Questo studio offre un contributo alla conoscenza della vita familiare e quotidiana e dei luoghi di Volterra e delle sue pendici nel 1429 – 1430. Si basa sullo spoglio completo del registro 271 (più di 900 fogli) e parziale del 193 (enti religiosi), conservati nel fondo del Catasto dell’Archivio di Stato di Firenze.
La generica famiglia dell’epoca era di tipo «patriarcale»: il padre aveva autorità sui figli di casa anche con moglie e prole proprie ed era responsabile degli atti fiscali. Esempi presi dal catasto sono le famiglie degli Incontri e dei del Bava, i cui numerosi componenti trascriviamo qui di seguito, così come appaiono nel registro originale19.
Michele di ser Cecco e figliuoli [Incontri]
Michele di ser Cecco detto d’anni 84
Antonio suo figliuolo d’anni 52
monna Betta donna d’Antonio d’anni 34 [forse seconda moglie]
Taviano suo figliuolo d’anni 26
Margherita d’Antonio d’anni 5
Francesco d’Antonio d’anni 4
Niccholò d’Antonio d’anni 2 e 1/2
Lionarda d’Antonio d’anni j e 1/2
Piero figliuolo di Michele d’anni 50
monna Christofana donna di Piero d’anni 42 Batista di Piero” d’anni 15
Giacholina di Piero d’anni 3
Pagholo figliuolo di Michele d’anni 33
monna Antonia donna di Pagholo d’anni 22
Alesandra di Pagholo d’anni 3 e 1/2
Gherardo di Pagholo d’anni 2
Mariotto figliuolo di Pagholo d’anni j
Giovachino figliuolo di Pagholo [sic, è Michele] d’anni 32
monna Ghilla donna del detto Giovachino d’anni 19
Bartolomeo di Bartolomeo Paolini e figliuoli [del Bava]
Bartolomeo detto d’età d’anni 55
monna Lucrecia sua donna d’anni 33 [forse seconda moglie]
Tadeo suo figliuolo d’anni 26
Benedetto suo figliuolo d’anni 13
Gabrielo suo figliuolo d’anni 12
Lodovicho suo figliuolo d’anni 5
Barbera sua figliuola d’anni 2
Giovanni di Paolo suo nipote d’anni 30
monna Andronacha sua donna d’età d’anni 17
Piero suo figliuolo d’età d’anni j
Giovanni di Giusto suo nipote d’età d’anni 34
monna Tomasa sua donna d’età d’anni 18
Giusto suo figliuolo d’età d’anni 2
Maddalena sua figliuola d’età di mesi 6
monna Tessa madre di Giovanni d’età d’anni 55
Batista di Giusto che studia a Firenze d’anni 26
Il catasto riporta altri esempi di famiglie «patriarcali», ma in questa pagina ci occupiamo solo di alcuni casi particolari.
Tra questi merita ricordo il lanaiolo Andrea di Comuccio (59) della contrada di S. Stefano che era titolare della posta, nonostante vivesse con il padre di 90 anni, ma forse inabile ad assumersi responsabilità familiari o fiscali.
Il fornaciaio Paganello di Ventura invece abitava con la famiglia separatamente dal genitore, Ventura di Baccatile che riceveva dal figlio 17 all’anno per la vita, come risarcimento delle spese fatte prima della maggiore età.
Anche Angelo Parellacci di 24 anni era titolare della posta nonostante vivesse in famiglia il fratello prete ser Simone di 28 anni, e Nerocia vedova di Filippo di Vanni di 70 anni era capofamiglia al posto di messer Gregorio prete di 98 che abitava con lei.
Altre donne – sposate con il coniuge vivente – erano titolari di posta quando appartenevano a qualche casata o erano proprietarie di molti beni o più anziane o altro.
Esempi del catasto sono Ginevra della Bese, figlia ed erede di ser Chellino Binducci Accettanti; Angela Pilucca (moglie di Roberto Minucci, i suoi beni sono scritti di seguito a quelli del marito); Giusta del Bene moglie di ser Matteo di Turino; e Iacopa Guarguaglia da Sensano.
C’erano poi Cristofora di Cerbone di Giovanni (45) vedova ed erede con i figli del fabbro Berto, risposatasi con Domenico di Cione (30); Vettora (50) moglie di Biagio d’Andrea di 90 anni; Antonia figlia del fu ser Giannello di Martino (48) in quanto il consorte Francesco Danzini (70) era infermo e forse incapace.
Tra le donne di rango, non presentava dichiarazione autonoma Angela di Piero Fantozzi, moglie Antonio Broccardi, perché i (notevoli) beni di lei erano inglobati nel patrimonio comune. Si distinguono in quanto dichiarati in comproprietà con il nipote ser Filippo Bindi, figlio della sorella.
Una seconda rilevazione che si può fare dal catasto, riguarda l’onomastica. La famiglia generalmente chiamava i figli con nomi particolari e di suo gusto e seguendo la saggia esortazione: «Gli nomi si impongono a beneplacito: adonque si deve imponere el nome secondo la cosa più degna».
I nomi più comuni e frequenti erano Ottaviano-a, Giusto-a, Antonio-a, Iacopo-a, Giovanni-a, Bartolomeo-a, Matteo-a, Angelo-a, Niccolaio-a, Piero-a, Domenico-a, Francesco-a, Cristoforo-a, Michele, Simone-a, Lorenzo-a, Agostino-a, Luca, Paolo-a, Girolamo-a, Tommaso-a, Caterina, Margherita e Maddalena, Lucia, Agnese.
Ricordavano la devozione ai santi e insieme qualche parente o amico. Si trovano poi citati Felice, usato al femminile (il chiasso di Santa Felice, Felice figlia di Giusto Landini, Felice moglie di Michele Gherarducci, ecc.) e Andrea, sia per gli uomini che per le donne (Andrea moglie di Chele Davini, Andrea madre di Lodovico dei Contugi e ser Andrea del Giorno pievano). Nomi meno frequenti, a volte adottati dalla nobiltà o dai ricchi artigiani, erano Sighieri, Guardavilla, Gamberuccio, Monarca, Ercolano, Apollonia, Maccabea, Polissena, Ricca, Bandecca, Albiera, Nuova, Biancuccio, Tosa, Fiammetta, Tarsia, Ramondo, Ughetta, Andronica.
