Il vestire, l’arte della lana, del ritaglio e gli accessori

Questo studio offre un contributo alla conoscenza della vita familiare e quotidiana e dei luoghi di Volterra e delle sue pendici nel 1429 – 1430. Si basa sullo spoglio completo del registro 271 (più di 900 fogli) e parziale del 193 (enti religiosi), conservati nel fondo del Catasto dell’Archivio di Stato di Firenze.

> Sommario, Il quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30


Cittadini e gente della campagna indossavano abiti di lana tessuta più o meno finemente o di lino che era più pregiato e quindi meno comune. Taviano Buonamici ne teneva in casa una tela di 20 channe per suo bisogno, e Lazzero Serguidi, era debitore di 8 lire verso un Michele da Padule in Pisa proprio per pannilini.

Le vesti avevano vari colori, in generale poco vistosi: bruni, carminati, rosati, grigi, neri, bianchi. Le donne usavano la gonnella. Caterina vedova di Tiano di Biagio metteva del denaro da parte per farsene una. La gente di rango indossava la cioppa, sopravveste ampia e lunga fino ai piedi. Una cioppa bruna stimata 10 lire apparteneva ad Antonia, lasciatale per testamento dal padre Bartolomeo di Bruno; una rosata da donna era stata prestata da Ercolano Contugi a Selvaggia Cimini.

Le cinture erano accessori di valore per gli abiti più belli e potevano essere impegnate nel bisogno.

Nel mondo di allora infatti l’abito «faceva il monaco» e l’indossare gonnelle, cioppe o altro indicava il censo dei cittadini. Ginevra moglie di Matteo Maffei doveva ancora avere 340 lire di dote e gli faranno mettere in vestire e gioielli (necessari al rango); un qualsiasi canonico della cattedrale utilizzava la rendita della prebenda per la vita e vestito per lui e pel chericho…

Le famiglie abbienti comperavano le stoffe di pregio anche dai mercanti di Firenze: i Cafferecci da Giovanni Bini e compagni (panno scharlattino); Bonifazio Pardi dal fondaco del ritaglio in Calimala di Paolo Adimari (per panno levò per Piero suo chognato); Biagio Guardavilla dal setaiolo Mariano di Gherardo; i Guidi, da Zanobi di Iacopo e compagni setaioli e da Carlo del Toso e compagni merciai.

Consuetudine del tempo era il vestire, calzare e spesare i fanti e le donne ospiti in famiglia. Antonio Broccardi teneva tre fanti e sei cani per l. 40 salario annuo, e chalzare e vestire, pane, vino e paschi e ghabelle, l. 100 … e j donna in chasa, la chalza e la veste e dalle le spese, l. 16. Michele Incontri, eccezionalmente, dichiarava i suoi salariati senza il pane e il vino e il vestire.

Per quanto riguarda gli enti religiosi, lo spedale di S. Maria doveva provvedere al vestire delle otto bocche stanziati, con una spesa di 5 lire a testa, cioè per un abito semplice, da servitore. Lo stesso avveniva in S. Giovanni di Orticasso, dove per un fante con la moglie si pagava per loro spese e vestire oltre al pane, l. 4426.

Gli abiti dei cittadini venivano confezionati con le stoffe prodotte nelle botteghe locali, la cui attività era tanto nota che Iacopo II d’Appiano, signore di Piombino, ne aveva richiesto la presenza nella sua città. Dice il catasto: [i Guidi] hanno un trafficho di arte di lana a Pionbino, chapitale loro l. 150 e del danaro è del Magnificho Signore di Pionbino che prestò loro d’amore e di grazia già anni due e hanno a tenere anni 3 perché il Signore fa per di rizzare l’arte della lana a Pionbino che mai non vi lavorò…

La floridezza dell’arte è ricordata già dal numero dei lanaioli, circa una quarantina.

