Come si mangiava seicento anni fa

Questo studio offre un contributo alla conoscenza della vita familiare e quotidiana e dei luoghi di Volterra e delle sue pendici nel 1429 – 1430. Si basa sullo spoglio completo del registro 271 (più di 900 fogli) e parziale del 193 (enti religiosi), conservati nel fondo del Catasto dell’Archivio di Stato di Firenze.

Il pane, il vino e l’olio si trovavano sulla tavola di tutti i cittadini, abbienti o poveri.

Erano accompagnati dall’orzo e dalla spelda (per le minestre), dai legumi (piselli, ceci, fave), dall’insalata, dai cavoli, dalla frutta (noci, mele, ciliege, fichi, castagne) e a volte dallo zafferano, spezia pregiata, coltivata negli orti o nei campi delle pendici.

Per quanto riguarda il pane, i volterrani che in casa avevano un forno e possibilità di farlo, provvedevano da soli alla produzione. Altri lo compravano dai fornai di città.

Tra questi Guido di Francesco di Maliscalco (Porta a Selci) aveva la casa con il forno dove fa il pane a chi vuole… dice che fa il forno e sta perduto chon la sua famiglia e può ghuadagnare e perdere [secondo le carestie e le oscillazioni del prezzo del grano] e non sa che si mettere [nella dichiarazione] se non che lo mettane a discrezione dell’ufficio [del catasto].

Cristoforo di Giovanni da Castel S. Niccolò in Casentino invece lavorava nella contrada di S. Angelo. Aveva ricevuto un prestito da Bartolomeo del Bava per l’attività; in passato era stato al servizio di Attaviano Barlettani alla Petraia (fu suo fornaio), e poi aveva ceduto il posto a un certo Guccio di Guiduccio.

Un terzo lavoratore del settore era Iacopo di Nuovo che teneva il forno a pigione da Antonio Compagni nel vicolo di Monna Berga (vicolo Ormanni).

Invece aveva affittato il suo da Giusto di Domenico di Nuccio alle Zatre, il fornaio Iacopo di Taviano da Poggibonsi detto Fornaino che dichiarava come suoi clienti debitori Matteo Maffei, Iacopo Inghirami, Mercatante Guidi e i poveri eredi di Giusto Landini.

C’era poi Giusto di Ciapo che lavorava in un forno costruito accanto alla canonica e allo spedale di S. Maria, datogli in affitto dal Capitolo del Duomo, mentre una monna Antonia cuoceva il pane presso la chasa del Chomune dove si fa la chaldaia nella contrada di Piazza, a Lische.

Luca fornaio infine dava il nome ad un chiasso della contrada di S. Angelo. I suoi eredi, i figli Gregorio e Iacopo, dichiaravano dei beni al Muro Rotto accanto a quelli di un Nanni fornaio sempre deceduto. Anche un Barzi del Fornaio da Pomarance è citato occasionalmente dal catasto e di più non ne sappiamo.

Per quanto riguarda il vino, il consumo era molto alto, tanto da alimentare, a Volterra come in altre città medievali, le entrate del Comune con un’imposta speciale.

È descritto rosso, «normale», buono (fatto in poderi particolari delle pendici, vedi), bianco (una botticella da 18 lire era conservata in casa di Piero della Bese), vinello, cioè acquerello o mezzovino, ricavato dall’acqua passata sulle vinacce.

Veniva conservato nei cellieri (cantine) di città per il consumo familiare o la vendita. I cellieri sono segnati nelle poste dei Cicini (contrada di S. Angelo), di Antonio di Miscianza (Borgo), di Taviano di Galeotto e Guaspare Cacciapensieri (alle Zatre), dei Cafferecci (affittato a Vinciguerra), di Andrea di Filippo d’Andrea (presso le case dei Credi in piazza dei Priori), dei Guidi, degli eredi Rubini (in Borgo, appigionato a Michele Dini e a Francesco di Piero da S. Marco) e di Guglielmo di Nuccio (in contrada di Pratomarzio e nella casa di ser Bartolomeo di Martino a S. Angelo).

