Una passione amorosa di Stendhal

La riduzione televisiva de Le mie prigioni di Silvio Pellico, inquadrate nel clima degli anni Venti del primo Ottocento, mi ha spinto a rievocare una sfortunata avventura amorosa a Volterra di Stendhal, il celebre autore de Il rosso ed il nero e de La Certosa di Parma.

In realtà lo scrittore si chiamava Marie-Henri (Arrigo) Beyle. Il nome di Stendhal lo prese da una piccola città della Prussia (Stendhal), intravista quando egli si trovava in Germania con l’esercito napoleonico.

Quando egli venne a Volterra aveva 36 anni.

Nel 1816, giunto a Milano per la seconda volta, tramite Ludovico di Breme era stato introdotto nel bel mondo milanese che frequentava la Scala e vi aveva conosciuto Monti, Pellico, Borsieri, Berchet, Byron ed altri famosi scrittori italiani e stranieri. In questo ambiente conobbe anche Matilde Viscontini, moglie separata del generale polacco barone Dembowski, già amicissima, anni prima, di Ugo Foscolo.

Il 4 marzo 1819 Stendhal, che già da qualche tempo ne era innamorato, le manifestò apertamente la sua passione. In un primo tempo, senza essere incoraggiato, non fu nemmeno apertamente respinto. Ma la sua corte si faceva troppo insistente e compromettente, a giudizio della dama che, del resto, conosceva già alcune sue relazioni precedenti e specialmente quella finita da poco con Angela Pietragrua, l’altra milanese della vita amorosa di Stendhal.

Matilde non era una coquette; teneva aperto un salotto frequentato dal fior fiore dei patrioti romantici e carbonari milanesi. Tanto è vero che, dopo i moti del 1821, la donna fu arrestata dalla polizia austriaca e tenne un contegno esemplare: non proferì motto che potesse fare incriminare i suoi amici. Nella lista dei sospetti, trovata tra i dossier della polizia austriaca, essa figura al numero 86.

Teresa Gonfalonieri, l’eroica moglie di Federico Gonfalonieri, così ne tessé l’elogio: «Una donna angelica che univa tutte le perfezioni di una sensibilità adorabile all’energia delle più sublimi azioni».

La cortesia iniziale verso questo francese, che dichiarava di esser pazzo di lei, si trasformò, ben presto, in freddezza. Essa temette che il dongiovanni francese potesse metterla nei guai, inoltre una parente prevenuta contro i francesi la spingeva ad allontanarlo. Per troncare anche qualche pettegolezzo il 12 maggio 1819 partì per Volterra per visitare due dei suoi figli che studiavano presso gli Scolopi nell’allora famoso collegio di San Michele.

Stendhal venne subito a conoscenza di questa partenza e seppe che la donna avrebbe dovuto trascorrere una quarantina di giorni nella piccola città toscana.

Gli sembrò impossibile passare un così lungo periodo di tempo lontano dalla donna amata. Con la sua eccitata fantasia pensò che, lontano dagli ambienti dei pettegoli e dei conoscenti milanesi, essa sarebbe stata più facilmente vinta dal suo stretto assedio. Come vedremo, invece, l’imprudente gita a Volterra fu l’inizio della fine.

STENDHAL A VOLTERRA

Stendhal si congedò frettolosamente dagli amici milanesi adducendo l’urgenza di certi affari familiari che lo richiamavano a Grenoble, la città natale, e partì da Milano per Volterra il 24 maggio 1819. Le fonti di questa avventura sono tolte dal suo Journal, il diario, pubblicato postumo nel 1889.

Il 3 giugno era a Volterra, dopo una breve sosta a Firenze per reprimere il batticuore. Mutato d’abito, con un paio di occhiali verdi (cari, come il velo verde di carducciana memoria, ai turisti stranieri di allora che si spingevano verso l’assolato Centro-Sud d’Italia), girellò a lungo, orientandosi su di una piantina della città, da Porta all’Arco a Porta Fiorentina, nei cui pressi notò un giardino all’inglese.

Questo gusto del mascherarsi è tipico di Stendhal che indossò, volta a volta, maschere grottesche, aristocratiche o popolane, nomi diversi, come lo pseudonimo sotto cui tutti lo conoscono, come Bombet e tanti altri. «Meglio essere preso per un camaleonte che per un bue» soleva dire.