Erano: Andrea di Comuccio; Andrea di Filippo d’Andrea; Antonio di Giovanni di Compagno e figli; Antonio di Niccolaio di Guido; Antonio di Pasquino (Broccardi); Antonio di Taviano della Baccia o Zacche socio dei Cafferecci; Bartolomeo di Bartolomeo e nipoti (del Bava); Bartolomeo di ser Giannello di Iacopo (Picchinesi), socio dei Lottini; Bartolomeo, Catelano e Alessandro di Niccolaio di Cecco; Bartolomeo, Guasparre e Michele di Piero d’Andrea (Visconti, tutti accatastati separatamente); Bartolomeo di Ricciardo Covazoni; Cristoforo di Matteo di Guerrieri socio di Giovanni di ser Guido; Francesco e Iacopo di Cino del Liscia soci di Sasso di ser Rinieri; Giovanni di Balduccio nella bottega di Luca di Ciacco; Giovanni di Bindo di ser Iacopo (Bindi); ser Giovanni e ser Piero Cafferecci in società con Antonio di Taviano della Baccia; Giovanni di Giusto di Francesco della Bese (ha in casa 100 libbre di lana vendemmiale bianca, stimata 10 lire).

Giovanni di ser Guido socio di Cristoforo di Matteo e forse anche di Michele di Francesco di Giusto Dini; Giovanni, Angelo e Zaccaria di Guaspare di Tomme (Marchi); Giusto di Iacopo Zucca; Guglielmo di Nuccio; Lodovico del m.o Piero Lotteringhi; Lotto di Iacopo di Manetto Lottini con Bartolomeo Picchinesi; Luca di Giovanni di Feo (Luca di Ciacco); Marco di Giusto Bertini; Matteo di Piero Brandini e il figlio Piero; Mercatante, Gentile e Salvatico Guidi; Michele di Francesco del Babbo; Michele di Francesco Dini socio di Giovanni Serguidi; Michele di Giovanni Gherarducci; Nanni di Nardo di Mone; Nanni di Simone; Niccolaio di Giovanni Mannucci; Nicoloso di messer Musciatto (Rapucci) con bottega assieme a Piero Brandini; Paolo di Nuovo; Piero di Michele di ser Cecco (Incontri); Potente di Giusto; Riccobaldo di Biagio di Francesco; Sasso di Rinieri di ser Potente che faceva una bottega di lana per i del Liscia; Taviano di Piero di Cecco. Segnaliamo anche Iacopo di Giusto e Francesco di Matteo dalla Nera clienti di Biagio Guardavilla, per olio e lana vendemmiaI e lib. 37, 104 lire27.

Dieci lanaioli erano anche comproprietari di una caldaia-tintoria in contrada di S. Stefano, vicina al lavatoio del Comune, gestita da Giusto di Giovacchino. Dei tiratoi invece si trovavano presso la chiesa di S. Michele loro proprietaria, e forse a Docciola (del Comune). Uno era stato affittato per 9 lire a Michele del Babbo e ai figli28.

Le botteghe degli artigiani contenevano lana da lavorare o lavorata, olio e utensili: pettini, cardini, stadere per pesare.

La lana era chiamata in molti modi: lana grossa e soda, lana nostrale sciolta dai pannicelli, lana arighotta, lana vendemmiale e maggese (le due tosature annuali), lana vendemmiale biancha, lana sottile per fare i panni, lana filata da fare un panno, lana soda grossa charminata, lana maggese nera, lana sottile da pannicello tra biancho e bruno, lana maggese tra biancho e bruno grossa d’arbagia (rozza, grossolana), lana sudicia chosta a peso, lana grossa non oprata biancha e soda; fioretto (di qualità migliore) nostrale alle telaia (ai telai), stame di fioretto bigio nostrale, stame sottile e grosso filato o non filato, stame sottile bigio filato, stame grosso nero, stame d’arbagio bruno, stame filato biancho e sottile di lana pelata a santo Matteo, trama biancha filata di santo Matteo, trama, trama bigia filata, trama d’arbagio bruno filato, trama sottile e bigia.