Vinciguerra di Manfredino oriundo di Genova era un noto vinattiere. Produceva vino nei suoi poderi e altro ne acquistava da Piero da Querceto. Ne teneva in cantina una quantità stimata 15 lire (circa 7-8 ettolitri), o almeno così dichiarava agli ufficiali.

L’olio veniva usato, sotto forma di sansina, anche per tenere accese le lampade e per fare fuocho. La sua notevole produzione era supportata da diversi frantoi in città di proprietà degli enti religiosi o delle maggiori famiglie. Una chasa nella quale è un frantoio posto a lato allo Spedale … la 1/4 parte dell’olio si loghora nelle lanpane è ricordata nella dichiaràzione dell’Opera del Duomo. Altri opifici sono citati nelle poste dei Nardi (al Ceragio), dei Seghieri-Salvini e dei Naldini (Porta a Selci), di Angelo Maffei (nel Chiasso di Sopra), dei del Liscia (alle Zatre), di Piera del Succhiello (S. Stefano), dei Ciardi e dei Bindi (Pratomarzio), dei Fei-Barzoni e di Guglielmo di Nuccio (S. Giusto) e degli eredi Landini (Montebradoni). I frantoi del terziere inferiore avevano grande importanza perché servivano ai tanti poderi con oliveti dei dintorni.

Altri bisogni alimentari dei cittadini erano soddisfatti da un orto accanto alle abitazioni, qualche volta favorito da una cisterna e coltivato a insalata, cavoli, biete, porri e cipolle, orzo, legumi e altro. Era lavorato dai proprietari, dalle donne e da chi non si doveva recare ai poderi o stava in bottega a tempo pieno. Un cittadino benestante però poteva avere il suo ortolano. Questo era anche il soprannome di Giovanni di Francesco di Agostino del Tanaglia di Pratomarzio (Giovanni Balbafolta ortolano).

Per fare ancora qualche esempio, ricordiamo l’orticello chon chavoli e altre chose da mangiare di Giovanni di Taviano di Porta a Selci; quello degli eredi Fei nella via di Sotto affittato a Taddea moglie di Vinci guerra; la casetta con orto dietro, vi tiene l’asino e l’orto e vi fa l’insalata del fornaio Guido di Francesco; e un pezzuolo di terra verso S. Alessandro di Francesco di ser Luca, e quando vi fa orto rende, ma non trova ortolano che lo voglia fare.

In alcuni orti di città le viti e le pergole si appoggiavano alle mura vicine: erano quelle in contrada di S. Stefano di Cristofora moglie di Domenico di Cione; alla Fonte al Vescovo di Piero di ser Nardo; a Fornelli di Lodovico Contugi; e alla Porta di S. Stefano di Vettora moglie di Biagio d’Andrea, che aveva impegnato la pergola all’ebreo Gianetano, per via di un prestito.

Orti più estesi tenuti a grano, orzo e a vigneti si trovavano nelle contrade lontane dal centro. Sono ricordati a Pratomarzio, nelle zone più ricche di acqua del monte volterrano, assieme a noci, meli e ciliegi. I loro proprietari erano il Comune, i della Bese, i Contugi, gli Incontri e altre famiglie di rango. Un bell’orto chon 7 ulivi e channeto che produceva zafferano, biada, olio … e tavole channe, l. 25 era anche a Montebradoni, di proprietà di Antonio Niccolini.

Proseguendo nella descrizione degli alimenti del tempo, troviamo la carne che era consumata fresca (bovina, ovina) o secca e salata, secondo le possibilità economiche o i gusti. L’ospedale di S. Maria comprava charne frescha per la chasa (per gli addetti al servizio); i Frati Minori carne fresca e due porci; i Camaldolesi di S. Giusto carne fresca e insalata (salata); e il barlettaio Ganucci solo carne secca.

