Eravamo nel luglio 1895, precisamente il lunedì 22; la cronaca del fatto, riportata dal settimanale “Il Corazziere” del 28 luglio, è così descritta:

«Lunedì sera una di quelle terribili tragedie di cui troppo spesso sono le donne protagoniste, funestò la nostra città: il vicino Borgo di San Lazzero fu il teatro ove si svolse.

Certa Clarissa Belli, donna quarantenne, aveva amoreggiato da tanto tempo con il giovine Guglielmo Castroni, poco più che trentenne. Ogni relazione fu tronca, per motivi a noi ignoti, ma che dovranno venire alla luce. Pur tuttavia, narrasi che la Belli non accettasse questo abbandono, e pretendendo di essere sposata dal Castroni, non cessasse un momento di molestarlo, dicesi anche con minacce.

Per due anni il Castroni tollerò con la massima freddezza l’ingiurie e le minacce di codesta donna, la quale, si dice, che fosse veduta di notte tempo, vestita da uomo, aggirarsi per il Borgo, aspettando il povero Castroni.

Lunedì sera, circa le 8:30, Guglielmo Castroni, dopo aver cenato, si recava alla bottega del Cardellini fabbro, suo amico. A metà del Borgo incontra la Clarissa, che se ne andava alla fonte, questa fattasegli appresso g!i disse: «Come stai Guglielmo?» «Sto bene» rispose e proseguì la sua strada; ma non ebbe fatto appena due passi, che una terribile detonazione echeggiò per tutto San Lazzero.

La Belli, che teneva nascosto sotto il grembiule un revolver, del calibro 12, sparò contro il povero Guglielmo, ferendolo nel dorso, sotto l’ultima costola dalla parte destra. Il proiettile, che aveva perforato lo stomaco e il peritoneo in due punti, si fermò anteriormente a sinistra dell’ombelico. Il Castroni cadde a terra, ma rialzatosi tosto fuggì barcollando e si rifugiò nella bottega del Cardellini urlando disperatamente!

La Belli quando lo vide fuggire, lo inseguì per sparare altri colpi, ma il Cardellini coraggiosamente le si parò dinanzi e le impedì di entrare in bottega, di cui chiuse tosto lo porta, e quindi, aiutato dalla sua moglie Albina Cardellini, portarono il povero Guglielmo in casa e lo adagiarono sullo stesso letto coniugale. Accorsi i dottori Porcelli, Marcacci e Ulivi, prodigarono le cure del caso, ma purtroppo dopo quattordici ore di spasimi e sofferenze incredibili cessava di vivere. La Belli, compiuto il fatto, con il massimo cinismo se ne venne a Volterra a costituirsi ai RR Carabinieri, depositando il revolver contenente ancora cinque cartucce».

La cronaca continua narrando che il martedì sera alle 5:30 ebbe luogo il trasporto funebre del Castroni, al quale prese parte una folla immensa ed una fanfara solennizzò ancor più la mesta cerimonia.

Al Cimitero il dott. Mario Mariscotti, chimico-farmacista, a nome di lutti gli amici, pronunciò le seguenti commoventi parole:

«Non a torto la morte fu paragonata al ladro, il quale di notte tempo penetra nei domestici focolari, per involare con mano rapace il frullo di fatiche, dalle quali egli aborre; e a modo di ladro, è venuta a rapire te, o Guglielmo, senza essere trattenuta nel pio disegno, se non dalla freschezza della tua vita, almeno dalla pietè dei tardi anni dei vecchi genitori, ai quali rubavi il maggior tesoro, non restando che il pianto del lacrimato tuo fine!

Chi avrebbe profetato a te, che pochi momenti innanzi scherzavi con noi, tuoi coetanei, con brio giovanile, che rendeva lieto ed ameno il conversare con te, un’arma assassina, brandita da una mano femminile, avrebbe troncato lo stame della tua esistenza, lasciando nell’angoscia i tuoi vecchi genitori e chiunque ti amava. Ma consolati, che fu non sei di coloro. che non provano la gioia dell’urna, perché non lasciano sulla terra eredità di affetti, imperocché tu moltissimi ne lasci, e puri e casti in coloro che natura ti dié tuoi primi amici, e nella gentil giovinetta che dovevi impalmare fra poco, ed in noi tutti, che per uguaglianza di età e per aver comuni con te le rosee illusioni della vita, ti amavano come solidale! E tutti faremo a gara nel tenere desti la memoria e il desiderio di te, con lo spargere una lacrima ed un fiore sulla tua tomba.

