La nascita e lo sviluppo delle Contrade

La parola Contrada deriva dal latino contra, che vuol dire: zona che ci sta di fronte, vicina. Si tratta quindi di un termine essenzialmente usato per indicazioni topografiche, tanto è vero che ancora oggi in alcune regioni del Sud Italia è usato come sinonimo del termine località. Nel medioevo il termine servì per indicare le ripartizioni amministrative in cui erano divise le città italiane. Le contrade nacquero con lo scopo di riunire gli abitanti di una determinata area interna alla città in una organizzazione di reciproco sostegno, tutti i capifamiglia dovevano giurare che non avrebbero preso le armi contro i propri vicini e che si sarebbero aiutati in caso di pericolo.


COSA ERANO LE CONTRADE

Si diffusero molto rapidamente nel corso del XII e del XIII secolo, divenendo di uso comune in quasi tutte le città italiane; in molti casi avevano altri nomi quali orae, porte, rioni.

Con l’avvento in Italia del libero comune i rappresentanti delle contrade vennero coinvolti nell’amministrazione cittadina; le contrade iniziarono così a gestire alcune funzioni amministrative come la raccolta delle tasse, i lavori pubblici che interessavano l’area di loro pertinenza, la leva militare e la sorveglianza armata di tratti delle mura e delle porte cittadine. Con il tempo acquisirono un’importanza non solo amministrativa, ma anche politica, che però nella maggior parte dei casi non si estendeva alle decisioni di politica estera.

A partire dalla fine del Duecento si cominciò a sviluppare anche un altro tipo di divisione amministrativa, il terziere o quartiere. Si trattava di una divisione in tre o quattro parti della città, ognuna delle partizioni era a sua volta divisa in contrade; il sistema era più semplice e snello e venne ben presto adottato ovunque sostituendo le contrade.


LE CONTRADE DI VOLTERRA

I primi segni di una ripartizione cittadina sono visibili già nel corso del XII secolo, quando gli uomini di Volterra cominciano a firmare facendo seguire al proprio nome quello della località di appartenenza.

È solamente con gli inizi del secolo successivo che è possibile documentare con certezza l’esistenza di una organizzazione di contrade. Il primo documento che ci informa della costituzione di una contrada è del 1 aprile 1208, quando gli uomini di San Cipriano si riuniscono in cappella (sinonimo di contrada), dandosi dei rettori e delle leggi da osservare. Li seguono il 12 aprile 1208 gli uomini dei villaggi di Ripalbella, Bibbiano e Fognano che si danno più o meno le solite regole.

Per quanto riguarda la città vera e propria dobbiamo aspettare la prima redazione degli statuti a noi pervenutaci, che è quella del 1210, per trovare la menzione dei Dominis Contratarum e Rectores Contratarum; non viene però specificato quali siano le contrade cittadine in questo periodo. Siamo comunque in grado di conoscere i nomi di alcune contrade da un documento del 1218 che cita i rettori delle contrade di Borgo Santa Maria, Pratomarzio, Porta a Selci, San Giovanni oltre a quelli di altre non specificate.

Agli inizi del ‘200 esistevano a Volterra anche le contrade di Piano di Castello, Castello, Postierla, Sant’Agnolo, Piazza, Borgo dell’Abate, Porta all’Arco, Sant’Alessandro, Fornelli, Santo Stefano, San Giusto, Montebradoni, Val Guinizinga.

Siamo in grado di determinare il loro territorio con una certa approssimazione; dobbiamo considerare che allora la città non era ancora stata chiusa dalle mura medievali ed i confini cittadini erano molto più ampi di quelli delle mura etrusche, tanto che si considerava città e pendici (cioè il territorio direttamente pertinente alla città) tutta l’area delimitata dal torrente Arpino, da Monte Rodolfo (Poggio San Martino), dall’Era alla Cecina, pertanto alcune contrade avevano ampie pertinenze in quella che oggi è considerata solo campagna e alcune occupavano solo la parte extraurbana di questo territorio.

Porta a Selci comprendeva la parte orientale della città, dalla porta omonima tutt’intorno all’attuale Via Don Minzoni; Postierla si trovava nella zona fra Porta Marcoli e Sant’Andrea; Piano di Castello corrispondeva all’area occupata dalla fortezza Medicea; Castello era l’attuale Parco Fiumi; Sant’Agnolo era tutta la zona intorno alla chiesa di San Michele; Borgo dell’Abate occupava le attuali Via delle Prigioni e Via Sarti; Piazza era tutta la zona intorno alla Piazza dei Priori; Porta all’Arco corrispondeva alla via che porta ancora oggi questo nome; Borgo Santa Maria era la strada che da Piazza dei Priori scendeva verso Santo Stefano; Fornelli andava dall’area oggi occupata dall’ex ospedale di Santa Maria fino alla fonte di S. Felice; Sant’Alessandro era la zona intorno alla chiesa omonima; Santo Stefano andava dalla fonte di San Felice alla Via della Penera; San Giovanni d’Orticasso era l’area intorno all’attuale convento di Santa Chiara; Pratomarzio era tutto il pianoro del moderno Borgo San Giusto fino alle mura etrusche; San Giusto è oggi sprofondato nelle Balze; Montebradoni era identico al borgo moderno; lo stesso vale per San Cipriano; un’altra contrada comprendeva alcune ville del territorio nei pressi di Montebradoni; col nome di Val Guinizinga era chiamata tutta la vallata dalla Torricella fino all’Era, a destra e sinistra della Strada Provinciale Pisana.


I PRIMI ACCORPAMENTI

Il numero delle contrade era molto alto nel 1200, ciò ci indica una notevole frammentazione del tessuto urbano, ma ben presto molte contrade furono aggregate ad altre, per consentirne una migliore gestione; la prima notizia in tal senso riguarda Postierla, ai cui abitanti viene ordinato, nel 1230, di unirsi a Porta a Selci. Ad essa seguono ben presto anche altre: Borgo dell’Abate fu inglobato da Sant’Agnolo e a Montebradoni furono unite le contrade extraurbane di San Cipriano, Val Guinizinga e i villaggi del territorio settentrionale.

La sorte di altre contrade varia invece a seconda degli anni, ad esempio Sant’Alessandro e Porta all’Arco, prima di divenire un tutt’uno alla fine del Trecento, vengono di volta in volta unite o divise, lo stesso avvenne per Piazza e Castello.

Il caso di San Giovanni e di Santo Stefano è lievemente differente: in origine erano due contrade separate poi, per tutta la prima metà del Duecento, risultano unite in un’unica compagine. Con la costruzione delle nuove mura di San Francesco, nella seconda metà del XIII sec., la contrada fu divisa in tre parti: San Giovanni, Santo Stefano e Borgonuovo, che è la parte di contrada all’interno delle nuove mura di cinta. Con questi nomi vengono anche citati i balitori che costruirono la fonte di San Felice nel 1319, ma non sappiamo se indicano tre contrade distinte o una solamente.


LA CRISI DELLE CONTRADE

Con la fine del XIII secolo l’abitato di Volterra fu diviso in terzieri, che raggruppavano più contrade. Solitamente erano chiamati Superiore, di Mezzo e Inferiore, seguendo l’andamento orografico della collina; nei primi anni del Trecento sono anche chiamati con il nome delle chiese principali che vi si trovavano: San Pietro, Santa Maria e San Giusto.

Una considerevole crisi per questo sistema avvenne con il calo demografico conseguente alla peste del 1348, quando morì oltre un terzo della popolazione volterrana. Il consiglio cittadino decise di unire alcune contrade che erano rimaste quasi disabitate con altre demograficamente più rilevanti: Piano di Castello fu inglobata da Porta a Selci, Castello da Piazza, Fornelli da Borgo Santa Maria e San Giovanni da Santo Stefano.

Ma gli accorpamenti non vennero rispettati, infatti nei documenti redatti negli anni successivi troviamo nominate indiscriminatamente tutte le contrade, anche quelle che avevano poche decine di abitanti.