Semilavorati e prodotti erano: panno albagia rozzo, panno albagia alle telaia, albagia nero rozzo, mezza tela d’arbagio la quale si tesse, una tela di panniciello biancho la quale si tesse, pannicelli bruni, pannicelli rozzi e sodi, pannicelli parte nei pettini e parte filati, panni rozzi e sodi, schanpoli e panni chonpiuti, panni di cholore e schanpoli di più ragioni e pezzetti di panni interi, tele di pannicelli, pannicelli chonpiuti, pannicelli chon trama soda29.

Le botteghe della lana davano lavoro a filatori, cardatori, sodatori, orditori, tintori e altri operai purtroppo poco citati nel catasto. I del Liscia avevano 400 libbre di lana vendemmiale alla a lavorare Niccholaio di Michele di Ceccharello; i Picchinesi erano debitori di Nicholaio di Nanni Charnaccia al quaderno dei lavoranti; Paolo battilano (ungeva e batteva la lana) da Firenze aveva affittato una casa in contrada di S. Angelo; Nanni di Piero di Lapo faceva il tessitore ed era menzionato come tale dai Nardi. Il catasto di Pisa invece lo ricorda di 78 anni e residente in questa città con il figlio Bartolomeo e la sua famiglia.

Una volta ottenuto il panno, il pelo che ricopriva la superficie veniva rasato dai cimatori con speciali forbici dette appunto da cimare. Il cascame ottenuto, la borra, era usata per l’imbottitura di selle e basti.

Faceva il cimatore Nanni di Francesco Trombetta. Aveva la bottega a palazzo Baldinotti e vi teneva 3 paia di forbici da cimare, un bancho chon un chanceIlo, 3 tavole da soprastare e panni, quattro paia di chardi, una bilanciuola, un bancho da sarto, un paio di forbici da tagliare panni. Il figlio Francesco aveva sposato Angela Cardini e il lanaiolo Nanni del Liscia aveva fatto il mallevadore per la dote.

Un secondo cimatore era Ercolano di Francesco da Siena, affittuario di un abituro sotto la casa dei Cimini. Lavorava in una bottega in contrada di Piazza a pigione da Lotto di Gadduccio e dichiarava 5 paia di forbici da cimare e un bancho. Suoi clienti erano il lanaiolo Niccolaio Mannucci e il sarto Piero di Nanni.

Le stoffe poi venivano tagliate secondo la misura desiderata dal cliente. Gli artigiani addetti erano chiamati ritagliatori ed esercitavano l’arte in due fondaci.

Il più noto era quello di Morellaccio, cioè Antonio di Michele di ser Cecco Incontri, gestito per metà con i Guidi e con Iacopo Incontri (un quarto ciascuno). I due locali sulla piazza dei Priori erano affittati dalla cappella dei Forti e contenevano mercanzie che, alla data del 29 maggio 1429, valevano 2504 lire. Vista la quantità, gli ufficiali del catasto avevano preso tempo per imporre le tasse. Una aggiunta alla posta infatti riporta: Ragionano detti debitori e trafficho la parte di detto Michele l. 5240 e altrettanti acchatastati a la ragione di Merchatante di Giovanni e a la ragione di Iachopo di Benedetto … l. 2010. Mercatante precisava però che la chonpagnia è partita ma non trovano, perché Antonio di Michele è a Firenze.

Il secondo fondaco del ritaglio si trovava sotto la torre di casa Mannucci ed apparteneva a Francesco Cinciotti e a Bartolomeo Paganellini. Aveva un giro d’affari inferiore e i crediti e le mercanzie erano valutati 803.5.6 lire. Anche il Paganellini stava in ostaggio a Firenze e il rendiconto sul fondaco aveva dovuto aspettare il suo ritorno.