Un cognome, un diminutivo o un soprannome prendevano spesso il posto di un nome frequente. I cognomi ricordati dal catasto erano:
Alducci, Baldinotti, Baldomanni, Balducci, Baroncini, Bartolini, Belforti, Bisconte (Visconti), Brunacci, Buonaguidi, Buonamici, Buomparenti, Cafferecci, Capuccini, Cicini, Cimini di Cadice in Spagna (Ximenes), Cinciotti, Cinelli, Cioncini da Pomarance, Contugi, Corsini, Covazoni, del Bava, del Cinque, della Baccia oppure Zacche, della Bese, della Gherardesca, della Parella, del Liscia, dello Scozza, dello·Spera, del Trusciola, Dini, Forti, Francucci, Ganucci, Gaetani di Pisa, Guarnaccia, Incontri, Inghirami, Landini, Lapi, Minucci, Narducci, Paganellini, Palmieri, Parellacci, Passetti, Pigucci, Salcetti, Simonetti, Tolomei, Usimbardi, Verani, Zocchelli.
Non compaiono i cognomi Broccardi, Barlettani, Mannucci e altri di famiglie di rango, ma non è detto che non venissero usati negli scritti o nel parlare della gente. Forse non erano ritenuti importanti per la tassazione e quindi omessi.
I diminutivi, che potevano diventare cognome, invece erano comunissimi. Si ricordano i tanti Taviano, usato per Ottaviano; Checco, Cece o, Ceccherello per Francesco; Nanni, Gianni o Vanni per Giovanni; Como, Comuccio per Iacomo; Bartolo, Barzi o Tomme o Tommeo o Meo per Bartolomeo; Antonino o Tone per Antonio e così via.
I soprannomi infine erano riservati a tutte le classi sociali, con una preferenza per quelle inferiori. Alcuni sono di difficile attribuzione (Maccherone, Iacopo Nano, messer Lorenzo del Rimette canonico); altri, la maggioranza, sono citati dopo il nome e il patronimico di chi li portava, e preceduti dal vochato o chiamato o detto… Ne proponiamo un lungo elenco che ci dà l’idea della vivacità intellettuale dell’epoca:
Agnese erede di Piero Pochepene, Andrea detto Tosino, l’erede di Drea detto Becco o Beco, ser Chele Davini chiamato Prete Agiato, Andrea di Coto altrimenti Mordecchio, Andrea di Pasquino detto Suco, Angela vedova di Bartolomeo di Andrea detto Bruno, Angela di Niccolaio detto Malapuccia, Antonio di Gualtieri o Antonio della Reina, Antonia vedova del Carbona, Antonio detto Boldrino da Casale, Antonio detto Fiasco, Antonio chiamato Gallo, Antonio detto Guardalmerlo, Antonio da Casoli Val d’Elsa chiamato Saltella, Antonio detto Strenna, Niccolaio figlio di Antonio detto Troglino, Antonio di Andrea detto Conticino da Lustignano, Antonio di Cecco detto Corazza da Libbiano, Antonio di Domenico di Giovannino o Antonio di Miscianza, Antonio di Donato detto Castrone che stava in Monti, Antonio e Niccolaio figli di Giovanni Verani detto Cipollino, Antonio di Giovanni detto Perfetto, Antonio e Taviano di Michele vocato Ceppatello da Montecatini, Antonio di Michele di ser Cece o detto Morellaccio, Antonio tavemaio e i fratelli Martino, Regolo e Salvadore figli di Nanni di Matteo detto Panazo, Antonio di Pasquino chiamato Conte, Antonio di Pietro detto Brucca, Baldassarre detto Baldracca, Bartolomeo chiamato Toscanella, Bartolomeo di Antonio detto Riccio da Orzale di S. Miniato, Bartolo di Cecco detto Ciolerano da Castelfiorentino, Bartolo di Giovanni altrimenti Zucchetta, Bartolomeo di Giusto detto Branca, Bartolomeo di Niccolaio detto Ciorma, Bartolomeo di Piero detto Bazone, Bartolomeo di Piero detto Maleficio, Bartolomeo di Piero chiamato Zacchera, Bartolomeo di Tomme detto Pestello, Biagio di Giovanni detto Corso, Caterina dello Scarpa, Cerbone di Giovanni della Nera detto Zancardino, Cerbone da Sillano detto Saccardino (sic: lo stesso in due località diverse?), gli eredi di Checco detto Minosso, Chimento di Comuccio detto Orso, Como (Iacomo) di Pancione detto Bigatta o Bighetta, Cristoforo di Cristoforo detto Chiavarasa, Domenico Luperelli detto Bianco, Domenico detto Cipolla da Montecastelli, Domenico detto Conestabile da Montescudaio, Domenico detto Guastalla, Domenico detto Sartuccio, Domenico d’Antonio vocato Barberino, messo del Comune, Domenico di Francesco detto Conte da S. Giusto, Domenico di Niccolino da Orciatico detto Bocello, Francesco detto Categianchino da Pomarance, Francesco di Antonio di Andrea di Pomarance detto Fantaccio, Lena figlia fu di Francesco di Giovanni detto Baratone, Gianni di Domenico di Giovannello detto Fronza, l’erede di Giovanni chiamato Carbone, Berto e Michele di Giovanni detto Cipollone, Giovanni detto il Compagno (da qui il cognome Compagni), Giovanni detto Mecherello o Mocarello, Giovanni detto Zacca, Giovanni di Feo detto Giovanni del Mazzarra, Giovanni di Foramachia (foramacchia = scricciolo?) detto Riccio, Giovanni di Ghinuccio detto Fante da Sorbaiano, Giovanni di Giusto chiamato Moco, Giovanni di Giusto Capuccini detto Buonmaggio (dagli amici) e Malmaggio (dai nemici), Giovanni di Narduccio da Canneto detto Rondine, Giuliano detto Muzo, Giusto detto Mancino, Giusto di Cristoforo detto Fungo, Giusto di Domenico chiamato Macone, Giusto di Michele detto Grillo, Giusto del Trusciola vocato Bibi e Piero del Trusciola, Giusto di Cipollone (Giusto di Simone di Zeo), Guaspi chiamato Mattano, Guido e Meo di Michele chiamato Quattrino, Guidaccio di Michele chiamato Fanulla (nullafacente?), Iacopo detto Capuccino, Iacopo detto Ciampoli, Iacopo d’Andrea detto Napoli, Iacopo di Giovanni detto Porrana, Iacopo di Luca detto Albigino, Iacopo di Piero detto Gamberino, Iacopo di Piero di Gino o Iacopo di Prete Polla.