Fino al catasto del 1428 sono infatti ricordate le contrade di Porta a Selci, Piano di Castello, Castello, Sant’Agnolo, Piazza, Porta all’Arco, Sant’Alessandro, Borgo, Fornelli, Santo Stefano, Prato Marzio, San Giusto e Montebradoni, Val Guinizinga. Queste possono essere considerate le “contrade storiche” di Volterra, quelle di cui abbiamo una documentazione continua ed abbondante e di cui conosciamo con una certa sicurezza gli stemmi ed il territorio.


IL RINASCIMENTO E L’ETÀ MODERNA

Nel 1428 il catasto ordinato dal governo fiorentino ci documenta una diminuzione delle contrade, che adesso sono in numero di otto: Posta a Selci, Sant’Agnolo, Piazza, Borgo Santa Maria, Santo Stefano, Pratomarzio, San Giusto e Montebradoni. Porta all’Arco era stata inglobata da Piazza.

Il numero delle contrade rimase pressoché invariato fino alla metà del Seicento quando gli statuti furono riformati sotto la guida di Curzio Inghirami; i nuovi statuti prevedevano solo cinque contrade: Porta (Porta a Selci), San Michele, Piazza (che comprendeva anche Borgo), Santo Stefano e Prato Marzio (chiamata anche San Marco).

Il 21 settembre 1772 il granduca Pietro Leopoldo emanava un Regolamento per la Comunità di Volterra, con il quale venne riformato il vecchio statuto, che sostanzialmente era rimasto immutato dal medioevo, per gestire la città in maniera simile a quella del resto del Granducato. Un nuovo e definitivo regolamento venne poi emanato il 15 maggio 1779 ed è in esso che, insieme a molte altre cariche cittadine, fu abolita l’istituzione delle contrade. Tutte le proprietà passarono alle opere pie delle chiese principali delle contrade, che da allora si assunsero l’onere di provvedere alle beneficenze di cui finora si erano occupati i consigli di contrada.


GLI ORGANI DIRIGENTI E GLI STATUTI

Tutte le contrade di Volterra avevano un proprio stemma distintivo, che veniva riportato sul gonfalone che precedeva gli abitanti della contrada in battaglia e nelle processioni pubbliche; gli abitanti dovevano eleggere un proprio Consiglio, mentre a governare e rappresentare ogni contrada era preposto uno o due Balitori, coadiuvato da un Vessillifero e da un Notaio, inoltre dovevano essere scelti due Sindaci revisori dei conti. I Balitori erano membri effettivi del Consiglio Maggiore e i principali magistrati cittadini, i Priori, erano eletti in modo che ve ne fosse almeno uno per contrada.

Ogni contrada aveva un luogo di riunione, costituito in genere dalla chiesa parrocchiale, e poteva possedere terreni, case ed attività produttive dalle quali ricavare utili che venivano usati per diminuire la quota di tasse che dovevano pagare i contradaioli, per le feste religiose oppure per fare beneficenze.

Alla base delle contrade vi era uno statuto, sul quale erano segnate le norme che regolavano la vita pubblica dei propri membri; ogni abitante della contrada doveva giurare di rispettarlo e di farlo rispettare dagli altri. Tutte le contrade avevano uno statuto, che nella maggior parte dei casi doveva essere assai simile e che veniva periodicamente aggiornato; solamente quello della contrada di Sant’Agnolo dei primi del Quattrocento è sopravvissuto, gli altri sono stati tutti perduti.

Con l’annessione di Volterra nello stato fiorentino, nel 1472, le contrade non dovettero consegnare i beni alla comunità, il loro patrimonio rimase il medesimo e, quando il governo fiorentino concesse ai volterrani di rieleggere i Priori, questi furono nuovamente scelti in base alle contrade.

In seguito alla riforma del ‘600 le contrade mantennero invariati i propri magistrati, ma il consiglio era composto da 10 nobili e da 10 artieri ed i magistrati principali potevano essere eletti solo fra i nobili cittadini che avevano più di 22 anni di età. Le contrade divennero così un ambiente dove i giovani rampolli delle famiglie nobili volterrane iniziavano la loro carriera pubblica. L’attività di contrada si limitava adesso solo alle beneficenze a poveri, alla concessione di doti alle fanciulle in età da marito ed a contributi per le opere religiose che talvolta venivano dati direttamente alle confraternite o alle opere delle chiese.


I COMPITI DELLE CONTRADE

All’interno dell’amministrazione comunale medievale le contrade avevano un compito molto importante. Numerose attività quotidiane erano demandate ai magistrati delle contrade, in particolare dovevano occuparsi delle opere pubbliche che interessavano il territorio di loro giurisdizione oppure, in collaborazione con le vicine, di lavori di maggiore portata. Strade, mura, fonti e fognature erano pagate in parte con i soldi della cassa comunale ed in parte con i contributi esatti dai balitori agli abitanti delle contrade interessate.

Un altro compito molto importante era quello di tenere il censimento della popolazione, che era collegato direttamente con la gestione delle tasse, che veniva praticata da cittadini appartenenti a tutte le contrade. La tassa più importante era il cosiddetto Sal delle Bocche, che era una legge che imponeva ad ogni volterrano adulto di comprare dal comune una certa dose di sale al prezzo imposto dall’amministrazione e che quindi comportava un attento controllo degli abitanti.

Un altro incarico riguardava il reclutamento della milizia cittadina e la gestione delle truppe; ogni cittadino adulto doveva contribuire alla difesa della città ed era raggruppato in una compagnia composta interamente dai membri della sua contrada. Fra essi venivano scelti i miliziani che dovevano occuparsi della sorveglianza delle porte e del servizio di ronda notturna in guerra; durante le campagne militari gli uomini seguivano i vessilli della propria contrada.

Con l’annessione di Volterra nello stato fiorentino, nel 1472, diminuirono i compiti dei magistrati e dei consigli delle contrade, rimanendo loro solamente la gestione delle opere pubbliche e del censimento per la riscossione dei tributi. Dopo il Seicento i balitori si occupavano solamente di amministrare le proprietà della contrada.

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SANT’AGNOLO

Le abitazioni di questa contrada erano concentrate intorno alla chiesa di S. Michele Arcangelo in Foro, il nome medievale di Sant’Agnolo o Sant’Angelo era usato sia per la chiesa che per la contrada. Le prime notizie della sua esistenza sono databili al XII secolo, nella sua giurisdizione rientravano anche l’attuale via Sarti e tutta la zona al di fuori dell’attuale Porta Fiorentina.

Comprendeva quindi una grande zona densamente abitata confinante fra la contrada di Porta a Selci, quella di Piazza e quella di Borgo S. Maria. I suoi confini erano: l’oratorio di S. Antonio; la via che correva parallela a via nuova, oggi scomparsa; la parte inferiore di via Matteotti, probabilmente fino al punto in cui partiva la strada precedente; via Sarti; confinava con la contrada di S. Maria all’altezza dell’attuale Palazzo Solaini. La contrada si spingeva anche oltre le mura medievali snodandosi lungo l’asse viario che andava da Porta Fiorentina a Porta Diana. Ilimiti erano forniti dai botri di Docciola (a Est) e di Broglio (a Ovest) e dalle mura etrusche.

L’attuale porta Fiorentina, da cui partiva la strada che portava a Firenze, era allora chiamata porta Sant’Agnolo, mentre il nome di Porta Fiorentina era attribuito a Porta Diana, che oggi è chiamata anche Portone. Al di fuori della Porta di Sant’Agnolo l’abitato era più sparso.

In questa contrada vi era una sola chiesa: quella di S. Michele, una delle più antiche della città e delle più venerate e documentata già in un codice del 987 con l’attribuito in foro probabilmente perché era costruita vicino a dove, nell’antichità, si trovava il foro romano.

Oltre a questa grande chiesa, vi si trovava anche il primo convento di S. Chiara che fu edificato dalle clarisse volterrane nel 1255. Era costruito poco oltre la porta di Sant’Agnolo e fu distrutto durante l’assedio del 1472; le suore pochi anni dopo si trasferirono nel convento benedettino di S. Giovanni in Orticasso che da allora mutò nome in quello di S. Chiara.

In epoca medievale vi si teneva, nella località detta le Zatre, un mercato stabile per la vendita delle carni; le Zatre si trovavano più o meno dove oggi c’è Palazzo Viti, vi era una fonte ed uno spiazzo adatto alle trattative commerciali. Nel 1427 il comune costruì in questo luogo una tettoia dove macellare le carni e un magazzino dove conservarle.