Altri ritagliatori citati dal catasto erano tutti forestieri: Andrea Mancini e compagni da Firenze, Tommaso Bartoli da Firenze e Ciolo e Rinieri Benedetti di Pisa. Un Giovanni di Giovanni e un ser Francesco d’Ambrogio sono ricordati senza patria.

Infine i sarti: uno era Nanni di Puccio che con il figlio Piero aveva la bottega a palazzo Baldinotti, subaffittata a Leonardo di Bartolomeo di Baccione per chucire e scemare. C’erano poi Matteo della Magna (Germania), affittuario di una seconda bottega a palazzo Baldinotti, e Paolo di Paolo Ungaro che teneva la sua in contrada di S. Angelo a pigione dal prete ser Benedetto Mannucci. Aveva smesso il mestiere Arrigo Ormanni, ottantenne e forse inabile con dei figli calzolai. Un Luca d’Arrigo (il figlio?) invece vendeva panno. Ma su di lui abbiamo pochissime notizie.

Era omonimo dell’Ormanni citato, un Arrigo d’Ormanno della Magna tessitore di pannilini e tovagliaio. Lavorava in una casa affittata dai canonici e dichiarava come debitori il conte Fazio della Gherardesca, messer Giovanni Incontri, lo spedaliere Iacopo di Bartolo e il sarto Matteo, suo compatriota.

Se Ughetta Baldinotti era comproprietaria della botteghe del suo palazzo, il figlio Giusto Landini aveva avuto relazioni con sartorie e artigiani provenienti anche dall’Europa centrale: con Matteo della Magna che abitava a Peccioli, con maestro Adamo sarto di Pisa (suo chonpangnjo), con Ranieri setaiolo e Giovanni Boezio tutti sempre di Pisa.

Poche note ricordano i sarti Benedetto di Michele e i defunti Bartolomeo da Verona abitante a Castelnuovo e Biagio di Pace da Firenze. Vale lo stesso per le numerose donne che lavoravano d’ago. Sappiamo solo di una Lucia d’Antonio della contrada di Pratomarzio che aveva cucito delle tele al falegname Guaspare di Naldo30.


IL VETRIOLO E GLI SPEZIALI

I lanaioli e i conciatori necessitavano di allume e vetriolo – solfati metallici -, da usare come mordente per i colori da fissare stabilmente sulle stoffe o sul pellame. Le cave di questo minerale nel volterrano erano di proprietà del Comune o di privati che ne ricordavano la presenza e la consistenza al catasto.

La allumiere pubbliche si trovavano a Castelnuovo, affittate al lanaiolo Luca di Ciacco: Travasi a Chastelnuovo in su uno affitto di lumaie dal Chomune di Volterra deve dare l’anno l. 166 tra masserizie e terra per fare vetriolo.

I terreni con le cave dei privati erano in vari luoghi. Quelli dei Guidi (atti a chavare zolfo) erano nella corte di Libbiano al Santo al Nespolo, presso la Trossa (non vi si chava nulla … non si lavorano e quando si lavorano vi si fa perdita), a Montecerboli (chon però il loro padre 20 anni fa, sopra è del Chomune, sotto è loro) e a Castagnoli di Micciano (terra soda e boscata parte lumaia a seccho).

Era sempre dei Guidi anche un trafficho a Massa alla Fossa a chavare vetriolo, su concessione del Comune del luogo, in società con Giovanni di Geri e i fratelli, e in affari con i conciatori Gherardi. Forse a causa di questa presenza il Signore di Piombino aveva invitato i Guidi a portare l’arte della lana nella sua città.

Le cave di zolfo di Libbiano e Pomarance erano proprietà anche dei Marchi, di Francesca Mannucci con i parenti Napoleone e Taddeo Cavalcanti (chose di ventura e senza stima), di Tancredi di Martino (a la Lama Chupa) non divise col fratello e con i Guidi; di Michele Incontri (a Caggiolo di Libbiano, chiamasi putidaia), e dei della Bese. L’Incontri li considerava terreni di ventura, qualche volta hanno chavato e perduto assai, è più la spesa che la tratta… e i della Bese confermavano: non vi si richava da 10 anni, si è più perduto che ghuadagnato.

