Questo studio offre un contributo alla conoscenza della vita familiare e quotidiana e dei luoghi di Volterra e delle sue pendici nel 1429 – 1430. Si basa sullo spoglio completo del registro 271 (più di 900 fogli) e parziale del 193 (enti religiosi), conservati nel fondo del Catasto dell’Archivio di Stato di Firenze.
I termini usati per indicare l’abitazione erano i comunissimi casa e casetta. Casetta indicava anche la piccola costruzione di servizio per l’asino, i polli, la legna, lo strame, il fieno, le merci, i tini e altro. Altri termini erano casaccia, e soprattutto casalino o casalino o casellino, un modesto edificio pertinenza di una casa più grande o stalla per gli animali. Rari erano casolare (casa quasi cadente), casa da signore, casa da lavoratore (in campagna) e palagio, cioè palazzo.
Le case di città in genere erano ampie e avevano quindi spesso un solaio, chiostri, orti, cellieri, palchi o cisterne. Case guaste, tristi, cadenti, disfatte erano quelle di Castello occupate dai soldati fiorentini e ormai date per perdute.
I cittadini accatastati dimoravano per lo più in case di proprietà; quelli non accatastati, cioè i lavoratori senza beni, in edifici affittati dai privati, dagli enti religiosi o dal Comune. La casa di abitazione era dichiarata senza la stima perché esente da tasse. Ciò ci fornisce pochi dati sul valore delle «prime case» del tempo. Esempi sono un edificio con la bottega sotto in contrada di Borgo del calzolaio Niccolò di Bartolomeo (20 lire); mezza casa dove lo stesso conciava il cuoio (20 lire); un edificio con caldaia per tingere la lana in contrada di S. Stefano (10 lire); una casetta di servizio dei Serguidi e dei Gabbretani in contrada di Borgo (35 lire); l’abitazione di Caterina del Pattiere a S. Cristoforo (175 lire); una bella casa con frantoio, orticello dietro, casetta annessa, deposito del cuoio di Angelo Maffei nel Chiasso di Sopra (300 lire), e palazzo Baldinotti (800 lire).
Gli affitti di case e botteghe nella maggior parte dei casi erano stipulati a tempo indeterminato. Il lavorante di cuoiame Angelo di Vanni da Tonda però teneva una chasa a pigione mese per mese; e monna Luca vedova di Gualfredi di ser Giusto aveva una casa in via Nuova appigionata per un anno perché il figlio ser Antonio doveva andare in ufficio fuori di Volterra… poi tornano ad abitarla chome hanno senpre fatto in passato. Anche Maddalena del Moneta inferma aveva dato a pigione solo per un anno la sua casa in Pratomarzio, forse per motivi di salute.
L’affitto aveva un suo canone il cui importo seguiva le norme semplici e comuni a tutti i tempi. Una bella casa e una bottega in una zona buona richiedevano una somma alta e viceversa. Il fondaco di Morellaccio Incontri era affittato per 60 lire dalla cappella dei Forti; la bottega dei Marchi sotto casa Mannucci per 50 lire dalla cappella di S. Cristoforo; una casa del pievano di Lustignano in Via Nuova per 26 lire.
Nel catasto sono numerosi i ricordi sugli affitti. Di questi scegliamo come esempio un edificio dei Cicini nel castello di Montegemoli diviso e affittato a tre persone, Mariano di Luca, Checco di Giovannino e Piero lombardo: ricevevano, dai primi due, 3 lire per i granaietti, e dal terzo 4 lire per la camera. Un’altra camera nella casa di Angela di Nardo in Via Nuova invece era stata affittata per 1 lira e 7 soldi.
Altri immobili non abitati dai proprietari erano concessi per carità ai parenti, alle vedove per restituzione di dote, o a cittadini vecchi e quasi nullatenenti da enti religiosi che riprendevano il possesso dopo la loro morte.
Sempre per fare qualche esempio, Bonifazio Pardi aveva una chasa chon una chasuccina apighata mezza disfatta a Montecerboli ci sta Pardo suo fratello e non gli dà nulla; ser Niccholaio ha detto frutterebbe di pigione l. 47.
Lisa vedova di Antonio di Andrea teneva casa e poderetto a Sensano come usufruttuaria della rendita del marito defunto, ma erede testamentaria è Giovanna figlia fu del detto Antonio e donna di Giusto di Vitore da Monte Miccioli.
Nanni Nardi dichiarava una casa in contrada di S. Angelo, fece dono messer Antonio di Michele di ser Neri a monna Chaterina donna di Nanni e sua sorella, riservando a sé messer Antonio l’usufrutto mentre vive.