Anche la sistemazione delle opere di difesa era diversa: non essendo stato ancora costruito il Bastione (opera del 1545 dell’architetto Giovan Battista Belluzzi detto il Sammarino) la zona era protetta dalla imponente mole di porta S. Agnolo. Sopra la porta vi era una torre che fu distrutta durante l’assedio del 1530; nel 1350 fu costruita un’antiporta per consentirne una maggiore protezione. Dove oggi vi è la mole del Bastione vi era una torre di grosse dimensioni, di cui oggi non rimane nessuna traccia visibile in quanto fu demolita e i resti coperti dall’interro che ha riempito il bastione.

In questa contrada si sono conservate o è rimasta memoria di numerose case torri. Le più importanti e meglio conservate sono quelle della famiglia Toscano, poste in posizione strategica nei pressi della chiesa di S. Michele, ma ne sono ricordate anche altre: una torre Nicholi, di incerta collocazione, la torre Minucci in piazza Pescheria, proprio al confine con la contrada di S. Maria, e altre che sono oggi a malapena visibili.

Le strade hanno cambiato nome, nel corso dei secoli, i più antichi indicavano la presenza di zone dove si concentravano botteghe specializzate in un unico mestiere: l’attuale via Sarti era chiamata fino al Quattrocento via dei Maniscalchi fino al vicolo che conduceva alle Zatre e via delle Beccherie per il tratto fino a via Guarnacci; vicolo del Forno ci ricorda che qui vi erano probabilmente botteghe di panettieri, nel vicolo dei vecchi ammazzatoi e in vicolo Sant’Agnolo è invece attestata la presenza di ceramisti. Inoltre via di Sotto era detta fino al Cinquecento via degli Asinari, perché vi erano la maggior parte delle abitazioni di coloro che conducevano le lunghe carovane di muli e asini che ogni giorno arrivavano o partivano da Volterra. Era grazie a queste carovane che era possibile sia il trasporto in altre città dei prodotti dell’industria volterrana (sale, vetriolo, zolfo e zafferano), che l’arrivo a Volterra di prodotti esterni, in particolare di
grano dalla Maremma.

Questa contrada continuò ad essere molto popolata per gran parte della storia di Volterra; nel catasto del 1551 è ricordata col nome di S. Michele.

Il suo stemma è una luna calante. I suoi colori sono il rosso e il giallo. La bandiera di questa contrada, gialla e rossa, fu portata in battaglia dai fanti volterrani nel 1236 nella guerra contro San Gimignano.

BORGO SANTA MARIA

Il suo territorio è interamente compreso all’interno delle mura duecentesche. I suoi limiti sono ben definiti, si tratta infatti dell’isolato che è compreso fra le mura medievali del Mandorlo e di S. Francesco, via Buomparenti, via Roma, via Franceschini e via San Lino.

La contrada era dominata dalla possente mole della chiesa di San Francesco costruita su un monte che è entrato a far parte della contrada solo dopo la costruzione delle mura, infatti questa zona a ridosso della porta San Francesco, insieme a quella dall’altra parte di via San Lino (che però fa parte della contrada dei Fornelli), era compresa in un primo tempo nella contrada di Santo Stefano. Talvolta è ricordata anche come contrada di Borgo Santa Maria e Santo Stefano proprio a testimonianza del fatto che furono unite due contrade. In seguito alla diminuzione di popolazione registrata a Volterra dopo la metà del ‘300, la contrada di Fornelli fu annessa da Borgo Santa Maria; dal 1428 la contrada venne chiamata di Borgo e Fornelli.

Questa contrada comprendeva l’antico Borgo Santa Maria, corrispondente grossomodo all’odierna via Ricciarelli, che nel corso del XIII secolo fu unito alle nuove case costruite nella zona del Mandorlo e lungo via San Lino. Contemporaneamente si aggiunsero le case comprese nel grande isolato racchiuso da via Ricciarelli, via Franceschini e via Roma che era originaria-
mente chiamato “orto dei canonici” e che, molto verosimilmente, era stato disabitato fino ad allora. Questa zona, come ricorda il nome della contrada, faceva capo alla cattedrale di S. Maria e nacque sotto l’ombra della giurisdizione episcopale volterrana. A partire dalla metà del Duecento, fu però caratterizzata dalla presenza dei frati Francescani il più grossi convento della città proprio qui. Altre chiese sono quella di S. Cristoforo che chiude via San Lino e tutte le cappelle sparse nell’area del convento, per la maggior parte costruite a partire dal Quattrocento. Probabilmente la via del Mandorlo, che parte da piazza Minucci, non sfociava nella via Ricciarelli come oggi, ma proseguiva seguendo un diverso tracciato, che possiamo solo intuire, fino a immettersi in via San Lino più o meno all’altezza dell’odierno asilo comunale.

In questa zona vi sono alcuni fra i più bei tratti di mura medievali, soprattutto a ridosso della via del Mandorlo. Vi sono pure due porte: la più importante è porta S. Francesco; già chiamata porta Pisana o porta Santo Stefano, questa porta aveva anche una torre sopra di essa che venne demolita da Francesco Ferrucci durante l’assedio del 1530. All’interno dell’arco presenta una decorazione pittorica all’interno della volta che è stata recentemente restaurata e, proprio sopra il colmo dell’arco, vi è ancora una croce bianca in campo nero, antico simbolo della città di Volterra; accanto alla porta è stata ricavata, incidendo le pietre, una traccia che riproduce l’antica unità di misura volterrana: la Canna. L’altra porta è quella di San Lino, oggi visibile solo in parte perché fu riempita probabilmente dopo una frana di questo tratto di muro. Essa consentiva il varco nelle mura ad una strada che la congiungeva con Porta San Felice attraversando via San Lino e che metteva in contatto fra di loro le due zone di campagna immediatamente a ridosso della città.

Questa zona è sempre stata densamente abitata e in essa vi erano pure le abitazioni di numerose famiglie nobili; ancora oggi esiste il vicolo dei Da Pontremoli, che vi possedevano alcune case, inoltre il vicolo del Mandorlo era chiamato vicolo de’ Pitti. Vi sono pure alcune delle case torri più belle di Volterra: le torri dei Buomparenti, proprio in cima alla via Ricciarelli e che
fanno da ingresso scenografico alla Piazza dei Priori.

Il suo stemma è una stella a cinque punte di color giallo e arancio. I suoi colori sono il bianco e l’azzurro. E’ da notare che è l’unica contrada di cui conosciamo con esattezza la bandiera, dato che vi sono due raffigurazioni di essa, una nella chiesa di San Francesco e una in Duomo, con accanto lo stemma della contrada; essa è ad onde alternate di color bianco e azzurro. Da notare che nella simbologia medievale i colori bianco e azzurro sono sempre associati al culto della Madonna.

Durante la guerra contro San Gimignano, in cui viene nominata come contrada di Borgo e S. Alessandro, i soldati della contrada portarono bandiere verdi e gialle.

PIANO DI CASTELLO

Questa contrada è oggi quasi disabitata, infatti è stata quella che ha subito i maggiori danni dopo la conquista fiorentina del 1472, poiché la fortezza medicea è stata costruita interamente nel terreno che era prima occupato dalle abitazioni di questa contrada. Aveva come limite Sud
ed Est le mura, ad Ovest una strada, oggi scomparsa, che la divideva dalla contrada di Castello e a Nord l’antica via de’ Selci, una strada che correva parallela alla moderna via Don Minzoni, la separava dalla contrada di Porta a Selci.

Piano di Castello, come altre contrade, subì un forte calo demografico nella seconda metà del ‘300, in conseguenza delle pestilenze e delle emigrazioni. Venne quindi accorpata alla contrada di Porta a Selci almeno dal 1389. Era in questa zona che il vescovo Ranieri II degli Ubertini trasferì il palazzo vescovile alla fine del XIII secolo; esso venne poi raso al suolo e sulle macerie fu costruito nel 1472 il torrione e le quattro torri che compongono il Mastio. Nonostante il palazzo sia stato distrutto abbiamo delle descrizioni abbastanza precise che ci fanno sapere che esso era ampio e ricco di decorazioni; vi erano sale dipinte e stanze lussuose, queste descrizioni ci fanno capire che era costruito
con una struttura che poteva assolvere una funzione difensiva in caso di necessità.