Addio povero Guglielmo! E se l’anima fosse immortale, ricambierebbe i nostri affetti, mentre invochiamo che alla tua salma sia leggera la terra che ti ricopre!».

Questa è la cronaca della «Tragedia di San Lazzero» che sconvolse tutta Volterra, facendo riferimento anche alle storie che venivano cantate o recitate, come era abitudine di quei tempi, usanza questa che si ripete ancora oggi in alcune regioni del nostro meridione.


LE STORIE IN RIMA

Molte furono le storie scritte a rievocazione di questo «Orribile Dramma», così come s’intitola una composizione scritta in ottava rima da Raffaello Cappelli, della quale riporto alcuni passi:

In San Lazzero fu l’orribile guerra
della druda Clarissa senza cuore
che come tigre dalla selva isgherra
s’avanza al gregge senza alcun timore,
e ratta ratta con la mano afferra
un revolver e va con gran furore
il giovane Castroni a posteggiare
che in ogni modo lo volle ammazzare;
di tutto udienza ti saprò informare
perché si è questa donna inferocita
pretendeva il Castroni di sposare
benché menasse un’impudica vita
molt’anni addietro la veniva amare,
prima che conoscesse la meschina
quando ebbe il suo costume consumato
subito di colei si è sbarazzato.

Tale composizione è di diciotto strofe, formate da otto versi ognuna, e narra tutto il fatto già esposto nella cronaca.

Molte altre storie furono scritte, ma non mi è stato possibile rintracciarle. Comunque nulla di nuovo avrebbero rivelato, oltre a quanto già conosciuto, mentre interessante fu il processo, celebrato in Corte d’Assise di Pisa, nei giorni 28, 29, 30 novembre e 3, 4 e 5 dicembre 1895.


I PROTAGONISTI DELLA TRAGEDIA

Prima di passare alla cronaca del processo, è bene dire qualche cosa sui protagonisti di questa tragedia, cioè chi erano Clarissa Belli e Guglielmo Castroni.

Clarissa Belli di Socrate e di Marianna De Luigi, nata a Volterra, forse nel 1857, di mestiere sarta, morì in Borgo San Lazzero (Via di Mezzacosta, 3) il 23 febbraio all’età dichiarata di 72 anni. Denunciarono la morte allo Stato Civile Aleandro Baldini – suo parente – e Arturo Borghetti e testimoni furono Arnaldo Fratini e Silla Ghilli. Dopo aver scontato la condanna inflittale dalla Corte d’Assise di Pisa, ritornò ad abitare nel Borgo di San Lazzero, ma sembra che a seguito dell’ostile comportamento della popolazione nei suoi confronti, si trovasse costretta a trasferirsi in un quartiere di via Mezzacosta.

Questo è quanto ho potuto sapere, mentre alcuni me la descrivevano una donna seria di carattere forte e deciso, altri invece affermano che «menasse un’impudica vita», cioè come afferma anche la storia di cui ho riportato due strofe.

Guglielmo Castroni di Ferdinando e di Elisabetta Rossi, nato a Volterra, forse nel 1862, benestante poiché il padre ora proprietario di vari immobili e della fornace per mattoni che allora si trovava in località «Strada». Dalle testimonianze rese al processo, secondo la provenienza delle testimonianze stesse, risulta quando un giovane esemplare e stimato, quando un «donnaiolo» che, fra l’altro, si vantasse delle sue imprese amorose e sparlasse delle sue «vittime», raccontando perfino dei rapporti intimi avuti con le stesse.

Quando fu ucciso aveva trentaquattro anni, com’è scritto sulla sua tomba nel nostro Cimitero Urbano, dove riposa, in un unico monumento funebre, insieme al padre e alla madre.


IL PROCESSO

Benché il processo fosse celebrato a Pisa, la Corte d’Assise fu sempre affollata, perché il carattere passionale del delitto, la gravità massima dell’accusa e i fatti di sesso, destarono, la curiosità in molti. La maggioranza dei volterrani, però, seguì la cronaca attraverso i quotidiani «Il Telegrafo» e «Il Corriere Toscano» e da «Il Corazziere» che – per l’occasione – uscì in due edizioni straordinarie nei giorni 4 e 5 dicembre 1895.