E ancora Iacopo di Taviano da Poggibonsi fornaio detto Fornaino, Iacopo di Stefano detto Priore, ser Andrea pievano erede di Lazzero di Giusto chiamato Giorno, Lazzero di Taviano detto Canfria, Leonardo chiamato Magia, Lorenzo e Nardo di Piero di Puccio detto Ferro da Fatagliano, gli eredi di Lorenzo Rannagli (illegg.) detto Capello, Luca di Vannozzo chiamato Cerro da Monte Alto, Matteo vocato Fattorino (forse Matteo di Barnaba di Michele), Matteo di Iacopo detto Carvello, Menicone detto Tromba, Michele detto Bisaccia, Michele Gherarducci detto Burello, Michele detto Fogliano, l’erede di Michele detto Nero da Pomarance, Michele Zoppo detto Torto da Montegemoli, Michele di Ceo detto Schiaramazo o Chiaramaza, Michele di Iacopo altrimenti del Menca della Leccia, Michele di Niccolaio detto Bardelo, Michele di Vanni detto Milano, Nanni del Carnaccia (Fatagliani), Nanni detto Pasato da Montebradoni (Passetti?), Nanni vocato Tortino dalla Nera, Nanni di Biagio detto Birozo da Montignoso, Nanni di Biagio detto Pillone, Nanni di Francesco Trombetta (banditore del Comune?), Nanni di Centone (Contugi), Nanni di Franchino detto Basso, Nanni di Lorenzo detto Cavallaio, Nanni di Lorenzo detto Bianco da Libbiano, Nanni di Piero di Ghinuccio chiamato Bugiardello, Nanni di Piero vocato Brescianello, Nanni di Simone detto Giudicetto, Nanni di Simone detto Nanni Grande, Neri chiamato Valletto da Querceto, Niccolaio detto Capretta, Niccolaio detto Cerbola, Niccolaio di Matteo detto Magrino da Lustignano, Niccolaio di Niccolaio detto Gazzetta, Niccolò detto Pellegrino, Niccolò detto Pulito, Pasquino da Mazzolla detto Tasca, Piero detto Cioncinello da Pomarance (o Conanello), Piero di Checco detto Gallina e Meo del Gallina, Piero di Cinghio vocato Terenzano, Piero di Ferrino detto Cispi, Piero di Francesco vocato Prete Lotto, Pietro di Giovanni di Nuto detto Piero del Bargiacca, l’erede di Piero di Pietro detto Mordecchia, Piero di Vernarello detto Capellina, Piero di Nicolaio chiamato Orlando, Potente d’Andrea detto Mancia, Salvadore di Iacopo o Salvadore di Battigallo, Simone d’Ambrogio chiamato Sammaria, Simone d’Antonio detto Mone della Verde, Simone di Antonio Baroncini o Simone del Pesce Biondo, ser Stefano detto Cuoiaccio, Stefano d’Antonio detto Fantozzo, Taviano di Antonio di Lino detto Galeotto, Taviano di Bartolo detto Bossolo, Taviano di Nanni di Paolo o Taviano di Nanni Lancillotto, Taviano di Niccolaio detto Ribuia, Taviano di Paolo detto Tavianina, Taviano di Simone detto Basso, Tommaso d’Antonio d’Arrigo Trombadore o Trombetta, o anche Palacca, Tomme di Bartolomeo detto Trombetta, Tome di Taiuti detto Tromba, Tommeo di Giovanni detto Giudice, Ventura di Baldo o Ventura della Corte20.
La famiglia si costruiva con il matrimonio che era una scelta importante per le finanze di una casata o di un’azienda artigiana, per la realizzazione di ambizioni politiche, o per la semplice continuazione della discendenza e la trasmissione dei beni. All’epoca si celebrava con il festoso ingresso nella casa del giovane della ragazza qui condotta dal padre o da un parente. Così si trova nella posta del calzolaio Giovanni di Cristoforo che ricordava una sua fanciulla maritata a Francesco di Nanni Trombetta, e dice: menolla [la condusse] 18 di giugno 1428 …
Per quanto riguarda l’età, gli uomini si sposavano all’incirca tra i venti e i quarant’anni, anche se non mancano esempi di unioni in vecchiaia e di fertilità oltre i 60-70 anni. Nessun adolescente però prendeva moglie al compimento della maggiore età, 14 anni. Le donne invece, se potevano, si sposavano giovanissime; se non potevano, «si contentavano», e diventavano madri anche dopo i 30 e i 40 anni. Esempi di ragazze un po’ sfiorite che vivevano ancora in casa sono ricordate da Chele di Tomme che dichiarava la sorella Giusta di 25 anni non maritata, a giustificarne la presenza come «bocca», e da Lodovico e Cipriano Contugi, la cui sorella trentenne Ginevra era stata promessa a messer Ranieri Gambacorti di Pisa, ma non era mai andata a marito.
La varietà di situazioni circa l’età del matrimonio era dovuta anche al fatto che molti giovani non avevano di che sostentare una nuova famiglia, dovendo pensare a quella del padre, e molte fanciulle di piccola condizione non disponevano subito della dote, che ricevevano alla morte della madre.
Esempi di matrimoni «normali», sono quelli di Antonio di Bucarello (40 anni, la moglie Andrea 30, il figlio Lorenzo 2), di Bartolomeo di Piero di Ciotto (30 anni, la moglie Masia di 23, i figli di 7 e 5); di ser Bartolomeo di Martino di Duccio (38 anni, la moglie Caterina 30, i figli Gherardo e Martino rispettivamente 11 e 9); quello di Goro di Piero di Naldo (22 anni, la moglie Tommasa 14); di Tarsia Bindi (già vedova di Girolamo Broccardi e madre a 14 anni) e di Francesco di ser Luca (52 anni, la moglie Mea 49, il figlio Benedetto 27 e la nuora Nicolosa 15).
Situazioni particolari sono quelle di Francesco del Liscia (82 anni, la moglie Smeralda di 37 e la figlia Piera di un mese); di Rigo di Iacopo da Montignoso (70 anni, la moglie Luca di 45); quelo di Biagio di Andrea (90 anni, la consorte Vettori a 50, la figlia Margherita 13); di Duccio di Francesco (90 anni, la moglie Iacopa di 70, il figlio Barnaba 23); di Ughetta Baldinotti (60 anni, il figlio Michelangelo di 17); e di Angela di Stefano di Porta a Selci (45 anni e la figlia Caterina di 5).
Matrimoni di convenienza si possono riscontrare nella posta di Domenico di Cione di 30 anni (vedi sopra) e in quella di Giovanni di Taviano di 40 anni infermo: la moglie Francesca di 60 forse lo aveva sposato per accudirlo ed avere di che vivere.
La donna con il matrimonio portava un contributo all’economia della famiglia in cui entrava: la dote. Veniva costituita dai genitori o dai parenti che, oltre alle proprie casse, dovevano guardare al rango dei consuoceri. Metterla insieme presentava difficoltà, se non si disponeva di liquidità o di tante terre. Molti volterrani erano nella situazione che Dante descriveva un secolo prima (Par. XV, 104): Non faceva, nascendo. ancor paura / la figlia al padre; ché ‘l tempo e la dote / non fuggìen quinci e quindi la misura.