Oggi nell’area che era occupata dalla contrada si trova uno dei maggiori complessi difensivi della città: il Cassero o Rocca Antica. Costruito pochi anni dopo la costruzione delle mura comunali, con una forma che ricorda vagamente quella di una nave, doveva difendere la porta a Selci e controllare, dall’alto delle sue torri, tutta la valle dell’Era e del Cecina sotto il controllo volterrano, grazie anche alle segnalazioni che facevano le torri disperse nel territorio. Su queste fortificazioni più antiche furono fatti una serie di lavori di rafforzamento fino alla sistemazione definitiva con la costruzione della fortezza medicea nel 1473.

La Rocca Antica era posta a protezione della Porta a Selci che, fino al 1500, si trovava in un altro punto delle mura, più in alto di adesso accanto alla rotonda Torre del Duca di Atene. La porta antica doveva essere lo sbocco della via de’ Selci, che seguiva un percorso diverso dalla via Don Minzoni, che fu chiamata via Nuova. La porta attuale venne costruita quando la via Nuova acquistò il maggior flusso di traffico di questa zona, probabilmente anche in relazione con la costruzione della Fortezza Medicea e il riassesto urbanistico delle contrade di Porta a Selci e Piano di Castello.

Lo stemma di questa contrada è una testa di cavallo. I colori sono il verde e l’ocra.

CASTELLO

Questa contrada è oggi quasi completamente disabitata. Infatti essa comprendeva tutta la zona attualmente occupata dal parco Fiumi, insieme alle case che stanno alle sue pendici, cioè parte delle abitazioni che danno su via di Castello, le case di via dei Marchesi e di vicolo Guidi e la parte posteriore delle case di via Matteotti e di via Gramsci.

Non sappiamo con esattezza quali fossero i confini originali, oggi rimane intatto soltanto uno di essi, quello delle mura medievali, gli altri sono scomparsi a causa delle vicende che hanno modificato l’assetto urbanistico della zona.

Confinava ad Est con la contrada di Piano di Castello e il limite era segnato da una strada che partendo dalla Porta dei Vescovi attraversava la sommità della collina e si congiungeva con Piazza XX settembre tramite il vicolo che ancora oggi collega il Parco con questa piazza; in al-
cune piante del Seicento si vede un sentiero che attraversava gli orti ottenuti dopo la distruzione della zona e che forse ricalcava il tracciato di questa strada più antica.

Il limite Nord, che la divideva dalle contrade di Sant’Agnolo e di Porta a Selci, era costituito da una strada oggi non più esistente, di cui resta solo un tratto in corrispondenza di vicolo Leonori Cecina, essa aveva un andamento parallelo a quello di via Don Minzoni e di via Gramsci, l’antica via Nuova.

Ad Ovest confinava con la contrada di Piazza tramite un vicolo oggi non più esistente, di cui il vicolo Senza Nome è l’ultimo tratto sopravvissuto e che andava verso Via de’ Selci seguendo un tracciato parallelo a via Matteotti; questo tracciato è oggi riconoscibile soltanto in parte.

Non sappiamo perché questa zona fosse chiamata Castello, dato che sia il castello dei vescovi, che il Cassero erano distanti da essa, probabilmente non vi doveva essere un vero e proprio castello, quanto piuttosto una incastellatura, formata da una torre con un piccolo circuito murario attorno.

Nella contrada di Castello vi erano numerose abitazioni, anche di famiglie magnatizie, vi fu costruita almeno una casa torre, i cui resti erano ancora visibili nel secolo scorso, e altri edifici più poveri; fra questi dobbiamo elencare il postribolo del comune che era stato relegato quas-
sù perché era lontano sia dalle strade principali che dalle chiese, luoghi interdetti alle prostitute.

Dal piano più elevato dove erano costruite le case e i palazzi, una strada realizzata anche con rampe di legno e pietra scendeva giù fino all’attuale piazza Martiri della Libertà; queste rampe hanno dato il nome di Ponti all’intera zona al di fuori delle mura. Nei primi anni del ‘400 il comune decise di costruire alcune case per le prostitute che “lavoravano” al postribolo della contrada nella zona dei Ponti, dove probabilmente vi era anche un’altra porta, chiamata Balduccia, che divideva la zona di Castello dalla Piazza e che forse si trovava nel tratto di mura che esisteva dove oggi vi è il parcheggio sotterraneo.

Questa contrada ebbe un notevole sviluppo economico quando, nel 1280, Ranieri II degli Ubertini trasferì il palazzo vescovile nella vicina contrada di Piano, fino ad allora il palazzo del vescovo si trovava nei pressi del Duomo. La causa è, probabilmente dovuta alla costruzione del Palazzo dei Priori con la conseguente diminuzione dell’influenza vescovile sulla politica cittadina. Una grande quantità di abitazioni deve essere stata costruita in questo periodo dai fedeli del vescovo che volevano abitare vicini a lui per darsi maggiore importanza.

La contrada di Castello continuò ad esistere, pur con un ridotto numero di abitanti, fino al 1428, anno in cui il Catasto ci informa che venne inglobata con quella di Piazza. Il colpo di grazia alla contrada fu dato però dai fiorentini. Quando i Medici, signori di Firenze, dopo aver conquistato Volterra nel 1472, decisero di costruire una grande fortezza che controllasse la città. Per raggiungere il loro scopo non esitarono a distruggere le case della contrada di Piano di Castello su cui costruirono il Mastio e, per garantire un maggior campo di tiro alle loro artiglierie, distrussero anche le case della contrada di Castello spianando completamente la zona. Da allora la zona è stata dedicata esclusivamente agli orti; la contrada conserva oggi solo poche case poste al confine di essa.

Le coltivazioni non dovevano mancare nemmeno prima dato che in un documento del 1320 è documentata addirittura una piantagione di zafferano e in un documento di IX secolo si parla dell’esistenza di una vigna del vescovo.

Il suo stemma è un leone rosso rampante a destra. I suoi colori sono il marrone ed il verde.

PIAZZA

E’ sempre stata la contrada più importante della città, qui si trovavano la sede del potere civile e di quello religioso. Il suo nucleo centrale era la piazza principale della città, quella che oggi si chiama Piazza dei Priori e che in antico è stata chiamata in vari modi, da Piazza dell’Olmo a Piazza Maggiore. I suoi limiti sono di facile individuazione.

Facevano parte della contrada tutte le abitazioni che si trovavano fra via dell’ Ortaccio e via delle Prigioni a partire dal numero 34, dove si trovava una strada che costituiva una continuazione di via Nuova; l’isolato racchiuso fra questa strada scomparsa, via Matteotti, via dei Marchesi e via delle Prigioni faceva parte della contrada di Piazza. Facevano parte di essa anche le abitazioni di via Guidi sull’altro lato della strada e i numeri dispari di via Sarti. Il confine Ovest era costituito da via Buomparenti e da via Roma. Inoltre facevano parte di essa anche piazza S. Giovanni, via Turazza e via dei Marchesi. In certi periodi anche via di Porta all’Arco fece parte della contrada di Piazza, ma per la maggior parte del medioevo essa costituì una contrada autonoma.

Questa contrada è stata sede del centro di potere fin dall’inizio del medioevo. Qui, nei pressi della cattedrale di Santa Maria Assunta, avevano la loro abitazione i Vescovi; questo palazzo venne abbandonato intorno al 1280 quando il vescovo Ranieri II degli Ubertini decise di costruirne uno nuovo nella contrada di Castello, che fu a sua volta abbandonato dopo la conquista fiorentina nel ‘500, successivamente i vescovi volterrani andarono a risiedere nel moderno palazzo vescovile che si affaccia su via Roma e Piazza dei Priori.

Il Duomo è stato costruito prima del X secolo, dato che due diplomi imperiali, rilasciati nell’ 821 e nell’ 845 rispettivamente da Lodovico I e da Lotario I, lo citano come chiesa madre della diocesi già da allora. Ciò che vediamo oggi è però frutto di una risistemazione di XIII secolo ad opera di maestri pisani. Del suo complesso facevano parte anche il battistero, che la tradizione vuole fosse stato costruito su un preesistente edificio di età romana, tre cimiteri disposti fra il Duomo e il Battistero e una cappella dedicata a S. Sebastiano. Il campanile antico era originariamente unito alla chiesa, ma crollò nel 1493.