Ma questi volterrani sotto stimavano le loro miniere per pagare meno tasse. Sappiamo infatti che Michele Incontri teneva in casa 8000 libbre di zolfo lavorato giallo dal valore di 200 lire ed elencava tra i creditori proprio i della Bese che dovevano avere un terzo di lib. 49000 di zolfo lavorato … toccherebbe a Piero 16333, ma sa tutto Antonio suo figlio, stima quel che ha in chasa… I della Bese chiamavano le 16 migliaia e mezzo del minerale zolfo giallo in channone.

Altre lumaie si trovavano a Sasso Pisano, concesse dal Comune del luogo a Roberto Minucci che segnava pezzi di terra al Padule, a Lagoncino, al Casato, al Fossato, a S. Maria (eccetera), una casa che furono antichamente più chase chontighue appicchate tra loro nel Borgho del Sasso e lib. 1000 di vetriuolo lavorato nel chastello del Sasso e some 15 di lumia [allume]. Inoltre teneva armari di chassette e bilance e altre chose di bottegha di spezeria … più masserizie per il mestiere di fare vetriolo e per lavorare detto vetrino (sic) le quali sono al Sasso e cioè: 5 chaldaie di pionbo in su i fornelli di peso lib. 1000, 30 chonche di rame vecchio lib. 150,j tina grande di tenuta some 14,j tinetta picchola di tenuta some 6, un paio di tinelli da rechare l’allume. Roberto aveva ereditato l’attività dai parenti (ha dei libri vecchi di Paolo suo avolo) assieme ai tanti crediti di lavoratori e socci. Tra questi c’erano lachopo da Nizza di Provenza archimiatore (chimico) deceduto e un Domenico di Gherardo crivellatore (vagliatore).

Miniere di rame invece erano a Bibbiena di Serrazzano presso il torrente Trossa.

Appartenevano di una compagnia di cittadini che nel passato aveva acquistato i terreni confidando in una redditizia estrazione. I loro discendenti però concordavano nel dire che era stata un’impresa perduta perché il minerale non c’era affatto (niente si stima perché nulla si chava). L’univoca dichiarazione è riportata nelle poste di Biagio di Giusto di ser Vanni, di Piero di Bartolo, di Bartolomeo Guaschi, di Tancredi di Martino, di ser Arcangelo Sighieri, degli eredi Fei (un avviso sotto terra di chavare rame), di Francesco di ser Luca, di Magio Minucci e di Bartolomeo di Martino di Duccio (la detta metà fu donata nel 1415 da Giusto di Piero da Serrazzano e Nanni di Michele da Pomarance a ser Michele suo nipote). Gli ufficiali del catasto però si erano preoccupati lo stesso di ordinare la pronta notifica di eventuali scoperte di rame.

Tra i commercianti di zolfo, è ricordato anche Paolo di Buonafidanza che aveva acquistato zolfo da Giovanni Marchi e da Michele Incontri per 6 migliaia (a 7 lire il migliaio) e ne teneva in casa 60 migliaia (circa 432 lire). Inoltre aveva venduto 4 migliaia di vetriolo per 400 lire ai Quaratesi di Pisa31.

Nel commercio del vetriolo e di conseguenza nelle arti laniere e conciarie avevano dei grossi interessi gli speziali, cioè i farmacisti-droghieri.

Bartolomeo del Bava era uno dei più noti. Aveva la bottega sulla piazza dei Priori in affitto dai Minucci e vi teneva molta merchanzia, compreso l’allume. Il socio Lodovico Aladesi vi aveva investito 200 lire.

C’erano poi Battista Treschi e Bartolomeo Guaschi speziali nella bottega dell’Incrociata dei Baldinotti, acquistata in parte da Magio Minucci per 500 lire. Il Guaschi si occupava del commercio di vetriolo con gli eredi Fei.