Per aiutare le ragazze povere alcuni benefattori avevano fatto dei lasciti: i Cafferecci dovevano dispensare per maritare fanciulle L. 90, secondo il testamento dello zio canonico Ventura di Michele; e Nanna vedova di Piero di ser Michele doveva dare a una fanciulla per l’amor di Dio per testamento di … ser Rinieri, il figlio morto.
La beneficenza era come una goccia nel mare e tante famiglie si indebitavano. Il citato Giovanni di Cristoforo aveva chiesto un prestito ai del Liscia per la dote della figlia; la vedova Nella di Piero di Pietro era debitrice di Antonio di Giusto di Cipo di 83 lire per dote di una fanciulla; e ser Filippo Bindi aveva dato in pegno a Nanni Nardi dei pezzi di terra a Pomarance, per la dote della nuora [del Nardi]: li può rischuotere in 6 anni, ne è passato uno. Tancredi di Martino invece aveva proposto per il resto della dote della figlia Ginevra, moglie di Matteo Maffei: gli fanno amettere in vestire e in gioielli. Berto di Nardo, creditore di parte della dote della moglie, ricordava una dilazione: i quali [denari deve] avere dopo lafine di detta m.a Giovanna [vedova di Michele di Spigliato], daifigli termina 1.15.
La dote era utilizzata dalle famiglie, e, nel bisogno, alienata. Niccolò Maffei aveva venduto al fratello Angelo per 530 lire una possessione avuta dalla moglie Caterina.
Alla morte di uno dei coniugi, la dote o l’equivalente dovevano essere restituiti alla vedova o agli eredi di lei, se era deceduta la donna. Ricordiamo, fra i casi più intricati del tempo, quello di Margherita vedova di Berto di Goro che doveva dare a Mea di Pagnino da S. Giusto, figlia di prime nozze di suo marito, la dote della madre deceduta (spettante come erede). Anche Giusta figlia di Iacopo di Giusto Corsini e moglie di Lorenzo Ciardi doveva avere dagli eredi del padre (un ente religioso) 280 lire per la dote di sua madre Lucia, lasciatale per testamento.
Secondo gli statuti volterrani doveva passare un anno dalla morte del marito prima che la vedova potesse riavere la dote. Lionda Guaschi superstite di ser Salvestro richiedeva le sue 400 lire ma non le si può dare perché non è passato l’anno, così ragionano gli ufficiali. Era il caso anche di Lucia vedova di Giusto Landini.
Le famiglie che non potevano restituire cifre al di sopra delle loro possibilità affrontavano il problema o con il buon senso o con i piati, cioè le azioni legali. Gli eredi di Antonio dello Scozza vivevano con la madre Margherita e la nonna Paola. Entrambe dovevano riavere rispettivamente 360 e 100 lire di dote, ma vivevano in famiglia, come bocche (a carico). Antonio di Buono doveva restituire la dote di 320 lire alla cognata: gliele avrebbe date quando sarebbe andata via, e intanto dalla per boccha…
Guido di Iacopo di Mariano aveva dei diritti sull’eredità del padre, obblighati però alla restituzione della dote di 300 lire agli eredi di Iacopa che era la madre deceduta (ma crede di ritrarne solo l. 138 perché al presente trova una charta di essa quantità l. 138). Antonia, seconda moglie di Iacopo, era usufruttuaria della casa che però era obblighata a Guido. A compensazione il giovane ‘figliastro’ abitava con lei e i figli delle seconde nozze del padre. La madre di Antonia, Angela Nardi stessa, doveva riavere la dote e vantava dei diritti in su i beni che le rimasero di Bartolomeo suo marito; se il loro valore fosse stato inferiore a 450 lire avrebbe preso in più i crediti di Bartolomeo.
Anche Simone di Antonio Cagnaza di Pratomarzio aveva una casa assegnata a sua moglie dal padre di lei, Francesco di Agostino, ma litighata per una dote di una nuora di Francescho. Non poteva affittarla: è chosi da sei anni.
E Lisabetta di 60 anni moglie di Vannino di Pillo da Ponsano faceva presente che da lungo tempo aveva in corso un piato contro di eredi di maestro Matteo di frate Giusto suo primo marito, per riavere la dote di circa 50 lire e per darla a Vannino: dice che n’ha ogni speranza perduta perché non può la spesa e la chosa è intrighata ed ha a fare chon troppo duro avversario. Si sarebbe accordata anche per una cifra più bassa: dice che gli darebbe a tanto meno che ve ne maravigliereste.
Un altro esempio nel catasto è quello di Maddalena Compagni vedova di Ghigo AIducci che doveva riavere 920 lire ed era usufruttuaria dei beni degli eredi del marito grazie ad un testamento e ad un lodo.
Anche Angela vedova d’Andrea Visconti poteva disporre dei beni di famiglia ed avanzava altre 100 lire dagli eredi del coniuge, cioè dai propri figli. Scriveva al catasto che non sperava di riprendere quanto spettante perché i detti eredi non hanno nulla chome appare dirinpetto (la ‘Posta di ser Battista e Giovanni nullatenenti!).
Infine Francesca del Liscia doveva avere 500 lire dal genero ser Michele Seghieri, erede della figlia deceduta. L’uomo, non disponendo del denaro, aveva stipulato una convenzione da un notaio: dava a Francesca una casa in Via Nuova, l’usufrutto di una vigna, 20 staia di grano rechato, 20 some di legna, 10 panate d’olio e pagava le sue graveze (tasse).
Nella maggior parte dei casi ricordati dal catasto i figli venivano allevati, diventavano adulti e lavoravano in casa con il padre anche dopo il matrimonio (vedi gli Incontri e i del Bava all’inizio del capitolo). Nelle pendici (il monte di Volterra) troviamo, come esempio, i figli di Angelo, lavoratori-pastori di Love di Spicchiaiola. Erano Piero (50), Meo (45), Biagio (40) infermo già è tenpo, e Giovanni deceduto. Piero aveva per moglie Salvata (32) e cinque figli (Tano 5, Andrea 12, Iacopa 11, Angelo 4, Apollonia 2); Meo era sposato a Taviana e aveva anch’egli cinque figli (Verdiana 8, Liso 6, Paolo 5, Cristoforo 5, Lucia 3); Biagio era celibe; Giovanni aveva lasciato la vedova Caterina e altri cinque bambini (Taddeo 13, Maddalena 12, Domenico 9, Margherita 6, Lucia 3). In tutto sono segnate 22 persone.
l coniugi senza prole erano una minoranza. L’uomo, se abbiente, poteva ricoprire quegli incarichi pubblici di prestigio che richiedevano pochi problemi familiari, come Mercatante Guidi che non aveva figli ed era operaio del Duomo. Oppure la famiglia adottava un trovatello o un bimbo solo. Bartolomeo Paganellini, non avendo avuto figli dalla moglie Maria Mannucci, teneva per Dio un bambino di 4 anni di nome Chiaro.