Quest’uomo “grosso, corto, atticciato, forte, vivace, dai capelli crespi e dall’occhio ardente” (così lo descrive il contemporaneo Delacroix) in giro per Via Guidi, come un adolescente al suo primo amore, forse ci fa un po’ sorridere, ma lo crediamo sincero. In Matilde egli vedeva il modello di bellezza lombarda realizzata in pittura da Leonardo da Vinci, la donna dall’aria sognante e melanconica.

Come dicevamo, giunto presso Porta Fiorentina la vide. Credette di morire. Da un certo Schneider, un turista tedesco che era con lui, seppe che era ospitata da un cavaliere del luogo. Era così sconvolto che non si accorse che la donna era entrata in una casa presso il giardino. Solo più tardi seppe il nome del signore presso cui abitava Matilde, un certo cavalier Giorgi. Quella notte non dormì. L’indomani, alzatosi prestissimo, si aggirò inquieto nei pressi di Porta Fiorentina. Rompendo ogni indugio bussò alla dimora del cavaliere e si fece annunziare al padrone di casa nonostante l’ora ancora mattutina. Il Giorgi fu cortesissimo; gli fece vedere alcune opere d’arte che possedeva, urne etrusche tra le altre cose, e, saputo che conosceva la Dembowski, si offrì di introdurlo da lei. Sconvolto, temendo una reazione troppo brusca da parte dell’amata, egli si scusò e si congedò. Passò un’altra notte agitata. Queste notti volterrane, così tranquille per tutti, sono rimaste memorabili nel ricordo del nostro scrittore. Nel suo delirio amoroso scrisse tre lettere: due apparentemente innocenti, la terza traboccante di passione, che riuscì a far pervenire in qualche modo a Matilde, ricevendone immediatamente poche righe di sdegnata protesa. Il pomeriggio del 5 giugno, affranto e abbattuto, immaginando altre eventuali possibilità, passeggiatore solitario uscì dalla Porta a Selci e, quasi senza riflettere, si trovò sul Prato (quale non dice: forse lo spiazzo subito fuori della porta che allora aveva una strutturazione diversa, forse più spostato verso il prato di Sant’Andrea). Appoggiato ad un muretto stette a lungo a contemplare il mare immerso in romantici pensieri. Aspettava con impazienza e con timore. Sapeva che la Dembowski sarebbe passata di lì per la sua passeggiata pomeridiana.

Finalmente eccola. Era insieme al cavalier Giorgi ed ai due figli convittori. Per darsi un contegno attaccò discorso con un giovane che era lì nei pressi, probabilmente un cittadino volterrano; fingendo la più alta meraviglia mentre tagliava la strada alla comitiva ed il cavalier Giorgi lo salutava, disinvoltamente piantava l’occasionale conoscenza e si univa alla compagnia. Temendo di sembrare ridicolo parlò, parlò a lungo senza stancarsi, di archeologia e di tutto quello che gli veniva in mente, mentre Matilde lo ascoltava con la più grande freddezza, non vedendo l’ora di disfarsi di quello scocciatore. In Piazzetta San Michele, dinanzi al collegio omonimo, fu costretto a congedarsi. La piazzetta divenne un punto di riferimento per successivi incontri, sempre più imbarazzanti, nei giorni seguenti. Trovava tutti i pretesti per esserle tra i piedi. Le scriveva lettere d’amore ora patetiche, ora audaci, ora violente, ora piene di scuse, ora umili, ora irriguardose. Che cosa gli importava di quello che avrebbero potuto pensare gli abitanti di Volterra? Non vedeva che egli aveva fatto quel viaggio massacrante sol per lei? Una persona prosaica si sarebbe ben guardata dal venire a Volterra: primo perché non c’era denaro da guadagnare, poi perché gli alberghi erano cattivi.

La situazione diventava ogni giorno più insostenibile e sempre più ridicola. Finì per diventare geloso anche del cavalier Giorgi. La sera dell’8 giugno, nel vedere la signora a braccetto del cavaliere, sembrò alla sua gelosa fantasia di notare una eccessiva familiarità ed espresse nel suo diario tutta la sua amarezza in questa frase: «Le donne oneste così sgualdrine come le sgualdrine». Allora, vista perduta la partita, si decise ad abbandonare tutto e tutti, compresa Volterra.

Se Matilde avesse ceduto, Volterra gli sarebbe sembrata un angolo del cielo. Ma la città dovette, nonostante tutto, fargli una impressione profonda.