Michele di Giovanni di Porta a Selci (70 anni) disponeva una casetta a lato alla sua che, dopo la vita di monna Choma [Iacoma], sua moglie, è della chiesa di santo Piero.
Bonduccio di ser Gualfredi e la moglie Gabriella infine avevano un podere nella corte di Pomarance, tenghono gli eredi di Francescho di Cenni del detto chastello per miglioramento, per facitura di una chasa e ponitura di una vigna; è per sentenza della chorte del podestà, la devono tenere usufruttuaria fino a tanto io gli dò.
Altre famiglie abitavano nella casa di un podere per contratto di lavoro. Ricevevano dal proprietario, detto oste, una prestanza (un prestito) da restituire alla raccolta o in un altro periodo dell’anno. Quando i poderi erano buoni e la stagione favorevole, era facile restituire la prestanza e guadagnare; in caso contrario, il denaro anticipato diventava un debito e la famiglia, non potendo pagarlo, a volte fuggiva.
Non erano (ancora… ) i casi di Simone di Gano Colli, un lavoratore che aveva avuto una prestanza da ser Michele Turini di 156 lire e abitava in una sua casa a Era presso la via di Ulignano; o di Berto di Michele che dimorava a Roncolla in un podere dei del Liscia, e doveva dare ai suoi osti 227 lire.
Oste significava anche albergatore. Due erano gli alberghi di Volterra: a S. Alessandro e al Capo della Via Nuova. Oste era anche il taverniere. Guasparrino oste (Guaspare d’Antonio di Vini o Guaspare Cacciapensieri) aveva la bottega di vino alle Zatre. Antonio Panazi dichiarava beni e forse proprio un’«osteria» a Borgognone e Boschetti di Villamagna vicino alla strada pisana. Un Bartolomeo oste a Bibbona è citato solo occasionalmente dal catasto e non ne sappiamo di più.
I contratti si adattavano ai poderi di diversa grandezza e qualità, evidenziate nel catasto dalla stima scritta a destra nella partita. Alcune proprietà avevano gran valore: la terra vignata e scamporata di Iacopo Borselli allo Smurleo presso Pian d’Ormanno (1000 lire, rendeva vino, grano, fave, zafferano); la possessione e la conceria alla Fonte Nuova delle eredi dello Spera (1000 lire, grano, orzo, vino e 10 lire di pigione); la vicina possessione al Fosso di Michele Maffei (400 lire, vino, grano e noci); le terre vignate e lavorative dei Serguidi chon un palazzetto di chorte sopra di sé, per il mezzo del quale è il fiume Era, e il mulino (500 lire); le tre case, il mulino, la sovita, il pastino, i due buoi e le 50 capre del podere di Capreggine di Ambrogio di Santino di Ghese e di Lotto Lottini (600 lire ciascuno); la possessione a S. Cipriano con la casetta mezza scoperta e la terra vignata di Antonio Niccolini che si arava ben 4 volte l’anno (rendeva olio, grano, 16 some di vino buono); la possessione alborata e vignata con casetta per i colombi a Selci di Michele Incontri (stimata 200 lire).
Meritano nota nel contado anche il pezzo di terra nel piano a Cecina, con terre boscate e sode, e una chiusura e il piano dirinpetto nella corte di Montegemoli di Angela Buomparenti (300 lire); e soprattutto il podere con casa da lavoratori e da signori e con terra lavoratia, soda, boscata e alborata a Buriano sul monte e presso il Cecina appartenente ai Fei e a Iacopo Incontri (500 lire per ciascuno). Veniva lavorato da Paolo di Panotto che aveva anche 140 pecore, un bue, quattro manzi e un puledro; da Michele e Piero di Nanni con quattro buoi e 28 bestie vaccine, Il vitelli, una cavalla con un puledro, 112 pecore e capre, 8 troie, 28 porcelli, 10 porcastrelli; e da Iacopo di Lorenzo di Tommasino che però era nuovo e non ha anchora raccholto. L’Incontri riceveva da chi del 8 e del 7 e del 5 in sua parte, grano st. 30.
Sulle pendici si trovavano anche terre di cattiva qualità, come la possessione vignata a Montaione di Benvenuta vedova di Francesco (la terra sta soda per disastro di chi la lavori); la terra al Muro di ser Antonio di Nanni (non vi si trova chi lo lavori, rende solo noci); il piano e la piaggia alla Querciola nel Ragone di Taviano Buonamici (il fiume l’ha ghuasta, la piaggia a terraticho); la terra alla Peraia di Giovanni di Lippo del maestro Giovanni (gli è rinunziata, a spendervi al presente più non trarrà); la terra e la stalla da pecore alla Costa al Grado di Cione di Barzone (da 16 anni è soda vi ha seminato orzo e spelda); e il prato di Roghiatello di Villamagna di Iacopo di Giusto di Potente (seghato ingiustamente chontro ogni debita ragione da 14 anni).