La Corte fu presieduta dal Cav. Toccafondi, presidente del Tribunale di Pisa; il padre dell’ucciso, costituitosi parte civile, fu assistito dagli avvocati Pio Tribolati di Pisa e Niccolò Mariscotti di Volterra, mentre pubblico ministero fu il Procuratore Alfo Antonini. Al banco della difesa sedettero, invece, gli avvocati Luigi Ricci, onore del foro italiano, nonché Cammillo Cailli di Volterra e il giovane Vittorio Vaturi di Livorno. Molti furono i testimoni escussi, settantatre in tutti e furono chiamati per le perizie mediche il Dott. Verdiani di Volterra e il Prof. Sadun di Pisa.

La prima udienza iniziò con l’interrogatorio dell’imputata, la quale s’impose subito al pubblico e si difese con parola calma e perfetta, con freddezza e con energia. Ella, infatti, con la sua figura formosa, con gli occhi neri e profondi, coi capelli neri che le cadevano in ricci e ciuffetti sulla fronte, non dimostrò mai alcun rimorso e alcun rimpianto verso la sua vittima, dimostrando quasi la convinzione che il colpo omicida fu l’effetto di una giusta sentenza.

Narrò dei suoi buoni rapporti con la famiglia Castroni, dalla quale ricevette sempre approvazione, tanto che la madre della vittima le concesse di assisterlo quando fu ammalato, rimanendo in quella casa per dieci giorni continui, notti comprese. Affermò che di li ebbero inizio le relazioni intime col Castroni, da far nascere in lei anche il sospetto di essere incinta. Asserì poi che il Castroni, sia verbalmente che per lettera, le promise di sposarla, dicendole che, da quanto era innamorato di Iei, solo la morte avrebbe potuto dividerli. Ma poi, senza alcuna spiegazione, il comportamento della vittima incominciò a cambiare e la Belli, sentendosi trascurata e offesa perché il fidanzato incominciò a frequentare altre donne, – infatti il Castroni era già fidanzato con Ildebranda Cheloni – fece di tutto per incontrarsi con lui. L’occasione propizia le capitò la sera del 22 luglio, perché si dice che la Belli, con la scusa di andare a prendere l’acqua alla fonte fuori del ponte di San Lazzero, attese che il Castroni uscisse di casa. Appena gli si fece incontro, affermò la Belli, non ebbe nemmeno il tempo di rivolgergli la parola, che lui la respinse apostrofandola con la frase «Va via puttana». Di lì, avendo con se la rivoltella, fece fuoco a pochi passi di distanza, andando poi a costituirsi alla Caserma dei Carabinieri.

Alla contestazione che il padre del Castroni sostenne che non fu per niente ingiuriata, lei insistette nella sua versione e, allo ulteriore contestazione di avere avuto rapporti intimi con certo Italo Cherici, suo primo fidanzato, la Belli dichiarò di avere avuto tali rapporti solo con l’ucciso.

Incominciarono poi a sfilare i testimoni dell’accusa e l’interesse della causa incominciò a diminuire, per riaccendersi alla deposizione di Giovanni Colivicchi che parlò di un figlio che l’imputata avrebbe avuto; questa scattò immediatamente in piedi e, negando il fatto, chiese di essere sottoposta a visita medica per accertare se avesse mai partorito. Poi ritornò tutto calmo e anche la deposizione della Cheloni, fidanzata dell’ucciso, risultò di poca importanza.

Nella deposizione il Cherici, preteso primo amante della Belli, ammise di essere stato fidanzato con l’imputata, ma escluse, nonostante la promessa di matrimonio, che vi fossero state fra loro relazioni intime, attribuendo, infine, a motivo della rottura del fidanzamento, al cattivo carattere di lei.

Seguirono i testimoni di parte civile e, chi più e chi meno, tutti dettero buone informazioni del Castroni e dissero, invece, che la Clarissa avesse avuto un carattere assai vivace fino da bambina, arrivando perfino a sostenere, per il fatto che spesso si vestisse da uomo, che avesse più tendenze mascoline anziché femminili.