Intanto Matilde gli servì per delineare la figura di Madame de Chasteller, la vedova orgogliosa e sfuggente di Le Rouge e le Blanc. In altre opere, rievocando un viaggio attraverso la campagna francese compiuto due anni dopo, nel 1821, in una lunga enumerazione di cittadine e di villaggi francesi grigi e senza volto salverà, nel suo giudizio, solo Langres proprio perché la cittadina gli rammentava Volterra.

Qualche mese dopo, a Milano, Matilde lo pregava, perentoriamente, di diradare le visite al suo salotto. Egli parlava troppo dell’arrischiata impresa di Volterra, dove era stato per un istante «ivre by hope» (inebriato dalla speranza). Fattasi più torbida la situazione politica a Milano, mentre stavano per essere effettuati gli arresti del Pellico e degli altri amici di Matilde, il 13 giugno 1821, anche per invito della polizia austriaca, egli lasciava la città ed andava ad abitare a Parigi, nutrendo idee di suicidio.

DE L’AMOUR, UN LIBRO ISPIRATO ANCHE DALL’AVVENTURA DI VOLTERRA

Il ricordo di Matilde lo seguì per tutta la vita. L’immagine della donna che lo respinse ritorna anche nella Clelia della Certosa di Parma. Così ce la descrive Stendhal: «Labbra sottili e delicate, occhi bruni, grandi, malinconici e timidi; una fronte stupenda nella cui metà si spartivano bellissimi capelli color castano scuri».

Matilde doveva morire il 1° maggio 1825 a soli 35 anni. Quando egli lo seppe scrisse in margine ad un libro in inglese: «La mia anima è morta». Fu, infatti, l’unica vera grande passione della sua vita. Da questa avventura sentimentale, sognante e malinconica, è nato De l’Amour (Sull’Amore), un libro tormentato, mordace e doloroso. «In questo libro – egli scrisse – è una descrizione particolareggiata di tutti gli aspetti che compongono la passione chiamata amore». Egli cerca di guarire da questa avventura scrivendo: «Tutta l’arte di amare si riduce… a dire esattamente ciò che l’ebbrezza del momento comporta, cioè, in altri termini, ad ascoltare il proprio cuore». «Un uomo che ama veramente, quando l’amante gli dice cose che lo rendono felice, non ha più la forza di parlare». Ecco altri giudizi amari: «Le donne, con il loro orgoglio femminile, si vendicano degli sciocchi sugli uomini di spirito e degli uomini prosaici sui cuori generosi».

De l’Amour non è un trattato dell’ideologia amorosa, è la chiave della psicologia di Stendhal e la visita a Volterra contribuì, con la cocente delusione patita, a dare una spinta importante alla stesura di quest’opera. Le notti d’inferno, le illusioni e le delusioni provate a Volterra sono condensate in tante osservazioni, specialmente nei capitoli sulla speranza, sugli sguardi, sulla gelosia. È il libro di Matilde, di un nuovo Werther, di un nuovo Don Giovanni.

Agli inizi dell’Ottocento molti scrittori come Madame de Stael, Chateaubriand ed altri avevano tentato nei loro scritti di definire un nuovo erotismo. De l’Amour si inserisce in questa corrente che vede nell’amore “il problema più importante o meglio, il solo dell’esistenza”. L’idealizzazione della donna la rende desiderabile ed inaccessibile, il rispetto ed il timore sono legati ad ogni sensazione erotica ed il desiderio porta in sé stesso la sua impossibilità. Matilde, specialmente la Matilde sognata a Volterra, si erge in queste pagine come un fantasma tenero, profondamente triste, ma anche talvolta come un fantasma malefico. Egli nel pensiero ne fa una specie di Clorinda tassesca: («Ahi, tanto amò la non amante amata»), un angelo di pudore e di orgoglio, una sorta di amazzone guerriera. La donna che esce da queste pagine non è una donna libera, frutto dell’uguaglianza razionalistica, ma una donna di cui si può dire che «se non è surreale essa non è reale».

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
Volterra ed una passione amorosa di Stendhal, in “Volterra”, a. febbraio 1968; in “Scritti Volterrani”, a cura di Gianna Bertini, Enrico e Fabrizio Rosticci, Pisa, Pacini Editore, 2004, pp. 175-178.
Stendhal, De l’Amour (Texte integral), Garnier Flammarion, Paris, 1965.
S. Bertini, Una visita di Stendhal a Volterra, in “Il Tirreno” del 26 agosto 1949