Gli edifici necessitavano sempre di manutenzione, o di acchoncimi, come si diceva allora, e i volterrani non badavano a spese per mantenerli in buono stato. Taviano Buonamici ad esempio teneva presso di sé 3 legni da tetto, 80 travicelli di chastagno, 80 travicelli di 4 braccia e un terzo, 80 travicelli di 3 braccia e un terzo, 12 chorrenti, gli servono per rachonciare la chasa sua.
Nanni Bondiucci aveva incaricato Giovanni da Modena maestro di pietra a rifare e racchonciare la chasa del podere di Fibbiano, cioè il solaio e le mura della chasa e del frantoio e la chasa di sopra e la stalla e la chasetta di sopra e quella della parte chol forno chon torre è alta sei braccia… l. 32.
Anche l’Opera del Duomo stava facendo dei lavori importanti in santo Giovanni che chadde il tetto e rifassi le volte e non tiene e choprissi di lastroni che vi si lavora ogni dì, spenderasi a giudicio di maestri l. 600. Utilizzava due edifici nelle contrade di Borgo e di Piazza per deposito di legname.
I «maestri» di cui si parla, erano i muratori-scarpellatori. Alcuni provenivano dal nord Italia ed erano detti lombardi, come Giovanni da Modena con i chonpagni ricordato da Angelo Maffei. Un altro Giovanni lombardo o Giovanni di Michele invece abitava a Monteverdi e in città aveva lasciato dei debiti considerati perduti. Un terzo maestro, Piero lombardo, aveva aiutato a murare Iacopo Incontri (per 17 lire e 10 soldi), Iacopo Borselli e Niccolaio Ciampolini, lasciando un debito verso Cecco di Niccolaio per calcina. C’erano poi Giannuccio di Beltrame e un certo Cristoforo che avevano avuto affari col fornaciaio Pellegrini, e una chonpagnia da Chomo non bene descritta, ma citata a proposito di Barzi di Niccolaio e del falegname Nanni di Gamberino acquirenti per essa di tavole-canne.
Era invece un maestro di pietra e scarpellatore toscano che lavorava in città Ambrogio di Vanni da Fiesole, già noto nel territorio fiorentino. Suoi datori di lavoro erano le eredi Magagnini (assieme a Giannuccio di Beltrame), Niccolaio Mannucci, i della Bese, Nanni di Guiduccio e Bartolomeo Paganellini.
Infine i muratori volterrani erano due. Uno si chiamava Simone d’Antonio Baroncini o Simone d’Antonio Pesce Biondo di 31 anni, vedovo, della contrada di S. Angelo. Abitava fuori città: Simone d’Antonio da Volterra maestro di murare sta a pigione in una chasa di Nanni di Puccio a Pomarance, ma vi deve murare e la deve tenere ogni anno. Ne aveva approfittato per costruire per Pietro di Carlusino e per il Comune del luogo, rimastogli debitore per lavorio e chalcina.
Il secondo maestro cittadino – atrappato della ghanba –, era Giovanni di Nieri di 34 anni, della contrada di Borgo. Aveva costruito il campanile della chiesa di S. Giusto (per 100 lire), e fatto altri lavori per gli eredi dell’ebreo Buonaventura, Taviano Buonamici, Ercolano Contugi, Parugio Contugi, Niccoloso Rapucci, Mercatante Guidi. Era debitore di 152 verso il mattonaio Salvestro di Lorenzo.
Sono citati solo occasionalmente nelle poste lo scarpellatore Domenico di Sandrino e un muratore Bartolomeo, debitore che non stima di Giovanni di Pace.
Per quanto riguarda le fornaci di laterizi, Antonio Broccardi e Piero Fantozzi ne avevano messa su una nel passato: una fornace, anchora non hanno fatto ragione, si chominciò circha 30 anni fa. Non sappiamo però se fosse in esercizio nel 1429-30.
Era invece certamente in produzione quella di Salvestro di Lorenzo di Piero di Porta a Selci, e sfornava all’anno mattoni crudi 4 migliaia; mezzane crude 5 migliaia; mattoni chotti 8 migliaia; mezzane e pianelline 7 migliaia; tegholi 1 migliaio; chalcina moggia 20. I clienti erano i Frati Minori, il camarlingo del Comune, Paolo di Buonafidanza e Giusto di Bartolomeo spedalieri di S. Maria, l’ortolano Giovanni Balbafolta, il conte Bernabò, Bartolomeo Paganellini, Iacopo di Tomme (per mattoni e chalcina l. 34) e altri.