Anche i testimoni della difesa non portarono niente di nuovo, se non l’unanime coro che la Belli era una donna di onestà incontestabile e che il Castroni, invece, sarebbe stato un buon giovane se non fosse stato un po’ troppo donnaiolo e vanitoso nel raccontare delle sue conquiste femminili e dei rapporti, anche intimi, avuti nelle svariate relazioni.

Giunse inattesa, perfino alla Corte ed ai rappresentanti di parte civile, la perizia del Dr. Giuseppe Verdiani che, insieme a quello di testimone, adempiva anche l’ufficio di perito. Il Dottore, infatti, disse di aver curato per molti anni la Belli, riscontrando la virilità del suo carattere e ricevendo confidenza delle sue relazioni con il Castroni, per le quali si sentiva offesa nell’onore. Sostenne, inoltre, che l’ultima malattia della Belli si verificò nel mese di aprile e durò per un mese intero e dette luogo ad una convalescenza di due mesi; durante la malattia la Belli ebbe dei deliri, per cui può darsi che il suo sistema nervoso fosse sempre indisposto all’epoca in cui successe il fatto che, a suo avviso, doveva essere stato preceduto da una grave provocazione.

A tale affermazione, l’avv. Tribolati, della parte civile, intervenne chiedendo al Dr. Verdiani, in qualità di perito, se al momento della tragedia la Belli fosse a suo giudizio e secondo i criteri della scienza medica in tale stato d’infermità di mente da togliere la coscienza e la libertà dei propri atti e se il perito credesse e potesse affermare, con giuramento, che quando l’imputata commise il fatto fosse affetta da eccitazione mentale in dipendenza della malattia e. in questo caso, se lo stato fu tale da scemare grandemente l’imputabilità della stessa, tenendo conto delle condizioni fisiche dell’imputata e non dei fatti che possono aver cagionato l’uccisione del Castroni.

I periti vennero ascoltati nella udienza del 3 dicembre e l’aula era affollatissima per l’interesse che da stampa aveva fatto suscitare nell’opinione pubblica con articoli pro e contro l’imputata. Il Dr. Verdiani, fra le varie osservazioni e contestazioni degli avvocati, affermò che, a suo giudizio, l’Imputata, essendo stata affetta da iperestenia nervosa, poteva essere ritenuta incosciente dei propri atti. Alle varie domande che gli avvocati gli rivolsero al riguardo, dopo questa sua deposizione, si limitò invece a rispondere «può darsi che lo fosse». L’altro perito. il prof. Sadun, non ritenne, invece, di poter affermare tale alienazione di mente perché, facendo l’analisi dei vari deliri, non ne aveva trovato uno adattabile all’imputata.

Seguì la testimonianza scritta della madre dell’ucciso, la quale asserì che, quattro anni addietro, Guglielmo si era messo a fare all’amore con la Belli e che lei ne fu contenta. Affermò che il figlio le disse di averla lasciata due anni dopo per il carattere insopportabile, cattivo e superbo della fidanzata e che perciò non l’avrebbe sposata. Confermò che la Clarissa andava spesso in casa sua. Anche durante la malattia del figlio, la Clarissa andò una sola sera a fare la nottata e stette sempre in sua compagnia ad assistere l’ammalato. Dopo altre notizie di poco conto, la signora Castroni affermò che la Clarissa aveva minacciato spesso suo figlio, ma non in sua presenza e confermò l’avvenuto fidanzamento di Guglielmo con la Cheloni.

Dopo la lettura di questa testimonianza scritta, il prof. Sadun riferì intorno alla visita, fatta insieme al Dr. Verdiani all’imputata, escludendo la possibilità di un’avvenuta sua gravidanza.