Nel 1207, venne deciso da parte del Libero Comune di costruire un edificio dove i consiglieri e i Difensori del Popolo si potessero riunire per discutere le decisioni di primaria importanza: il Palazzo dei Priori. Il Palazzo dei Priori era separato dal Duomo solo da un chiasso che venne poi chiuso.Venne completato solo nel 1258 e occupò parte della piazza cittadina conosciuta allora come piazza dell’Olmo.

La topografia della piazza non era come si presenta oggi; quella moderna è dovuta ad un grande intervento di restauri avvenuto dopo il terremoto del 1846. Fu ricostruito il palazzo oggi occupato dalla cassa di Risparmio di Volterra, il palazzo della Cooperativa Artieri Alabastro, la caserma dei Carabinieri e il palazzo della Posta. Altri interventi furono compiuti negli anni trenta con la modifica della scalinata di accesso al Palazzo del Podestà e altre “migliorie” scenografiche. Tutte queste opere di restauro hanno cancellato l’aspetto originario della piazza, che si presentava circondata da torri proprietà delle famiglie cittadine, alcune delle quali furono unite a formare il Palazzo del Podestà nel 1320.

Il palazzo del Podestà comprende anche la torre detta “del Porcellino” che divenne ben presto il simbolo della contrada; accanto a questo palazzo, in via delle Prigioni, c’erano le prigioni cittadine. Il nome di Ortaccio dato alla parte retrostante questi palazzi era dovuto alla presenza di giardini o orti.

In questa piazza, e in quella adiacente di S. Giovanni, si è sempre svolto un mercato in occasione della festa dell’Assunta (15 agosto). Le prime notizie sono riportate dai due diplomi rilasciati dall’imperatore Lodovico I nell’ 821 e da Lotario I nell’ 845 che attestano il privilegio dei vescovi volterrani di tenere il mercato di Mezzagosto.

In questa contrada possiamo notare ancora oggi i resti di molte case torri, che sono solo una minima parte di quelle esistenti nel medioevo. Due gruppi di esse sono posti ai confini della contrada, le case torri Marchesi e quelle Buomparenti costituiscono due “incrociate” che controllavano i più importanti punti strategici della città. In piazza dei Priori vi erano almeno dieci torri di cui si conoscono i nomi di alcun proprietari degli inizi del Duecento: Rogerini, Villani Parisi, Alcheroli, Campoli, Sorici tedeschi, Arrigus, Topi. Altre torri erano in via Guidi e vi era anche la torre Mazzoni all’inizio del vicolo che porta tutt’oggi il nome di questa famiglia.

In questa contrada si trova anche il più antico edificio medievale di Volterra: palazzo Baldinotti all’inizio di via Turazza, al confine con la contrada di Porta all’Arco.

Lo stemma della contrada è la torre del Porcellino, simbolo del potere civile del comune di Volterra. I suoi colori sono il rosso e il giallo. Niente di più probabile che in origine lo stemma di questa contrada non fosse la torre del Porcellino: questa torre fa parte del palazzo del Podestà e la sua raffigurazione sottintende quindi l’esistenza di questa carica come simbolo del potere comunale; poiché sappiamo che la carica di podestà non entrò in vigore fino al 1193, con tutta probabilità anche questo stemma non era in uso fino ad allora. Se esisteva una contrada già in precedenza lo stemma poteva essere costituito dalla raffigurazione di una pianta di olmo.

Le prime bandiere che i volterrani portarono in guerra come simbolo della contrada di Piazza, nel 1236 contro San Gimignano, erano quelle del comune, segno questo che la contrada era ritenuta tutt’uno con il potere politico che governava la città.

FORNELLI

La contrada di Fornelli si sviluppò interamente all’interno della cerchia delle mura duecentesche, che costituiscono uno dei suoi confini; era divisa dalla contrada di Borgo Santa Maria dall’asse viario via Franceschini – via San Lino. Gli altri suoi confini erano Piazza San Giovanni, di cui occupava il lato Ovest; a Sud Est confinava con la contrada di Porta all’Arco all’altezza di via dei Labirinti. Una parte del territorio di questa contrada, la zona dalle fonti di S. Felice fino a via Borgo Nuovo, in origine faceva parte della contrada di Santo Stefano.

Questa contrada, a seguito della riduzione demografica quattrocentesca fu inglobata nella più potente contrada di Borgo Santa Maria che da allora venne chiamata Contrada di Borgo e Fornelli.

Il cuore e il centro principale di questa contrada era l’ospedale di Santa Maria Maggiore gestito dai Cavalieri Ospitalieri del Tau di Altopascio che cominciarono a edificare in questa zona alla fine del tredicesimo secolo. Gli ospitalieri di Altopascio ebbero la loro sede nella torre che dava su Piazza dei Fornelli e che è ricordata dalla tradizione popolare come “torre degli auguri”, dal nome degli indovini etruschi e romani. E’ testimonianza della presenza di questi cavalieri a Volterra una iscrizione datata 1299 posta proprio su un muro della loro torre.

A questo ospedale, nel corso del Trecento, vennero accorpati tutti gli ospedali cittadini minori; il suo ingresso era in piazza San Giovanni, ma non arrivava ad occupare l’area odierna, l’ospedale doveva essere più piccolo di quello di adesso e vi dovevano trovare posto altre costruzioni di proprietà dei Cavalieri e pertinenti all’ospedale. Il nome dato ad una via accanto all’ospedale, via Ortotondo, ci fa supporre la presenza di un giardino di erbe curative coltivato forse dagli stessi cavalieri per la fabbricazione di medicamenti per i malati dell’ospedale.

Non è molto chiaro perché il nome di tutta la zona sia Fornelli, ma esso deve essere in connessione con l’attività che si svolgeva in questo luogo, alcuni storici hanno suggerito che indicasse un’attività connessa con l’ospedale quali i forni per bruciare i giacigli infetti o per dar da mangiare ai poveri, come. Ritengo più probabile che esso sia invece in connessione con le attività artigianali della zona.

I cavalieri dovettero favorire l’installazione di botteghe artigiane nella contrada che era sotto il loro controllo in modo da poter ricevere tributi che venivano spesi per il mantenimento dell’ospedale; siccome sappiamo della presenza in questa zona di botteghe di ceramisti, niente di più probabile che tutte queste botteghe avessero in comune il mezzo di lavorazione: cioè il Fuoco.

Dovevano essere qui concentrate botteghe di fabbri, maniscalchi, conciai e di tutti coloro che usavano forni o calderoni per il loro lavoro. Potrebbe essere una prova di ciò il fatto che vicolo Chinzica, uno dei vicoli di questa contrada, era chiamato anche chiasso dei Ciabattini, in ricordo delle botteghe che vi esercitavano questo mestiere e che in genere erano collegate a botteghe di conciai che bollivano il cuoio in grossi calderoni; vicino a vicolo Chinzica si trova piazza degli Avelli, il cui nome può derivare dal cattivo odore che sprigionavano le pelli durante la concia.

Un’altra ipotesi avanzata è che questo nome derivi dal fatto che qui erano installati i calderoni che facevano bollire le acque salse per ricavare il sale (moie), da sempre ricchezza dell’economia volterrana, ma anche questa ipotesi è difficile da sostenere visto l’enorme dispendio di energie dovuto al trasporto dell’acqua salata da Vada prima, da Pomarance e Saline poi. Era infatti più economico e logico che le moie fossero vicino al luogo di produzione e non a Volterra, dove sarebbe dovuta arrivare anche la legna in grande quantità.

Anche se non abbiamo notizie di proprietari di case torri in questa zona, a parte i Cavalieri di Altopascio, vi dovettero trovar posto anche altre famiglie nobili. Oltre alla torre dei cavalieri in piazza Fornelli i resti di un’altra torre sono riconoscibili sul retro del Palazzo Falconcini in via San Lino, ma non ne conosciamo il proprietario.