Simili adozioni avvenivano anche per altri motivi. Nanni di Domenico fante dei Signori, stava in Borgo Nuovo con la moglie, la figlia naturale e una fanciulla [tenuta] per Dio; Taviano di Piero e i figli lanaioli e speziali avevano in casa una ragazza di 15 anni, l’hanno allevata e la vogliono maritare per l’amor di Dio.
A volte la famiglia prendeva una fanciulla preferendo la forma del servizio domestico. Tommaso Buonamici, che aveva tre bambini di suo, teneva in casa una ragazza per fante; e facevano lo stesso ser Angelo di Galgano e la moglie Albiera, poco più che ventenni e senza prole. lacopa (18) moglie di Cerbone di Menico lavorava come domestica in una famiglia alla quale era così fedele da non abitare con il marito.
I figli che venivano dati a balia erano per lo più di uomini vedovi che esercitavano un lavoro faticoso. Sono ricordati Mariano di Giunta, gli morì la moglie 6 mesi innanzi, fece una fanciulla che ha dato a balia a s.j al mese; Taviano Zocchelli, vedovo con un figlio di due anni infermo; Ambrogio d’Attaviano con la figlia lattante Piera; il mulattiere e tintore Giusto di Giovacchino con una bambina di cinque mesi. Anche gli Incontri, sempre presi dal lavoro, avevano 2 fanciulli a balia o 3 cbontinuamente; mentre Iacopo Compagni aveva affidato una bimba di un anno e mezzo a Bartolomea coniuge del suo mugnaio, Piero di Giovanni, perché la moglie era di nuovo grossa (incinta).
Altri figli – ma in ogni modo una minoranza – vivevano fuori di casa per motivi di studio. Frequentavano soprattutto le scuole di ars notaria a Firenze: Battista di Giusto di 17 anni, nipote di Bartolomeo del Bava, Antonio Tignoselli di 20 e Antonio di Guiduccio di 17 (costava 10 lire all’anno). Ser Antonio Cortinuovi invece dichiarava un frate Filippo monaco di 18 anni, tiello in chasa per farlo studiare.
C’era poi chi lasciava la famiglia per lavoro, come un figlio senza nome di Michele Gherarducci, ser Gherardo Maffei, entrambi notai o pubblici ufficiali, e Niccolò della Bese, dottore in legge, da sette anni incaricato di un ufficio in un luogo non specificato.
Infine qualcuno poteva aver trovato condizioni di vita migliori. Stavano chon altri Angelo e Iacopo Parellacci, Martino Credi, Baldassarre di Tommaso Palacchi di 13 anni (presso uno zio a S. Gimignano), Vettore di Bartolomeo d’Antonio di Cecco della stessa età (a Pisa) e Giovanni di 9 anni figlio di Antonia di Giusto di Niccolaio di Gino, una povera vedova con altri minorenni da mantenere.
Si trovavano a Lucca Antonio di Michele Lapi e i figli di Falconcino di ser Martino, il primo per i fatti suoi e il padre non sapeva quando sarebbe tornato; i secondi, volenti o obbligati, nel chanpo, cioè alla guerra di Firenze contro Paolo Guinigi.
In un secolo tanto difficile per le guerre e le malattie, la famiglia poteva improvvisamente perdere un componente e, se quest’ultimo era il padre, trovarsi nelle strette del bisogno.
Alla situazione si rimediava in pochi modi: la moglie e i figli restavano nella casa dei suoceri-nonni e continuavano a lavorare nelle attività comuni, obbligati dalla povertà e dall’impossibilità di riavere in tempi brevi la dote. Se non c’erano parenti, la donna si occupava dei figli come meglio poteva. Mattea vedova di Luca Buti, di 35 anni e con due bambini (Piero di tre anni e Luca di otto mesi, chiamato come il marito defunto) per povertà viveva in un solaio prestato per l’amor di Dio; Agostina vedova di Giusto di Pasquino di 52 anni e i figli Michele di 8 e Stefano di 5 stava in una casa in Borgo avuta per l’amor di Dio; Tessa, abbandonata da Piero, abitava con le figlie Antonia di 6 anni e Iacopa di 3 e la suocera Mora, titolare della posta.
Uno dei pochi casi di scelta della moglie superstite, era quello di Caterina di Salvestro del Patti ere vedova di Guaspare Lotteringhi. Abitava col figlio Taddeo presso il padre a Pisa e qualche volta tornava a Volterra nella casa accanto a quella del suocero.
Lucia dello Spera invece aveva lasciato le figlie a Ughetta Baldinotti e ai Landini e Tarsia Bindi, la bambina Girolama, al suocero Antonio Broccardi. Questi ultimi però erano eventi eccezionali di famiglie ricche coercitive nei riguardi delle vedove. In genere le madri stavano con i figli e i nonni davano un sostegno o subentravano quando entrambi i genitori erano deceduti o impossibilitati. Così ad esempio vivevano familiarmente Iacopo di ser Parissieri e la nonna Antonia di messer Alesso; Michele di Angelo da Montebradoni di 20 anni e la nonna Francesca di 80.
La perdita solo della madre aveva minori conseguenze sul piano economico. Se il padre si risposava, dopo la morte lasciava una situazione complicata. Abbiamo già citato Guido di Iacopo di Mariano e la matrigna Antonia; ricordiamo ora anche Marchionne Landini che viveva con la moglie e il figlio e la matrigna Iacopa di 65 a carico; Piero di Giunta che dichiarava come bocche la propria famiglia (moglie e bambini) e quella del padre Giunta di Giusto di 74 anni, risposatosi con Margherita di 50 anni e con due figli della stessa età dei nipoti.
Infine c’erano i figli minorenni orfani di entrambi i genitori. Sono documentati Caterina (7 anni) di Bartolomeo di Paolo di Naccio, nipote di Profilio bandito ed esiliato; Baldassarra e Antonia (12) del Magagnino, proprietarie dell’albergo di S. Alessandro; Simona Buonamici di due anni dimorante presso lo zio Taviano; e Vettorio di Niccolaio di Piero di 13 anni che dichiarava di avere solo della terra con ulivi a Fatagliano.
Risultato di lutti o lontananze erano tutte le altre famiglie composte da una sola persona: quelle degli artigiani immigrati, delle tante vecchie vedove, delle donne abbandonate. Il tessitore Arrigo d’Ormanno della Magna abitava da solo in contrada di S. Angelo e pagava 23 lire e 10 soldi a una monna Antonia per spese di tenpo servito; e Rossa, figlia fu di Giovanni di Martino di 30 anni, era ospitata in casa dei Serguidi per l’amore di Dio. La moglie di Berto Cocchini, fuggito con i figli e con il bando della persona, era rimasta in città a difendere dalla confisca la casa (la sua dote); e Caterina di Bartolomeo da Bologna di 50 anni, abbandonata dal marito (non sa dove si sia, è 3 anni), dimorante in una casa degli eredi Fei, datale per carità.