Nell’udienza pomeridiana del 3 dicembre, parlò l’avv. Mariscotti della parte civile, spiegando che la famiglia Castroni si era costituita solo per rendere omaggio alla memoria del figlio e non per invocare i fulmini della legge. Seguì la sua arringa riesaminando il fatto e la vita dell’imputata. II Castroni, asserì l’avv. Mariscotti, non fu il solo amore della Clarissa, perché ebbe tali rapporti anche con Italo Cherici e le due relazioni ebbero termine sempre per il cattivo carattere della Belli. L’imputata sostiene che l’ucciso fece di lei più che di una moglie ma, sempre secondo l’avvocato, la Clarissa Belli, nonostante conoscesse la volubilità amorosa del Castroni, si concesse con il solo scopo di potersi sposare e quindi salire più in alto nella società. Non ci fu, pertanto, seduzione ma spontanea concessione e, dopo l’abbandono, cominciarono le spietate persecuzioni da parte della Clarissa e dai testimoni, disse ancora l’avv. Mariscotti, abbiamo sentito come quel povero giovane fosse stato vittima di tante minacce e di tante vessazioni. Ma da parte del Castroni non vi fu mai reazione e, anche nell’occasione della tragedia, nessuno è stato in grado di asserire che l’ucciso abbia pronunciato all’indirizzo della Belli quella frase sconcia che la stessa vorrebbe attribuirgli. La Clarissa, che faceva la sarta, non comprò utensili adatti al suo mestiere, ma un revolver e quindi è evidente la premeditata volontà di uccidere, perché si esercitò anche nel tiro. Come dubitare, pertanto, che la Belli non volesse vendicarsi di essere stata abbandonata, perché erano trascorsi circa venti mesi dalla interruzione di questa relazione» continuò l’avv. Mariscotti, «spazio di tempo che basta a spegnere ogni eventuale disperazione che può essere provata nei momenti tristi della vita.

Il Pubblico Ministero, nella sua requisitoria, asserì che l’uomo non sa sottrarsi al fascino dell’amore, e questa grande forza del creato costringe due esseri ad una vita di lotta continua per mantenere questo loro creato e, quindi, guai a chiunque ne approfittasse per perpetrare un delitto. La Belli uccise per la difesa del suo onore. E chi l’ha offesa? La Clarissa si è data spontaneamente ad un uomo, è stata essa causa del suo danno. Il Pubblico Ministero sostenne che solo il fatto di portare con se un’arma, è premeditazione e, che vi sia, lo dimostra anche l’andamento del fatto. Non si tratta di delitto sotto l’impeto di Passione, perché è una utopia che la passione sia fondamento e scusa al delitto. Mai una volta, continuò il Pubblico Ministero, è uscita una parola di sdegno dalla bocca del Castroni. che si vuole millantatore di affetti, non una reazione alle persecuzioni di quella donna. Quindi egli non ha provocato questa donna e se questa lo metteva in condizioni di una vita impossibile, fece il suo dovere a lasciarla. Pertanto il Castroni non poteva sposarla, quindi non esiste inganno, perché se il carattere non si fosse opposto esso l’avrebbe sposata come aveva promesso. Considerato, quindi, i caratteri uno di fronte all’altro, sfrondando tutta la causa, l’operato della Belli non può essere giustificato nemmeno sotto la non provata pazzia, per cui è condannabile, perché si tratta solo di una delinquente che non ha nulla a suo favore.

Per la difesa intervenne per primo l’avv. Cailli, il quale precisò che si era sentito in dovere di intervenire al processo per rimanere fedele nella sventura del suo amico Socrate Belli, padre dell’imputata. Quindi si propose di dimostrare che se il fatto della Belli non deve essere giudicato esclusivamente nel sentimento, non deve neppure essere sottoposto ad un calcolo matematico e alla fredda ragione. E, risalendo all’origine dei fatti, dimostrò come la Belli non sia stata tratta all’uccisione del Castroni da alcun sentimento sociale, ma dal sentimento nobilissimo dell’onore, di dolore e dalla offesa per un abbandono, é quale, se pure risaliva a più di un anno, la Belli non si era ma i rassegnata.

Seguì poi, sempre per la difesa, l’intervento bellissimo e colorito dell’avv. Vaturi, ricorrendo con parsimonia e con gusto a citazioni e a motti che tolsero l’aridità di una dimostrazione, che del resto corse serrata e senza inutili divagazioni al suo fine. Fece l’esame del fatto e specialmente della moralità della Belli in riferimento alla sua relazione col Cherici dimostrando la correttezza e l’onestà mantenute fino al suo incontro col Castroni, cioè venendo meno solo quando la passione si fa sentire più forte e quindi minore è la resistenza.