Un’altra fornace era ricordata da Niccolaio d’Antonio Pellegrini che aveva una casa al Ceragio di Porta a Selci nella quale fa il gesso e chuocivelo dentro; mentre in un pezzo di terra … ha fatto una fornacetta che fa chalcina e mattoni, tiella a livello dai frati di santo Andrea.
C’erano poi la fornace e il fornello da calcina di Paganello di Ventura, affittati dai Fei. Si trovavano alla Fornace o vero Papignano, e l’uomo dava, ogni chotta che vi fa, ai detti eredi l. 17 e questi li dà perché tiene dai detti eredi l. 400 e per questo dà l’anno l. 17 per chotta; deve dare l. 580 ai detti eredi. I clienti di Paganello erano il muratore Simone d’Antonio Pescebiondo e la dogana del Comune.
Gli eredi Fei possedevano un’altra fornace atta a fare tavole e mattoni nelle pendici alla Fornace di Guidaccio; viene ricordata anche nella posta di Cione di Barzone di Guidaccio da S. Giusto, forse ex proprietario: un pezzo di terra sopra il quale è una fornacella da mattone posta a Montarso.
Altre fornaci erano sempre a S. Giusto (un fornello da chalcina sulla terra dietro la casa di Ambrogio di Santino di Ghese); e ad Era, presso il torrente Strolla, di proprietà di Cecco di Niccolaio di Cecco e dei figli, quest’ultima edificata sul terreno di Vittore di Guardino da Ulignano (una casa chon fornello atta a chuocere chalcina) al quale pagavano la pigione.
Infine sono citati Cecco e Gherardo di Niccolaio del Nero (Cecco e Gherardo del Salvagna fornaciai) che avevano in più una bottega nella contrada di S. Stefano.
Lavoravano nel settore anche i broccai e gli stovigliai. Iacopo di Bertolo da Brescia, con casa e bottega in contrada di Borgo, era venuto ad abitare a Volterra chon quelle esenzioni della città [concesse agli artigiani forestieri]... e di questo ha ricevuto gharanzia dai Priori.
Era invece un broccaio volterrano Antonio di Nanni Naldini che forse lavorava nel luogo detto Fornace, mentre Giovanni di Giusto Capucini detto Buonmaggio aveva un casalino e due fornaci che adopera per il mestiere suo, accanto alla casa di Porta a Selci.
Sono ricordate poi la fornace e il negozio dei fratelli Gherardo e Antonio di Bono Corsini (trovasi in bottegha masserizie e lavorio) nella contrada di S. Stefano e, non molto lontano, la casa e la bottega di stoviglie con tanta merchanzia dentro di Matteo di Barnaba di Michele da Firenze.
L’orciolaio Simone di Nanni di Michele da Montelupo, è citato una volta sola nella posta di Angelo Maffei, senza altre notizie. Michele d’Andrea vasellaio da Volterra infine lavorava a Pisa in una bottega affittata dai Gaetani.
Riguardo al grande insieme delle masserizie, cioè dei mobili e degli utensili di uso quotidiano di una casa, troviamo citate nel catasto le pentole del rigattiere di Piero di Lorenzo di ser Lotto di Porta a Selci e di Michele Maffei di S. Angelo; e i bicchieri della bottega di Nicoluccio da Gambassi nel Chiasso di Luca Fornaio.
Il cuoco Giovanni di Piero da Gragnuolo invece dichiarava di avere in chasa oltre al suo bisogno due letti dal valore di lO lire; Nanni Nardi e i familiari, al tempo che stavano forestieri a Volterra, prestavano masserizie di letta e d’altro e dice sono rimaste loro l. 80. Anche i Cicini avevano una casa in contrada di S. Angelo per nostro uso chon un letto quando si ridiciesse dentro e 4 botti di vino per vendere sechondo i tenporali (quando vi era convenienza o meno).
Infine ser Bartolomeo Cafferecci nei beni ereditati dallo zio ser Giusto pievano di Casale deceduto elencava: … una botte da vino da 12 some; un chopertoio [coperta] a liste gialle e rosse; un chopertoio a gigli; un ghuancialetto; un paio di lenzuola; una tovaglia di 5 braccia [circa m. 2,50]; 2 tovaglioli a rame; 2 paia di pannilini; 5 tasche nuove da grano [per la semina]; un chonchone [catino per fare il bucato].
Lasciamo ricordare al lettore le altre masserizie della casa: il tavolo, le sedie, le cassapanche per i vestiti, le casse o gli scaffali per i libri dei notai o dei maestri, i tappeti. All’epoca la gente comune aveva ciò che era necessario, con pochi agi e superfluo. Chi invece voleva ostentare ricchezza teneva denari, gioie, vasi preciosi, e altre massarizie e ornamenti della casa (Bartolomeo Cavalcanti)24