Anche Giusto e Cecco di Taviano di Piero avevano bottega e botteghino nelle vicinanze, a palazzo Baldinotti, affittati per 44 lire dagli eredi di Tile. Dichiaravano affari con la società di Francesco di Zanobi speziale in Firenze, Iacopo di Luca e Nicolaio di Filippo speziali in Pisa, e maestro Bartolomeo dei Bombacai da Lucca, medico del Comune. Taviano era iscritto anche all’arte della lana.

Un’altra spezieria ancora si trovava sotto la casa delle eredi di Giovanni dello Spera, un tempo medico e conciatore. La teneva Niccolaio di Piero che però non aveva interessi nell’arte della lana, del cuoio o nelle cave di zolfo.

Infine è ricordato Riccobaldo di Biagio di Francesco, un vicino di casa di Bartolomeo del Bava. Dichiarava un trafficho di l. 1000 delle rede di Michele di Salvestro [Fei], è ascrita in speziaria … e il detto Ricchobaldo non va su se non ha serfizio della sua persona e fallo a mezzo pro e danno ma e vi tiene un gharzone a salario e spese che fa l’anno l. 40. Il maghazzino del trafficho (la bottega) era in contrada di Piazza, presso tre vie e l’abitazione dei della Bese. Il bilancio (merci, più crediti, meno debiti) ammontava 4.035 lire.

I Minucci cavatori, oltre alle chose da spezeria a Sasso Pisano, possedevano la quota di due botteghe di farmacia sopracitate. Speziale di Castelnuovo era stato Nanni di Taviano padre del notaio ser Antonio dimorante a Volterra. «Farmacisti» forestieri citati nel catasto erano Bonifacio di Donato e compagni, Michele di Paolino creditore dei Buonamici, Niccolaio Buonomo e Agostino di Taviano.


LA PELLE, LA CONCERIA E I CALZOLAI

Bartolomeo del Bava oltre alla spezieria aveva anche una conceria a S. Felice affittata dall’Opera del Duomo e teneva in bottega mercanzia stimata 2597 lire.

Una chalcinaia chon pelaghai atti a chonciare a Vallebuona invece era degli eredi Fei assieme al deposito del cuoiame in una casa di Castello occupata dai soldati.

Un terzo conciatore, Angelo Maffei, lavorava il cuoiame e la montella in una caldaia a Docciola, asciugava le pelli pelose appena tinte in una casa al Capo alle Coste e teneva in un’altra bottega dossi, choppie, vitegli, montoni, montanina, pelli pelose d’ogni ragione, grasso, segho, montine. Era debitore di una grossa cifra verso il beccaio Alessandro di Niccolaio, fornitore di materia prima.

Noti a Volterra erano anche i fratelli Gherardi (Francesco, Angelo e Niccolaio), che tenevano la conceria a pigione dall’Opera del Duomo, avevano una bottega di scarpette, e rifornivano di cuoio quasi tutti i calzolai cittadini che spesso, non potendo pagare i debiti, ipotecavano loro la casa o altri beni. Per la conceria stipendiavano un lavorante, Angelo di Vanni da Tonda di 24 anni, abitante in una casa della contrada di Borgo appigionata mese per mese.

Nel passato i Gherardi erano stati legati a Giovanni dello Spera che aveva avuto una sua conceria alle Fontanelle o Fontenuova presso S. Alessandro. AI tempo del catasto le eredi l’avevano affittata ai pellicciai Angelo di Goro e Gherardo di Lorenzo. Nell’azienda di Angelo di Goro lavorava anche il genero Riccio Machellini.

Una seconda conceria a S. Alessandro apparteneva a Ramondo Baldinotti ed era a mezzo con i canonici (o con la cappella di Tile, secondo un altro registro). Si trovava presso un botro, tiella a fitto il figliuolo di Biagio di Nieri.