In questa contrada si trova il bel complesso architettonico della porta e fonti di San Felice, chiamate così probabilmente dal nome di una chiesa costruita nelle vicinanze che non si è conservata, questa è anche una delle zone della città che conservano testimonianze dell’antichità. La presenza di una ricca fonte sorgiva, ha fatto si che fosse racchiusa nelle mura fin dall’antichità, infatti nei pressi della porta inferiore, vicino alle fonti medievali, vi sono i resti delle mura etrusche, appena fuori delle mura vi sono anche strutture romane fra cui le terme.

La porta inferiore è la prima porta costruita nelle mura medievali, è documentata già nel XIII secolo; la seconda porta, quella sopra la strada, è stata invece aperta probabilmente nel 1571 in seguito di alcuni lavori che hanno interessato questo tratto di mura. La porta inferiore venne murata in un periodo imprecisato fra il 1472 e il 1571 ed è stata riaperta solo di recente, con la risistemazione architettonica della zona.

Le fonti di San Felice, divenute molto famose in passato per le proprietà curative dell’acqua che usciva da esse, furono monumentalizzate nel 1319 da Chelino Ducci Tancredi e sono di quasi un secolo posteriori a quelle di Docciola costruite nel 1245.

Il suo stemma è un calderone di rame con sopra un tau, il simbolo dei cavalieri di Altopascio. I suoi colori sono il rosso e il blu.

PORTA ALL’ARCO E SANT’ALESSANDRO

Questa contrada era divisa in due parti: una intra moenia, all’interno delle mura medievali, e la seconda extra moenia, al di fuori di esse. La prima parte è costituita dall’attuale via della Porta all’Arco, con tutti i vicoli e viuzze ad essa collegate. Facevano parte di essa, oltre alla via che le dà il nome, anche i vicoli dei Labirinti, degli Alberi, via Lungo le Mura, vicolo Mozzo e vicolo Falconcini, questi ultimi in origine erano comunicanti; sono tutte strade che non arrivano all’altezza di piazza San Giovanni e piazza della Dogana, da cui oggi sono separate da due muri di sostruzione. Vi apparteneva anche tutto l’odierno borgo sant’Alessandro, la zona di Fontecorrenti, delle Ripaie e dei Cappuccini. Sono tutte aree edificate di recente ad eccezione di poche abitazioni più antiche concentrate soprattutto intorno alla chiesa di S. Alessandro.

Nel XIII e XIV secolo questa contrada non era giuridicamente riconosciuta dal comune. La zona di Porta all’Arco era compresa all’interno di quella di Piazza e Sant’Alessandro era considerata una pendice della contrada. Solo occasionalmente le è stata riconosciuta una certa autonomia a volte concessa alla sola zona di Sant’ Alessandro senza Porta all’Arco. Nel 1389 questa contrada si chiamava Contrada di Porta all’Arco e comprendeva solo la parte all’interno delle mura, mentre la zona al di fuori era classificata come “pendice”. In seguito, agli inizi del XV secolo, visto il calo demografico che interessò la città e dato che la quantità di abitanti della pendice eguagliava quella degli abitanti che si trovavano in città, queste due zone acquistarono pari dignità e il nome della contrada venne esteso in Porta all’Arco e Sant’Alessandro.

Ciò avviene anche grazie all’aumentato prestigio religioso dell’area suburbana, che, dopo la fondazione della chiesa di Sant’Alessandro nel 1121 e del convento dei cappuccini nel 1540, divenne maggiore di quella della zona di Porta all’Arco che non ha nessuna chiesa nel suo territorio.

Nella zona all’interno delle mura la densità abitativa dovette essere molto alta, mentre nella zona esterna vi dovettero essere poche abitazioni sparse con intorno la campagna, un nucleo piuttosto consistente di edifici dovette esistere solo nell’area compresa fra la chiesa di S. Alessandro e la Fonte del Pino.

Dalla porta all’Arco partiva la via che conduceva alle Maremme e quindi alle miniere di Volterra doveva essere quindi abituale vedere carovane di carri o di asini risalire la strada e entrare in città dall’antica porta etrusca, l’attuale vicolo Mozzo, oggi chiuso, continuava fino alla piazza della Dogana e portava i mulattieri a scaricare direttamente davanti al magazzino i carichi di sale e degli altri minerali.

Nelle case accanto alla Porta all’Arco vi avevano la residenza i soldati che dovevano custodirla e i gabellieri del comune; la porta aveva anche una torre sovrastante che fu costruita nel 1329 per essere abbattuta nel 1540 in quanto pericolante.

Lo stemma di questa contrada è una immagine della Porta all’Arco; i suoi colori il giallo ed il verde.

SANTO STEFANO

Questa contrada, che si sviluppava completamente al di fuori delle mura cittadine duecentesche, deve il suo nome alla chiesa intitolata a Santo Stefano che si trova al centro di essa e che ne è il suo edificio principale. La contrada si estendeva lungo tutta l’attuale via di Borgo Santo Stefano a partire dalla porta omonima fino a via Rossetti, che segna il confine con la contrada di Prato Marzio; facevano parte di essa anche il Gioconuovo fino al fosso di Vallebuona, che segna il confine con la contrada di Sant’ Agnolo, e il piano delle Colombaie.

Per un certo periodo faceva parte di questa contrada anche una zona all’interno della città murata, quella che va dalla porta S. Stefano alle fonti di S. Felice. Con la costruzione delle mura medievali del 1260 le cose cominciano a cambiare e questa zona venne inglobata, dopo il 1321, nella contrada di Borgo S. Maria. A questa contrada si aggiunse, agli inizi del Trecento, quella di San Giovanni, che comprendeva l’attuale zona di Santa Chiara, dove si trovava l’antica chiesa di San Giovanni d’Orticasso.

Il centro nevralgico della contrada ruotava attorno alla chiesa di Santo Stefano, vicino a cui vi erano pure le ricche fonti a disposizione di chi arrivava da fuori Volterra tramite la porta della Penera. Questa porta, che conduceva alla strada per il Montornese e Montecatini fu la spinta trainante che dette vita alla contrada. La maggior parte delle abitazioni era infatti concentrata lungo la strada che portava a San Giusto nel tratto che va dalla porta della Penera alla chiesa; in questa zona si notano ancora i resti di abitazioni e torri trecentesche. La presenza di una
fonte ricca di acqua consentiva ai viandanti di poter abbeverare le bestie da soma e quindi ne faceva un punto favorevole per la collocazione di botteghe e locande.

Nelle altre zone che fanno parte la contrada, i moderni quartieri del Gioconuovo e delle Colombaie, le abitazioni erano molto sparse, si trattava soprattutto di poderi con intorno terreni coltivati che, essendo vicini alla città, facevano parte della giurisdizione urbana e non delle pendici. S. Stefano era difesa dalle antiche mura etrusche, gli statuti comunali ci dicono gli abitanti, per legge, dovevano contribuire alla loro manutenzione e sorveglianza; questa norma statutaria rimase in vigore fino al XVI secolo.

Il suo stemma è una W rossa in campo bianco, i suoi colori sono il rosso ed il blu. Sappiamo che questo stemma fu portato dalle truppe volterrane accorse in aiuto dei loro alleati ghibellini durante l’assedio della città guelfa di Lucca nel 1280, allora le insegne dei soldati volterrani erano rappresentate da grandi W rosse. La W è una contrazione delle due lettere iniziali del nome medievale Vulterra, poiché l’alfabeto latino scriveva nelle stesso modo la V e la U, fu ben presto facile confonderle con una W.

PRATO MARZIO

Questa contrada partiva dall’attuale via Rossetti e continuava fino a Porta Menseri; era situata immediatamente ad Ovest della contrada di Borgo Santo Stefano e confinava a Est con quella di Borgo San Giusto. Era interamente attraversata da una importante strada chiamata Cor-
so. Questa strada, che doveva ripercorrere il percorso del Cardo Maximus della città antica, partiva dalla Piazza dei Priori e attraversava tutta la città, passando poi da Porta San Francesco, le contrade del terziere infeiriore da Montebradoni si collegava con la strada per Pisa. Il nome di Prato Marzio, deriva dal fatto che probabilmente in antico qui si dovevano svolgere le esercitazioni militari, questo allora doveva essere un grande prato adatto allo scopo.