Solitudine e povertà spesso convivevano sotto lo stesso tetto anche nella Volterra di allora. Michele di Bargolino era povero e vecchio e non acci mai nulla; Berto di Giovanni da Colle vecchio, sordo e poverissimo; Giovanna vedova di Paolo di Buto riceveva da Nanni Nardi 64 lire e quali loghora a pocho a pocho, ed è vecchia e non à altro al mondo. Ma è significativa anche la nota dello spedale di S. Maria, sui poveri che vanno e venghono e una charità che sifa l’anno loghorasi grano moggia 20. Quelli che frequentavano gli ospizi, erano i poveri più poveri. Di essi, è citato solo Nanni di Franceschino debitore, che sta allo spedale per povertà.
La mancanza di denaro e di sostegno riguardava proprio le famiglie che, come abbiamo detto, avevano perduto il capofamiglia o lo avevano invalido. Gli eredi di Iacopo di Mariano non hanno da paghare e hanno rifiutato il padre [l’eredità] e mai nulla n’arà e niuno: [Marco Bertini] non ne vuole però chasare [cassare] e priegha [gli ufficiali del catasto] se n’abi buona discrezione. Iacopa dei Guarguaglia da Sensano doveva dare per l’amore di Dio [in beneficenza] l. 4. di l. 10 de la madre [un terzo della dote ereditata da sua madre Stefana]. E più dice a’ nutrichare [nutrire] sé e tre suoi figliuoli perché il marito è povero e vecchio; dice che le bocche sono a nome di Agnolo di Iachopo… suo marito di santo Agnolo.
Il povero dunque si arrangiava. E sperava anche nel sostegno altrui. La carità pubblica era rappresentata dai Poveri della chontrada, un’organizzazione che aveva di suo alcuni edifici, tenuti come ospizi o affittati. Di questi, una Casa dei Poveri era al Ceragio; un’altra in contrada di Borgo, destinataria dei beni di Gemma Cipolloni e obbligata a fare un’elemosina di 6 staia di grano o pane cotto (e se i balitori non facessero la limosina, rimanghano all’Opera di santa Maria); e una terza casa, con balitori e subiutori, nella contrada di S. Giusto. Un toponimo Casa dei Poveri invece battezzava un pezzo di terra nelle pendici presso la Villa, ma non ne sappiamo di più.
La carità verso il prossimo inoltre si trova ricordata di frequente nelle poste degli artigiani o dei proprietari che «dimenticavano» di riscuotere i crediti o gli affitti delle case. Il fornaio Guido di Francesco faceva il pane per gli eredi di Piero Cimini e non pensava mai d’avere le sue 5 lire perché sono fanciulli poveri; Iacopa vedova di Andrea di Bonaccorso da S. Piero di Pisa, con due figlie a carico, ricordava un debito di farina verso uno da Cholle, un mugnaio che non si era fatto più risentire; Africo d’Antonio doveva riprendere 18 lire da uno di Roncolla, ma non si richorda il nome; le eredi dello Spera avevano da rischuotere circha l. 300 sechondo certi libri, quando avranno e detti libri faranno manifesti i debiti, sono già anni 20 … e così via.
Tra i proprietari di terre, Margherita di ser Antonio di Giusto aveva di fatto estinto i debiti di qualcuno dei suoi ex lavoratori ( …abiatene discrezione perché morto lui saranno perduti); ser Attaviano Barlettani aveva fatto lo stesso per quelli di Matteo di Corsino da Laiatico (è poverissimo non crede mai di avere); Nanni Nardi dichiarava per i debiti di Nanni Naldini di trenta anni prima: è morto, i figli hanno alloghato le prestazioni, quando gli arichiesi fagli perduto, se già non richognoscesse la buonafede in qualche parte, la qua’ chosa non crede.
Anche Giusta del Bene aveva una casa in Porta a Selci, la tiene j donna per l’amore di Dio che non ne dà nulla. E suo marito, ser Michele Turini, possedeva a Pomarance un edificio, che fu di Nanni di Ceccho Sternucci suo lavoratore partito 3 anni fa … lasciogli j sua madre vecchissima, le ha lasciato la chasa e vi è senpre stata per l’amore di Dio.
Altri particolari motivi di beneficenza erano ricordati da Giunta di Giusto da Fatagliano che aveva una casa nel castello di Pomarance, trovasi dentro una povera donna per l’amore di Dio perché gli ghuardi le chose e non le dà nulla; e da Ormanno Treschi che, per una casa nel borgo di Castelnuovo, dichiarava: fu di Girolamo di Piero di Giovanni, ebbe per dote della donna sua del detto Girolamo … vi tiene dentro monna Iachoma sua suocera per l’amore di Dio e per suo honore, pigliasi la stima.
Il mantenere dignitosamente la famiglia e i parenti in povertà (una casa, tiene Agnese sua zia e non dà niente … deve avere da Ghaspare suo chognato che è povero e non gli chiede mai) era un impegno d’amore e d’onore per le famiglie e un sentire che andava oltre le mura di casa: così si soccorrevano i frati dei conventi, si lasciavano beni alle istituzioni di beneficenza, si davano pane, vino, carne e denaro in certi giorni di festa, si faceva scrivere un messale per una pieve sprovvista e così via.
Era frequente anche il richiedere prestiti ai privati con o senza pegno. Antonio di Feo e il figlio Giovanni si erano rivolti al lanaiolo Antonio di Lucha di Ciaccho, ave[ha] il pegno di panni e cintole.
Molto noto in città però era il banco dell’ebreo Gianetano, figlio trentenne di Buonaventura di Gianetano da Bologna morto tra il 1429-30 all’età di 60 anni e da poco arrivato in città. Buonaventura aveva beneficiato di un’esenzione choncieduta per lo Chomune di Firenze paghando la sua tassa ordinaria. Si era portato dietro anche altri due figli: Manovello (Emanuele) di 18 anni e Perla di 16, promessa a marito. Gianetano era sposato a una ventiquattrenne innominata e dichiarava i figli Samuele di 10 anni, Anna di 12 e due gemelle di 13 mesi.
Il banco era titolare di vari crediti da parte di artigiani. Sono documentati Nanni di Lorenzo Cavallaio, Angelo Maffei, i calzolai Rubini e Fatagliani, i Landini (100 lire), Francesco Alducci (80 lire, ho acchattato in su i pegni e agli posto a rischuotere), Antonio di Borguccio (15 lire, più il merito di mesi 6 a d. 6 per il mese); e gli Angelini (29 lire, per una malleveria per Taviano e Giovanni di Niccholaio Bruccha tra chapitale e interesso).
