So che era un giorno d’estate, che io ero un bimbo e che mia mamma doveva aver preferito investire i soldi in farina piuttosto che dal dentista, infatti i suoi incisivi inferiori (i denti di sotto per capirsi) erano come limati proprio al pari della gengiva.
Mi trovavo sul piano di Castello, su quel prato tra il boschetto di querce ed il serbatoio dell’acqua, quello cilindrico con il tetto a cupola. Ricordo che il babbo aveva questionato con la mamma per via di mio fratello Remo – ormai adolescente – che era andato a trovare i signori Parenti che allora abitavano all’ultimo piano del palazzo Inghirami, sul lato prospicente via di Castello. E ciò proprio mentre «la caserma» andava incontro ad un destino difficile; con le virgolette perché a quel tempo lo stabile della milizia fascista – quasi appiccicato al palazzo Inghirami dalla parte della Spalletta – aveva usurpato il titolo anche a quella dei Carabinieri di Piazza. Era «la caserma» per antonomasia.
> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano
A parte il pericolo del fuoco che giustamente preoccupava mio padre, c’erano gli scoppi intermittenti che nulla avevano a che vedere con quel che fa un buon ciocco nel camino, erano munizioni. Non so quando «la caserma» avesse cominciato a bruciare, so che qualche giorno prima mio fratello ed io eravamo penetrati per primi nello stabile abbandonato dai fascisti e fra coperte, scarpe e materassi (oro a quei tempi) avevamo preso due tesori: mio fratello una maschera antigas ed io una baionetta dell 1891 con l’impugnatura bruciata e che mi ostinavo a chiamare «pugnalino».
Ritornando a quel giorno ricordo che mio padre decise di andare a prendere mio fratello ed il modo con cui lo disse non mi parve promettere niente di buono per lui. Era appena andato via dal piano di Castello che arrivò la fine del mondo. Un profondo boato, come un lungo tuono nel sereno di luglio e poi il buio, un buio greve e tangibile in cui nevicava nero, erano fogli e veline carbonizzati che andavano in mille frammenti appena toccavano qualcosa. Mi ritrovai fra le braccia della mamma e – passato un minuto o mezz’ora – quando il nero si dilatò, ricordo che notai sulla faccia annerita di mia madre frammenti neri di «neve» fin dentro le barbe dei denti di sotto.
Come Dio volle arrivarono il babbo e mio fratello, ma mio padre se ne andò di nuovo. Disse che tra le macerie deila caserma c’erano Giulio, Averardo e Urio, tre nostri vicini di casa di via di Castello che erano andati a spengere l’incendio e che bisognava tirarli fuori.
Poco più tardi nella strada vidi passare mio padre che portava sulle spalle un fagotto nero, era Giulio Spinelli. Lo portò a casa sua e sul letto gli tagliò i vestiti con e forbici. Ricordo che gli tolse i guanti: dopo ho saputo che era il derma che si era staccato netto e preciso dal gomito in giù. Ricordo anche che mio fratello, mandato a chiamare la Misericordia, tornò di corsa dicendo che all’incrocio dei Ponti con via dei Marchesi alcuni tedeschi su una cingoletta sparavano su chiunque mettesse il naso fuori e che avevano smesso quando un prete, Don Volpi, si era messo a braccia aperte in mezzo alla strada urlando non so che cosa.
Pianti e gridi per tutta la via, la mia quieta via di Castello. E pianti anche per me. Ora me ne vergogno, ma allora, a quattro anni, se il comignolo di casa divelto dallo scoppio riempie con mattoni e fuliggine il tegame di zucca messo sul focolare, e, se in conseguenza di ciò, bisognava andare a letto senza cena, credete, era una tragedia nella tragedia.