La leggenda di San Giusto ci racconta che il santo fece fuggire le fiere che infestavano la selva di Prato Marzio questo ci può far ipotizzare che fosse un terreno lasciato perlopiù incolto. Ancora fino al secolo scorso le abitazioni erano molto scarse, concentrandosi lungo la strada principale e solo durante negli anni trenta furono costruite le prime case popolari. Dopo che le Balze inghiottirono la prima chiesa di San Giusto e venne deciso di costruirne una seconda sul monte Alboino, questa zona cambiò nome, che passò da Prato Marzio a San Giusto e ancora oggi è ricordata con il nome di Borgo San Giusto. Un altro nome con cui è ricordata nei documenti medievali è quello di contrada di San Marco, dal nome della chiesa più importante presente nel suo territorio.

A difendere la contrada vi erano soltanto le mura etrusche, di cui sono ricordati numerosi restauri compiuti dalla contrada, e da alcune torri di difesa di cui l’ultima rimasta è la Torricella, presso Docciarello. Nella cinta muraria etrusca che la proteggeva si aprivano tre porte: quella di Docciarello o di Grimaldinga; quella di san Marco presso il monastero omonimo, etrusca; e quella di Menseri, degli inizi del Trecento.

Si ipotizza che su Monte Alboino, dove oggi sorge la moderna chiesa di San Giusto, vi fosse un castello, grazie anche ad alcuni documenti altomedievali. Non sappiamo quando esso fu abbattuto, molto probabilmente poco prima della nascita del Comune, alla fine del XII secolo; a testimonianza della importanza strategica di questo luogo vi è il fatto che un editto dei primi del trecento proibisce di costruire torri su questo montestemmavolterra.jpg.

Sono ricordate anche tre torri private, ma non sappiamo a quali famiglie appartenessero. E nel suo territorio vi doveva pure essere, almeno fino ai primi del Trecento, una torre costruita dal Comune volterrano come punto avanzato per la difesa cittadina, forse era sul Piano della Guerruccia da dove si poteva controllare tutta la Val d’Era.

Nella contrada si trovavano pure delle fonti molto ricche, tutte però fuori delle mura: quella di Docciarello, quella di Mandringa, che la leggenda vuole creata dai santi Giusto e Clemente, e quella di Prato Marzio, oggi della Frana. In corrispondenza delle fonti si trovavano le porte costruite vicino per garantire un facile accesso per l’approvvigionamento idrico.

Le chiese, tutte sotto la giurisdizione della Collegiata di Santo Stefano, erano quella di San Martino in Corso, distrutta durante la costruzione delle case popolari negli anni trenta; quella di San Marco, che dall’alto del suo campanile costituiva anche un eccellente punto di osservazione militare8.

Il suo stemma è uno scudo rosso con una croce bianca che lo divide in quattro parti e nel cui quadrato in alto a destra vi è un elmo di tipo tedesco. I suoi colori sono il rosso e il nero. Nel 1236 gli abitanti di Prato Marzio portarono alla guerra di San Gimignano le bandiere della contrada e queste erano raffigurate come delle croci bianche in campo rosso. Questo emblema è quello che poi in seguito passò come stemma della contrada, con l’aggiunta dello scudo cornuto, aggiunto probabilmente nel corso del Quattrocento.

Può darsi però che ci sia una differente interpretazione di questi dati, che fra l’altro sono molto confusi; forse siamo in presenza di un caso in cui si è conservato il disegno originale della bandiera, che doveva essere una croce bianca in campo rosso. Mentre invece l’elmo cornuto, detto anche barbaresco o barbarico era solo lo stemma e quindi sono due cose separate e non fanno parte entrambe dello stemma. Gli eruditi del Seicento che ci hanno tramandato queste informazioni spesso non sono chiari e in molti casi hanno “aggiustato” alcune affermazioni; per causa loro lo stemma di Prato Marzio costituisce un problema difficile da risolvere.

SAN GIUSTO

Questa contrada comprendeva tutta l’antica borgata che sorse attorno alla chiesa di San Giusto al Botro, la prima dedicata al patrono volterrano, e la zona del Piano della Guerruccia, dalle mura etrusche fino all’altezza dell’attuale via S. Tommaso. Come tutti ben sanno questo borgo è scomparso insieme alla chiesa nella voragine delle Balze che nel corso dei secoli ha inghiottito tutta la zona senza che potesse mai essere fermata.

Quello che è stato coinvolto nella frana oggi si può soltanto immaginare non avendo cartine o descrizioni precise che ci aiutino nella ricostruzione; da qui doveva passare la via che andava a Pisa e che più o meno doveva procedere con un percorso parallelo a quello moderno fino a coincidere con la strada moderna a partire da San Cipriano.

Le case erano probabilmente disposte lungo la strada principale, chiamata il Corso, che in questa zona era interamente fuori delle mura. Come nel caso delle due contrade di Santo Stefano e di Prato Marzio, anche le chiese di San Giusto e di San Clemente dovevano essere costruite lungo questa strada.

La contrada era principalmente extra moenia, non sono ricordate altre opere di difesa nei documenti antichi, si può dedurre che ciò fosse dovuto al fatto che era scarsamente abitata e quindi poco difendibile; la gente si doveva rifugiare a Volterra nel caso di pericolo. L’unica opera di difesa conosciuta in questa zona era una torre, ma non siamo in grado di sapere a chi appartenesse.

In questa contrada vi erano due chiese, dedicate ai santi patroni di Volterra: San Giusto e San Clemente, la prima era chiamata San Giusto al Botro; questo termine ci porta a ritenere che essa fosse disposta lungo il Botro delle Balze in una posizione più bassa rispetto a quella delle mura antiche e che, se il suo ingresso dava sul Corso, questa strada facesse una specie di curva e poi risalisse su monte Nibbio fino a uscire da Montebradoni per la Porta del Corso, porta che sappiamo esistere nel tratto di mura verso S. Cipriano e che non è più visibile. La chiesa di San Clemente si trovava più in basso rispetto a quella di S. Giusto, forse ai limiti dell’abitato e fu la prima a franare, nel 1140.

Le due chiese erano entrambe di costruzione molto antica, una epigrafe longobarda salvata dalla distruzione della prima chiesa data la fondazione della chiesa di S. Giusto intorno al 700, ma in questa zona sono state trovate altre epigrafi sepolcrali ancora più antiche. Secondo la tradizione la chiesa di San Giusto era stata affrescata da Giotto e aveva una bellissima scalinata di accesso ornata di preziosi motivi decorativi. Era pure provvista di una chiostro la cui decorazione architettonica è oggi conservata in parte al museo Guarnacci e in parte al Museo di Arte Sacra.

Non sappiamo quale sia stata esattamente la causa della frana delle Balze, ma dobbiamo pensare che alla base ci sia un grosso disboscamento avvenuto nel corso del X-XI secolo che ha minato la base del pendio in modo che l’acqua piovana, ha fatto il resto. Le prime notizie della frana si hanno agli inizi del XII secolo, prima inghiottì la chiesa di San Clemente e nel 1600 quella di San Giusto, l’ultimo avvenimento di rilievo è stato quando ha coinvolto il monastero di San Marco, crollato nel 1778. Ci furono anche tentativi di fermare la frana, ma sono sempre risultati inutili e è stato rinunciato ad ogni tentativo quando venne inghiottita, dopo il terremoto del 1848, anche la sezione del Corso che conduceva a Montebradoni.

Oggi questa contrada non esiste più, la chiesa è stata spostata più in alto, su monte Alboino in Prato Marzio e quest’ultima zona ha acquistato anche il nome di Borgo San Giusto. Gli unici rimasugli dell’antica contrada di San Giusto si notano in alcune abitazioni sparse nelle campagne e nelle case del Piano della Guerruccia.

Il suo stemma era l’immagine del santo Patrono che reggeva la bandiera del Popolo Volterrano, una croce rossa in campo bianco, i suoi colori erano il bianco e l’oro. L’immagine di San Giusto con l’insegna del popolo e i pani si trova anche sulle monete medievali coniate dal vescovo Ranieri degli Ubertini e dai suoi successori. Lo stemma con l’immagine del santo è ricordato anche fra le bandiere che portò con sé il popolo volterrano durante la guerra contro San Gimignano del 1236.