Piccoli proprietari o lavoratori nell’arte della preparazione della pelle erano Nanni di Fede del Trusciola, Nanni di Lorenzo detto Cavallaio, Piero di Giovanni di Nuto (che aveva tre case a Fornelli, tiene nella sechonda masserizie atte alla choncia, nella terza un ronzino), Niccolò di Bartolomeo (con mezza conceria in Borgo) e Agostino di Francesco Berlinghieri (con bottega e deposito di pelli crude nella stessa contrada).

In città erano numerose anche le botteghe dei calzolai che vendevano scharpette e pianelle. I locali in gran parte appartenevano a famiglie abbienti o a preti e canonici. Alcuni artigiani dipendevano dalle famiglie che avevano prestato loro del denaro o affittato un locale. Altri invece erano riusciti a rendersi indipendenti dai fornitori: avevano animali, conceria e bottega propri e pertanto pochi debiti e una certa ricchezza.

Lavorava nella contrada di Borgo Antonio di Donato Tizia, pianellaio, debitore verso i Gherardi. Suo vicino (forse socio?) era Bartolomeo di Francesco da Siena, detto anche pellicciaio, che aveva affittato la bottega dall’arciprete e dall’arcidiacono e ricevuto un prestito dai del Bava per comprare la casa. Dichiarava anche un credito dagli eredi Landini; il suo ultimogenito di cinque mesi si chiamava Giusto.

Sempre in contrada di Borgo facevano i calzolai Meo di Domenico, Giusto di Bartolomeo di Micciano, con la bottega sulla Piazza affittata dal canonico messer Marino e un forte debito verso i Gherardi e Giusto di Nanni Fatagliani in un locale a pigione da Niccolò Simonetti. Il Fatagliani era anche vaiaio (il vai o era uno scoiattolo grigio dalla pancia bianca).

C’erano poi i giovani Paolo e Amerigo Rubini con le botteghe a pigione dal prete ser Vettore Covazzoni; Niccolò di Bartolomeo d’Arezzo con casa e bottega propria e un bel giro d’affari; e Salomone di Piero di Fazio, affittuario della bottega del canonico messer Iacopo. Salomone aveva molti clienti, tra i quali ancora gli eredi Landini, Iacopo Incontri, i Broccardi e i Buonafidanza.

Lavoravano invece nella contrada di Piazza i calzolai Neri di Giovanni Bonducci, con la bottega a pigione da Roberto Minucci; Simone di Antonio o Mone della Verde, in affitto da ser Michele Tignoselli; Cerbone di Simone di Giudicetto a pigione da Bartolomeo Paganellini; e poi Ghinuccio del Favilla; maestro Piero di Lorenzo a Lische; e Donato di Berto di Caio, affittuario dei Guidi e debitore verso i soliti Gherardi.

Nella vicina contrada di S. Angelo facevano i calzolai Giovanni di Cristoforo Romanello; Giovanni di Taviano infermo; e Antonio e Taviano di Arrigo d’Ormanno creditori di alcuni religiosi (l’arcidiacono Antonio e il canonico Lorenzo) e di un certo Antoniaccio da Firenze.

In contrada di S. Stefano invece era ricordato Marchionne di Checco di Giovanni di Grazia Landini che aveva casa e bottega presso la porta delle mura. Andrea di Comuccio sempre di S. Stefano, era un merciaio ma, secondo l’uso del tempo, teneva nel negozio, oltre a grascia (granaglie), sego e panni, anche cuoiame e scarpette.

Calzolai emigrati fuori Volterra erano Luca di Sighieri dimorante a Siena, Ambrogio di Ambrogio che stava a Pisa nella cappella di S. Sisto e Nanni di Michele Raschini trasferitosi a Montaione32.

