRI
Ponte della Quagliera, in “Volterra”