La Parte Civile, sostenne l’avv. Vaturi, ha scrutato tutta la vita della Belli senza riuscire a trovare alcuna macchia prima della sua relazione con l’ucciso. Il Castroni fu dunque il primo a cui si concesse la Clarissa e la promessa di matrimonio della madre e del figlio, l’anello pegno di fede ed implicita promessa anch’esso, il fatto che l’ucciso la costrinse ad abbandonare la bottega, il letto che si preparava per le nozze, tutte queste circostanze, che si desumono anche dalla testimonianza della madre dell’ucciso, portarono giustamente a chiedere i motivi della rottura del fidanzamento, allo scopo di porre fine a quel mutismo insultante verso l’imputata. Dichiarò, inoltre, la mancanza di premeditazione. sia perché mancò il proposito precedente di uccidere, sia perché non concorse in ogni modo in questo proposito la freddezza dell’animo. La Belli, secondo l’avv. Vaturi, non aveva intenzione di uccidere, ma soltanto quella di ferire, forse soltanto di minacciare. Aveva sei colpi nel revolver, per cui se avesse voluto uccidere non si sarebbe limitata ad un solo colpo. Affermò poi l’esistenza della grave provocazione e la brutalità della stessa fa comprendere lo stato d’animo della Belli. Il disordine che essa doveva avervi portato.

L’avv Vittorio Vaturi non chiese che i giurati riconoscessero a favore dell’imputata l’omicidio improvviso preterintenzionale con grave provocazione, ma addirittura l’assoluzione per la responsabilità della Belli al momento del fatto. Con numerosi esempi, l’avv. Vaturi sostenne che la questione principale è di domandarsi se la Belli è colpevole della uccisione del Castroni. Nella parola «colpevole» è incluso il concetto della «responsabilità» di colui che ha commesso il fatto: negando questa colpevolezza, rispondendo «no» alla principale questione, la Belli potrà andare libera. E’ un vecchio modo di conciliazione, concluse l’avv. Vaturi, fra la lettera della legge e le esigenze di casi particolari: la legge non può sanzionare in alcun caso, fuori della necessità di difesa, il diritto di uccidere, perché il principio sarebbe troppo pericoloso, ma vi sono fatti in cui si sente che una punizione sarebbe ingiusta e i giudici allora, quando pure la legge vi si ribellasse, dovrebbero assolvere.

A tale intervento della difesa, seguì quello dell’avv. Pio Tribolati della parte civile, preannunciando di essere severo, anche se a malincuore, perché la severità corrisponde alla giustizia. Esaminando l’interrogatorio dell’imputata, lo impugnò in alcune parti. Non è vero, per esempio, che la Belli vide il giorno dell’uccisione il Castroni a passeggio con la sua fidanzata, perché questa ha deposto che non uscì mai di casa. Non è vero e non è verosimile che prima del fatto il Castroni la ingiuriasse, altrimenti tutti i testimoni che furono presenti e che sentirono le parole pronunciate dall’ucciso, avrebbero sentito anche le ingiurie. D’altronde la Belli sapeva che un colloquio era inutile, ma tale caparbia insistenza rientra nel carattere dell’imputata, carattere che l’aveva portata alla rottura di due fidanzamenti. Trascurando questi argomenti, si concederebbe troppo all’imputata, ma la difesa vuole che si tratti di un ferimento seguito da morte, mentre l’intenzione di uccidere è chiara, col fatto la Belli si era di proposito procurata un’arma micidiale e che dopo il colpo era andata sulla porta della bottega del Cardellini, dove giaceva il Castroni ferito, con l’intenzione di sparare ancora e facendosi allontanare a fatica. Non va trascurato poi il fatto del colpo tirato proditoriamente alle spalle.

Per la difesa sarebbe pazzia negare la provocazione, ma se anche fossero vere le espressioni ingiuriose, che si attribuiscono al Castroni, sarebbe lecito dubitare che costituissero una provocazione grave, quando si commisurassero alla reazione consistente in un colpo di un revolver di quel calibro, che viene adoperato proprio da chi vuole uccidere, ma, continuò l’avv. Tribolati, queste parole non fossero state pronunziate, e l’abbandono per parte del Castroni non può costituire altro che la causale del delitto o tutt’al più dar luogo alle circostanze attenuanti generiche, altrimenti in pratica si verrebbe alla conseguenza che non esisterebbero più delitti di sangue senza provocazione. D’altronde l’età e l’esperienza della Belli rendono comune la colpa degli intimi rapporti amorosi. Il Castroni non era un libertino volgare, tutti i testimoni lo hanno dipinto onesto e bonario; fu costretto a lasciare la Belli a causa del suo carattere, che già aveva influito alla rottura della promessa di matrimonio col Cherici.