C’era poi il caso complicato di Michelangelo di ser Salvestro debitore per charta della vedova del padre, Lionarda. Ne erano coinvolti anche Antonio di Alessandro e Michele di Giusto di Maso debitori di 50 lire per una pagheria [mallevadoria] che gli entrarono per ser Salvestro di Lodovicho al Morellaccio … Poi entrarono in una pagheria per lo detto Salvestro al giudeo l. 17 chol merito [interesse]. Dice che non si trova nulla di quello di ser Salvestro e che gli chonverrà paghare loro e che se niente se ne trova che ila donna sua il piglia per la sua dote…
Di contro Gianetano e i fratelli dovevano pagare gli ingenti debiti lasciati dal padre, cioè della compagnia o personali. Riguardavano, secondo il catasto pisano, Andreozzo da Perugia (400 lire), Tommaso Buonamici (700 lire), Marco d’Antonio (30 lire), ser Piero Cafferecci (338 lire), ser Bartolomeo di Martino (200 lire), ser Piero di Nanni (100 lire); Giovanni di ser Guido, Giovanni Barbadoro da Firenze (6 lire); e per il catasto volterrano, soprattutto i Buonamici (1100 lire). Bartolomeo di Martino dichiarava anche una mallevadoria: dagli eredi di Ventura di Giannetano… per loro gli promesse Michele di Francescho Dini e Michele di Giovanni Gherarducci ciaschuno l. 800…
Gianetano aveva anche un curioso debito di 25 lire verso Nanni di Gualfredi, per due cintole le adopera la sua donna… chol patto che ghoda le cintole ma ogni volta che gli rende le cintole debba avere l. 221.
La ricchezza o il rango non potevano determinare del tutto il futuro di una famiglia.
Selvaggia Belforti, Ughetta Baldinotti e le nipoti Landini, che nel passato facevano parte di potenti consorterie, vivevano ora in (relativa) povertà.
Ma molto più misere erano quelle famiglie senza beni che non riuscivano a sollevarsi dal tracollo e fuggivano da Volterra. In genere i creditori che ricorrevano in giudizio ne dichiaravano l’irreperibilità al catasto, chiedendo la discrezione sull’imponibile da tassare. Per fare anche qui qualche nome, Fidanzo di Chello era fuggito e abitava a Pisa o nel pisano; Francesco da Colle era persona miserabile, per debiti se ne è andato; Giovanni di Piero del Tura e il figlio Piero dimoravano non si sa dove; il maniscalco Michele d’Andrea Marchisello partì da Volterra per debiti già molti anni fa, perduti in tanta povertà è venuto.
Per quanto riguarda l’illegalità, invece Salvadore di Nello, Cecca di Taviano, Simone di Niccolaio della Nera erano debitori di Francesco di ser Luca: furono rubati non li stima nulla; Nanni di Puccio doveva rifondere l’argento di due calici sottratti alla chiesa di S. Stefano e al fratello priore messer Giusto (poi deceduto), e ritrovati rotti. La prigione per debiti era menzionata da Francesco Alducci creditore degli eredi di Antonio di Drea da Senzano, l. 116.12, che gli prestai quando el chavai di prigione.
Anche la malattia era un onere per la famiglia. Gli infermi (paralizzati) necessitavano di assistenza continua, che era fatta dai parenti o da donne pagate.
Erano infermi, vivevano in famiglia e su questa contavano Angela di 85 anni e Benedetto di 42 affetto da male chaducho rispettivamente madre e nipote di ser Attaviano Barlettani; Lorenzo suocero novantenne (stava sul letto) di Antonio di Bucarello; Margherita paralizzata da 25 anni cognata di Santa d’Antonio di Pratomarzio; Checa dogliosa, cioè piena di dolori, madre di Guido di Francesco; Taviano di Piero di Tura infermo, che viveva con un fratello e un nipotino dal nome significativo di Provvedi… e poi Francesco Danzini, Taviano Vannini vecchio e gottoso, Gherardo figlio di Tancredi Credi di 23 anni, messer Francesco Ciancia e la moglie Lucia, Antonio di Marsilio da Modena di 14 anni, Caterina moglie di Barberino di Petrino.
L’assistenza di terzi è testimoniata da monna Margherita di anni 80 è inferma già da anni sette, monna Mea sua chonpagna la ghoverna; da Taviano Ganucci che segnava per la moglie: gli chostafarla ghovernare; da Tonio figlio di Taviano di Simone di due anni aiutato da una balia.
C’era però anche chi cercava di cavarsela con le proprie forze. Cristoforo Borselli andava a gruccia e Giovanni di Taviano faceva il calzolaio, uno dei pochi mestieri che si potessero esercitare stando sempre seduti.
Nel catasto infine si trovano citati uomini atratti (rattrappiti) nel corpo o in una parte di esso, affetti da sordità, da cecità parziale e totale (e tra questi Ercolano Contugi acechato), da mutismo. Betta e Arcangela dello Spera erano una zenbuta (gobba) e nana e l’altra ghuasta della persona; Antonia e Caterina di Piero di Comuccio di 6 anni erano nate a un chorpo (gemelle siamesi). Mone della Verde aveva un piede mozzo e, come Giovanni di Taviano, viveva facendo il calzolaio22.
A Giusto di Taviano speziale per cera quando si sotterrò Iachopo – si trova ricordato dagli sfortunati eredi di Iacopo di Mariano, che non avevano potuto pagare nemmeno le candele del funerale. Altre morti sono citate implicitamente nelle vedovanze (donna che fu di… ) e chiaramente a lato digli elenchi di crediti perduti o cattivi.
Esempi sono Domenicho, Cerbone e Lorenzo del Zanbera da Villamagna ed eredi furono loro soci [dei Minucci] più tenpo fa e i figli sono morti e iti chon Dio già 10 anni fa in quello di Siena; Giusto e Simone Sacchetti furono lavoratori sono morti e non si trova nulla; Piero di Michele di Taviano lavoratore di un avolo è morto e il figlio ha rifiutato l’eredità e non si trova nulla; Salvante di Barone da Ghuardistallo della Maremma morto già da 10 anni … il figliuolo è povero e non può paghare …
Meno spiegazioni invece sono riservate ai defunti Ambrogio di Iacopo da Siena, Biagio di Lodovico, Giovanni e Pietro detto Petrello da Orciatico, maestro Iacopo da Nizza archimiatore [chimico], Ugolino del Polta (aveva un bando), Vanni di Valdera abitante a Querceto e ser Verano di ser Coscio da Pisa.
Un ricordo dello spedale di S. Maria infine cita le persone che morivano solitarie: per zuchero agli infermi e ciera per chi muore l. 12 e 1/2.