MONTEBRADONI E VALLE GUINIZINGA

Facevano parte di questa contrada il borgo di Montebradoni, la valle di Val Guinizinga e alcuni villaggi della zona: S. Cipriano, Fagiano, Fiorli, ecc. Il centro focale di questa zona era la Badia di San Giusto, posta sul Monte Nibbio; la contrada era completamente sotto il suo controllo e probabilmente Montebradoni nacque come borgata alle dipendenze della Badia. Vista la piccolezza del borgo fu necessario aumentare il suo numero di abitanti facendo di essa una contrada composta quasi esclusivamente di abitazioni extraurbane.

Molti dei villaggi che composero la contrada facevano in origine parte di altre contrade, che furono create dagli abitanti nel 1208; questi villaggi si trovavano quasi tutti nella Val Guinizinga, a Nord Ovest della città.

La Badia venne fondata nel 1030 e probabilmente anche il borgo di Montebradoni iniziò a crescere in quel periodo. Aveva scarse mura e poco adatte alla difesa, visto anche lo scarso numero di abitanti che poteva vantare; i contadini si dovevano rivolgere all’abbazia per avere protezione anche in caso di guerra, o direttamente alle forti mura della città.

La contrada era attraversata dalla via che conduceva a Pisa. Questa strada, che nell’altra direzione conduceva direttamente in Piazza dei Priori, venne inghiottita dalle Balze nel secolo scorso, pochi anni dopo il terremoto del 1846. Fu sostituita dalla odierna via Pisana, che segue un diverso tracciato e coincide coll’antica strada per Pisa soltanto a partire da San Cipriano. Ancora oggi esiste una strada, ridotta ormai a un viottolo di campagna, che da Montebradoni conduce a San Cipriano con un percorso parallelo a quello dalla via Pisana e che probabilmente rappresenta ciò che rimane dell’antico Corso.

Il suo stemma è un Nibbio nero coronato, con sul petto un Giano bifronte, protettore della Volterra etrusca. I suoi colori sono il rosso ed il verde inquartati. Lo stemma originale dovette essere costituito solamente dal Nibbio che ricorda il nome del monte su cui è costruitala Badia. Successivamente venne aggiunto il Giano, questa aggiunta, per le sue caratteristiche filologiche, deve essere databile alla seconda metà del Seicento, contemporaneamente alle prime notizie che abbiamo sugli etruschi a Volterra.

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LE NUOVE CONTRADE

Nel 1996 la Consulta dello Sport del Comune di Volterra insieme al Gruppo Storico Sbandieratori e Balestrieri Città di Volterra dette vita ad un progetto che aveva lo scopo di far rivivere le contrade. L’intento era quello di coinvolgere, grazie alle contrade, i cittadini in nuove iniziative di aggregazione e di sviluppare delle rievocazioni storiche che possano essere di interesse per gli abitanti di Volterra e di richiamo per i visitatori in modo da incentivare ulteriormente il turismo nella nostra città.

Si sono così costituiti alcuni comitati di cittadini che si sono dedicati alla riorganizzazione delle contrade, eleggendo dei propri rappresentanti che sono andati poi a formare il Comitato delle Contrade di Volterra, avente lo scopo di favorire e di coordinare la rinascita delle contrade cittadine.

A monte di questo progetto c’è stato un’opera studio che è servita a stabilire i confini delle contrade ed alcune modalità per la loro rinascita. Non è possibile infatti riportare alla luce tutte le contrade che esistevano nel medioevo; alcune di esse infatti sono oggi irrimediabilmente state distrutte, come la contrada di Piano di Castello su cui è stata costruita la Fortezza Medicea o quella di San Giusto, che è franata nelle Balze. Anche gli spostamenti di popolazione, che si è trasferita progressivamente in periferia svuotando il centro città, ha reso necessario realizzare un nuovo assetto delle contrade.

Per questo è stato deciso, di comune accordo anche con i membri dei comitati, di accorpare alcune contrade e di ricostruire solo sei contrade e non dodici. Le contrade scelte sono: Porta a Selci, che risulta dall’unione di Porta a Selci e Piano di Castello; Sant’Agnolo, che vede unite Sant’Agnolo e Castello; Santa Maria, che comprende le altre tre contrade del centro cittadino: Piazza, Santa Maria e Fornelli; Porta all’Arco e Sant’Alessandro rimane invece un’unica contrada; così pure è una sola contrada Santo Stefano; San Giusto comprende le antiche contrade di Pratomarzio, San Giusto e Montebradoni e Val Guinizinga. A queste contrade di città sono stati aggiunti anche gli abitati di Saline e di Villamagna, che hanno costituito ciascuno una contrada.


GLI STEMMI VECCHI E NUOVI

Con la nuova divisione delle contrade i vecchi stemmi storici non andavano più bene, pertanto sono stati studiati dei nuovi stemmi che rappresentassero le otto contrade moderne.

In generale è stato scelto di seguire un criterio pittorico più araldico, invece di quello “realista” adottato per riprodurre i vecchi stemmi storici. Per la rappresentazione degli elementi araldici sono stati riprodotti elementi di stemmi tre-quattrocenteschi realmente esistenti.

Dove era possibile sono stati mantenuti gli stemmi originali, mentre nel caso delle contrade accorpate sono stati realizzati degli “stemmi compositi”, in grado di rappresentare la storia della contrada, nei quali sono riprodotti tutti gli elementi presenti sugli stemmi storici delle contrade corrispondenti. Inoltre è stato deciso di assegnare un simbolo araldico anche agli aggregati urbani di recente istituzione che però sono divenuti una realtà fondamentale della vita volterrana. Le nuove contrade hanno preso i colori delle vecchie contrade più importanti.

Località come Colombaie e Fontecorrenti o Borgo San Lazzero, pur esistendo nella toponomastica medievale, non godevano certamente di uno stemma araldico; oggi però ospitano la maggior parte degli abitanti delle rispettive contrade, pertanto sono riprodotti sullo stemma della contrada, con dei simboli che non sono scelti a caso, ma studiati in base a situazioni simili note per altre città. Anche il modo con cui sono raffigurati è leggermente diverso rispetto alle realtà storicamente attestate.

Sappiamo che Villamagna esisteva nel medioevo ed era una realtà importante della campagna volterrana. Aveva anche uno stemma che però non si è conservato negli stemmari comunali. La scelta si è ispirata ad uno studio compiuto da uno dei vecchi parroci della frazione.

Saline non esisteva nel medioevo, dove oggi si trova questa località allora vi erano numerosi toponimi, abbiamo scelto i due di Cavallare e di Moie del Re che sono quelli più ricorrenti nei documenti. Gli elementi sono stati scelti in quanto rimandano al nome: un ponte (il Cavallare) e la caldaia del sale (per le Moie). I colori delle due contrade sono di fantasia scelti dagli abitanti delle frazioni.

© Alessandro Furiesi, ALESSANDRO FURIESI
Alabastrai Buontemponi, in “Volterra”
BOCCI Mario, Le riforme popolari del 1320, in “Rassegna Volterrana”, XXXI, 1964, pp.7-34.
BOCCI Mario – MASI G., Gli sbandieratori e i balestrieri della città di Volterra, in “Rassegna Volterrana”, LVII, 1981, pp. 23-39.
CINCI Annibale, La chiesa di San Michele, in idem, Dall’archivio di Volterra. Memorie e documenti, Volterra, Tip. Volterrana, 1885, cap. 8, pp. 19-21.
FIUMI Enrico, Ricerche storiche sulle mura di Volterra, in “Rassegna Volterrana”, XVIII, 1947, pp.25-93
FIUMI Enrico,Topografia volterrana e sviluppo urbanistico al sorgere del comune, in “Rassegna Votterrana”, XIX, 1951, pp.1-28.
FIUMI Enrico, Popolazione, società ed economia volterrana dal catasto del 1428-29, in “Rassegna Volterrana”, XXXVI-XXXIX, 1972, pp.85-161.
MACCHI Corrado, Chiesa vecchia di S.Giusto, Volterra, Prem Tip. Confortini, 1931.
PAZZAGLI Carlo, Nobiltà civile e sangue blu. Il patriziato volterrano alla fine dell’età moderna, Firenze, Olschki, 1996.