L’avv. Tribolati accennò, infine, di ritenere che la Belli fosse spinta al delitto più da mire di interesse deluse che dall’amore.

L’ultimo intervento fu dell’avv. Ricci della difesa che esordì dicendo di compenetrarsi nell’animo della Belli e asserì che nell’emettere un giudizio, si deve fare un equo connubio fra la questione e la pietà. Il Pubblico Ministero e la Parte Civile, screditando la Belli, hanno screditato la loro causa. Amore, gelosia, onore, sono le tre parole su cui poggia, come su base granitica, la difesa. Lui dal piedistallo di creta, egli gridò riferendosi al Castroni. Per sentimento di giustizia bisogna rappresentarselo com’era in mezzo ai suoi colpevoli amori, alle donne conquistate con promesse di matrimonio e poi abbandonate, incurante delle vittime che lasciava per la via, vanitoso della soddisfazione provata; egli considerava le donne come merce per i suoi denari.

D’altra parte, continuò l’avv. Ricci, abbiamo una donna onesta e la prima relazione col Cherici poteva lasciare alla Belli il rimpianto di una illusione perduta, ma non lasciare rimorsi, ed essa rimaneva degna di un altro amore. Perché l’abbandonò il Castroni? Si dice per il carattere della Belli e per accorgersi di questo gli ci vollero due anni, quando – fra l’altro – l’aveva già posseduta! La Parte Civile ha ammesso che anche il Castroni aveva i suoi torti, ma ha affermato che la colpa era reciproca. Ora come si può sostenerlo di fronte ad una passione amorosa, di fronte alle promesse di uno che si crede galantuomo? D’altronde l’età della Belli è una giustificazione per lei: nell’autunno della vita, bisognava si attaccasse al primo sostegno che le si offriva ed è stato osservato che fra l’abbandono e il delitto corse un lungo spazio di tempo; ma quale conforto nel lasso di tempo, quando l’onore è morto?

Finché con occhio invidioso si vedono le coppie degli amanti felici, finché c’è la voce di un prossimo matrimonio, l’oblio non può svanire. Siamo dunque di fronte ad un tradimento iniquo ed odioso e ad un dolore che non si può vincere. Date queste circostanze di fatto, l’avv. Ricci non vuole sostenere il diritto di uccidere. Egli non vuole applicare una prova, ma vuol fare la ricerca oggettiva del dolo nell’accusata. Di sentì quindi sulla interpretazione dell’art. 46 del Codice Penale, quando i giudici siano convinti che non esista coscienza e libero arbitrio, ivi non può essere responsabilità, qualunque sia la formula della Iegge in proposito. Ed intorno a questo problema principale della responsabilità della Belli l’oratore intese, anche per amore di brevità, di raggruppare le altre questioni. Parlò della mancanza di premeditazione, della esistenza della provocazione grave, che non si commisura, come vorrebbe la Parte Civile, dall’effetto, ma dall’affetto e tornò alla tesi principale, proponendosi di dimostrare che la Belli al momento che colpì non seppe e non volle quello che in definitiva fece.


Seguirono poi la replica dell’avv. Tribolati, la contro replica dell’avv. Vaturi e poi la sentenza. l giurati esclusero l’infermità di mente totale e ritennero la Belli colpevole di omicidio preterintenzionale commesso in tali condizioni di mente da diminuire grandemente la responsabilità con provocazione grave e circostanze attenuanti. Tale sentenza condannò Clarissa Belli a due anni e undici mesi di detenzione, alla multa di L. 50 e all’ammenda di L. 50, nonché ai danni e alle spese, accordando alla Parte Civile una provvisionale di L. 500.

L’impressione del pubblico fu favorevole a tale sentenza.

© Pro Volterra, ELIO PERTICI
La Tragedia di San Lazzero, in “Volterra”