Le eredità dei defunti in genere erano lasciti in denaro o in terre ai parenti o ad enti religiosi, a spedali e ad istituti di beneficenza. C’erano anche oggetti particolari, come la cioppa bruna da 10 lire di Bartolomeo d’Andrea destinata alla figlia Antonia. A volte il testatore imponeva degli obblighi ai beneficiari. Fiore Alducci aveva lasciato 200 lire al figlio Parugio Contugi con questi incharichi: dote alla sua figlia l. 100, alle rede di Niccholà suoi nipoti l. 50, per fare tre uffici di spesa di l. 20 quando avrà la sopradetta eredità.
Alcune informazioni del catasto sulle eredità però sono poco chiare. Per esempio ci sfugge il vincolo che Piero di ser Nardo doveva avere con gli eredi di m.a Angela di ser Simonetto o vero Merchatante di Giovanni di Giusto tutore … l. 135 per uno lascio di un testamento; né è esplicita la scritta del fratello Guasparrino su un usufrutto dei beni di Lena e di Lese, rispettivamente la prima moglie e la figlia erede decedute.
Ma forse ciò si può spiegare con le usanze sugli obblighi forzati di restituzioni di doti a una vedova o ai suoi eredi. Erano questi origine davanti alle magistrature di molti piati (cause civili), dei quali ci si premurava di informare il catasto. I casi erano davvero tanti e ne riportiamo solo alcuni. Per esempio Nastagia figlia fu di Paolo di ser Monaldo e donna al presente di Lodovicho di maestro Piero doveva avere la sua parte di certi pezzi di terra, eredità del padre e poi del fratello deceduti; non ebbe mai nulla, è che li tiene una sua sorella donna di ser Domenicho Moschardi.
Lenza vedova di Duccio di Tomme aveva un credito della 1/4 parte di una chasa nel Chorso a stimare sechondo una sentenza; deve avere da Michele di Dietatiuti per una sentenza d’albirtri [secondo un arbitrato] st. 6 di grano.
Biagio di Giusto di Vanni era titolare di più ragioni per vighore di lodi e di sentenze e di testamento chome appare in una sua scritta sopra beni e bestiame e quando alchune chose acquisterà lo notificherà prestamente [al catasto] e manchando ne debba essere chondannato… sono chome erede di Nanni che fu di Piero di pocha buonafede e altri.
Maddalena vedova di Ghigo Alducci era creditrice di 30 lire da Giovanni e Antonio di Donato dell’Allegra e da Lazzero di Piero di Goro da Certaldo per raccholta da loro fatta sul podere del Pozzo a Certaldo, ha fatto piato presso il podestà di Firenze ma non sa se otterrà perché i piati sono dubbiosi.
Quest’ultima causa era ricordata da Francesco Alducci creditore degli eredi di suo genero e suo prochuratore a rischuotere per un podere in Valdelsa venduto a Biagio del Pace da Firenze per 1065 lire, e piatito con l’erede.
Esempi molto chiari sulle spese della famiglia si trovano nelle poste del notaio ser Vinta di Michele, del barlettaio Taviano Ganucci e del lavoratore Antonio di Borguccio. Gli incharichi (le spese da detrarre dall’imponibile) sono tre rappresentazioni di stati sociali: il più alto era quello di ser Vinta, che produceva il grano e il vino nei suoi poderi e, vista la spesa del vestire, adeguava l’abito al rango di notaio. Taviano invece esercitava un mestiere «popolare», aveva la moglie inferma e ne pagava l’assistenza, dichiarando una spesa del mangiare limitata. Il più giovane e di modesta condizione sociale, Antonio da parte sua ricordava una famiglia che consumava molto pane e un porco all’anno, oltre al companatico. Trascriviamo le poste relative:
Ser Vinta di Michele di Vinta notaio (48), la moglie Pellegrina (32), il figlio Paolo (17), la figlia Caterina (4), la figlia Bartolomea (l e mezzo): chostagli l’anno l’acqua e buchati l. 15; ai lavoratori per ferri e altro l. 4; chostagli per portare grano e biada dal podere l. 5; chostagli l’anno per vestire e chalzare per me e mia [famiglia] l. 100; chostagli charne e altre chose per vivere l. 40; ghabelle e graveze del Chomune l. 25; chostami le vetture e gli schoti l. 30; chostami le legne l. 20.
Taviano di Francesco Ganucci (70), la moglie Giusta (60): dice ha la donna inferma e gli chosta farla ghovernare l. 10; chonpera ogni anno un moggio di grano gli chosta l. 18; chonpera ogni anno barili 6 di vino l. 6; pagha di dazi all’anno l. 3; spende l’anno per chalzare e vestire sé e la donna sua l. 20; e più per charne seccha e altro chonpanaticho I. 8.
Antonio di Borguccio (35), la moglie Belcolore (30), i figli Agnese (8) e Giovanni (6), il figlio Borguccio (4): pagha l’anno a Bandino di Lippo da Peccioli per pigione della chasa dove abita; chonpra l’anno moggia 2 e mezzo di grano chosta l. 36; chonpra l’anno panate 12 d’olio chosta l. 4; ghabelle e graveze l’anno l. 4; spende l’anno in uno porcho e altro chonpanaticho l. 16; per chalzare e vestire sé e la sua famiglia.
Per quanto riguarda gli enti religiosi (v. il registro 193 del catasto), i frati Olivetani di S. Andrea – sette bocche tra frati e famigli (servi) – dichiaravano di dover comprare ogni anno 10 moggia di grano, 50 some di vino (circa 38 ettolitri), 16 lire di cacio, pesci e uova, 30 lire per i vestimenti e chalzamenti, oltre alle spese per i famigli (12 lire), per la legna, per mantenere gli animali utili a sbrigare le faccende, e per il buon funzionamento dei poderi. Anche i Frati Minori avevano pressappoco le stesse uscite a cui aggiungevano quelle per il barbiere, il fornaio, l’ortolano, il cuoco, la lavandaia, e il mantenimento degli studenti.
Le spese straordinarie erano varie ed imprevedibili, a volte conseguenti alla morte di un parente, a una malattia, a imposte speciali del Comune, e, per i religiosi, a tasse straordinarie e ai doveri dell’ospitalità verso altri membri dell’Ordine o i forestieri.
Le famiglie previdenti che potevano farlo tenevano in casa del contante (denari spezzati, spicciati), a volte anche d’importo considerevole. I Cafferecci dichiaravano l’enorme somma di 2251.6.1 lire in contanti; Tommaso Buonamici aveva 110 lire di più ragioni monete; Benuccio d’Angelo otto denari d’ariento (in tutto l. 16). Il contante era tassato. Nanni di Simone di Nuovo però dichiarava di avere 4 lire per il suo vestire, forse perché questa spesa era esente da imposta.