Invece è poco documentato l’allevamento degli animali da cortile (conigli, oche, polli etc.), forse perché molto comune e non considerato per la tassazione. Dei polli però si trovano citati nei chiostri della casa dei Fei nella via di Sotto e al Mulino della Noce dei Compagni (due – sic -, a 10 soldi il paio, con 50 uova all’anno stimate 2 denari l’una). Capponi e pollastri venivano allevati anche nel podere dei Guidi a Micciano (2 paia di capponi a 20 soldi il paio; i pollastri a 10 soldi il paio) e 20 paia di piccioni dimoravano sulla tettoia dei casalini dei Credi sulla piazza dei Priori.

Per quanto riguarda la macellazione, un banco per il taglio della carne fresca era situato al Canto della Via Nuova. Nanni Nardi l’aveva affittato al beccaio Alessandro Cecchi e ai fratelli che tenevano i propri animali (suini, castroni e pecore da macello stimate 220 lire) sui pascoli di Montecatini, Montegemoli e Lustignano. Li uccidevano e scorticavano in una casetta in contrada di Borgo.

Una seconda panca da macello e relativa bottega erano sulla piazza dei Priori. Facevano parte delle prebende dei canonici messer Marino e messer Giovanni, ed erano appigionate al beccaio Matteo di Fecino e al socio di Domenico di Bernardo di Pomarance. I loro animali erano a Buriano presso Iacopo Incontri a cui dovevano 382 lire. Vendevano le pelli degli animali al conciatore Angelo Maffei.

Infine c’erano i beccai Gherardo di Bencio e Abramo di Paolo di Porta a Selci, povera persona e con il bollettino. Le loro botteghe non sono citate nel catasto, nemmeno come ricordo del passato.

Erano «norcini» del contado Francesco di Riccio da Gello e Piero di Biagio da Castelnuovo, creditori di 114 lire e 102 lire per 32 porci, di cui almeno 16 hanno insalati.

Gli animali venivano allevati anche per la produzione di formaggio, importante companatico del tempo, e usato in cucina in vari modi, come scriveva Antonio Pucci già nel secolo XIV… per far degli erbolati [torte di erbe] e delle torte / o raviuoli o altro di paraggio [cose simili]. Comunissimo e poco citato nel catasto forse perché troppo ‘ovvio’, si trova nelle poste di ser Vinta che teneva a soccio sette decimi di 92 capre e ne ricavava capretti e chascio; e di Diana e Apollonia Fanulla, proprietarie per metà di 50 pechore chon 12 agnelli e di una rendita di 30 chasci e 50 libbre di lana.

Il formaggio però si poteva acquistare anche nei mercati, dalla gente di campagna che veniva in città e nelle botteghe dei pizzicagnoli, assieme ad altri alimenti come lo zucchero, il pesce, al riso o altro.

Le pizzicherie a Volterra erano tre.

Una si trovava in contrada di Piazza, all’Incrociata della Taverna, affittata dai canonici a Bartolomeo Colaini. Conteneva grano, orzo, tonnina, sardella, ossa, bulzoname (forse bolzonaglia, merce di poco conto?), anghuille, chacio, charne e lardo, stimato tutto l. 200, e altra merchanzia …

Una seconda bottega, associata alla vendita di lana, era situata al Capo della Via Nuova, affittata a Michele Gherarducci detto Burello e forse al fratello Lorenzo. Le mercanzie non sono descritte e tuttavia il negozio doveva essere ben messo perché Michele era un uomo ricco. Un fornitore era Antonio d’Andrea di Baldo, caciaiolo di Pisa.

La terza pizzicheria si trovava sotto la casa dei Cafferecci. Era gestita da Antonio della Baccia, in società con ser Piero Cafferecci, ser Vinta di Michele, Girolamo Broccardi e Piero di Nanni di Puccio, che ricevevano per questo una provvisione annuale. Non sono ricordate merci tipiche, ma solo i comuni olio, grano e biada, lana e panni.

Invece il volterrano Gabriello di Francesco faceva il caciaiolo a Pisa, socio in una compagnia con Piero di Stefano da Marti.

© Paola Ircani Menichini, PAOLA IRCANI MENICHINI
III. Società e lavoro in città e nelle pendici, cap. 4, p. 39, in “Il Quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30”, Ed. Gian Piero Migliorini, Volterra, a. 2007