© Paola Ircani Menichini, PAOLA IRCANI MENICHINI
III. Società e lavoro in città e nelle pendici, cap. 6 e 7, p. 43, 44, in “Il Quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30”, Ed. Gian Piero Migliorini, Volterra, a. 2007
III. Società e lavoro in città e nelle pendici, cap. 8, p. 46, in “Il Quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30”, Ed. Gian Piero Migliorini, Volterra, a. 2007
III. Società e lavoro in città e nelle pendici, cap. 9, p. 48, in “Il Quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30”, Ed. Gian Piero Migliorini, Volterra, a. 2007
26 Crediti di Ercolano Contugi, f. 340v: Manna Selvaggia vedova di Piero di Giovanni Chamini (sic) per una dopa rosatta da donna gli prestò I. 34; crediti di Antonia vedova di Iacopo di Mariano,
f. 43r: Bartolomeo d’Andrea di Bruno padre di detta manna Antonia per j ciopa bruna gli lasciò già fa anni lO per suo testamento, l. lO.
27 cfr. il numero e i nomi con FIUMI, Popolazione … , o.c., p. 145 e PINTO, Lineamenti … , o.c., p. 121. CASINI, Il Catasto … , o.c, p. 277, ricorda Luca di Iacopo da Volterra lanaiolo. Sull’attività nel passato di Antonio Broccardi, gli acquisti fatti a Pisa e a Firenze, i panni inviati a Prato o a Firenze per la tintura, i lavoranti ecc., v. PAGLIAZZI, Caratteristiche … , o.c., pp. 19 e ss.
28 v. PINTO, Lineamenti … , O.C., p. 116: «l’arte della lana produceva panni in genere non sottoposti al processo di tintura»; però a p. 120, nota 55 ricorda che «nel corso del sec. XV dovettero essere installate in città botteghe di tintore»; sui tiratoi, v. 193, f. 361v (di S. Michele); BATTISTlNI, Volterra illustrata … , o.c., p. 337 (del Comune).
29 cfr. quanto afferma PINTO, Lineamenti … , o.c., pp. 119, 120.
30 Benedetto di Michele 271, f. 400v; rede di m.o Bartolomeo da Verona f. 340v; Luca d’Arrigo f. 225v; Arrigo sarto, ff. 128r, 274v; sui rapporti di Giusto Landini con alcuni sarti tedeschi, v. A.S.P., Fiumi e Fossi, 1543, f. 433r, cit. a nota 8; v. nota 114; su Nanni di Piero di Lapo tessitore di pannilini (78 anni) e il figlio Bartolomeo, dimoranti a Pisa, v. CASINI, Il Catasto … , O.C., 306.
31 Notizie sulle cave nel territorio volterrano e sui mercanti anche al tempo del catasto, in FIUMI, L’utilizzazione… , O.C… In particolare le notizie sui mercanti da noi cit, a pp. 151 e ss. Gli Incontri si dedicavano all’industria dello zolfo già nel 1380-82; i Minucci dal 1392. I lagoni del Sasso erano di proprietà vescovile, dati in enfiteusi al Comune del luogo e da questo ai Minucci che pagavano il canone al vescovo (Roberto paga il livello al vescovo di Volterra di un podere con casa nella corte del Sasso, cfr. 271, f. 639r). Il vetriolo era il nome volgare di alcuni solfati metallici. Il vetriolo azzurro era il solfato di rame, quello bianco il solfato di zinco, verde, il solfato di ferro. L’allume invece era il solfato doppio di alluminio e di potassio. Esistevano i tipi di piuma o piumoso, lupaio, di sorta, di foglia, di rocca, scaglio lo, zuccherino: cfr. E. FIUMI, L’impresa di Lorenzo de’ Medici contro Volterra (1472), Firenze 1948; G. BATlSTlNI, I vetrioli nelle zone del volterrano, in «Rassegna Volterrana», LXIII-LXIV; PINTO, Lineamenti … , O.C., pp. 114 e ss.; notizie sulle miniere anche in LEANDRO ALBERTI, Descrittione di tutta l’Italia e Isole pertinenti ad essa, Venezia 1581 (v. nota 37 in questo).