Come il manicomio ha cessato di essere prigione

Renato era un degente dello ospedale psichiatrico di Volterra. Al tempo aveva circa 45 anni. Era disoccupato; lo era da quando lasciò il Friuli e il suo lavoro di contadino. Arrivato a Rosignano, la città della Solvay, sperava di diventare operaio. Aveva sette figli che vivevano con la propria madre al «Castello», il quartiere ghetto di Rosignano Marittimo. Qui in stanze-grotte, ricavate da vecchie mura, abitavano decine e decine di nuclei familiari di sottoproletariato. Molti lasciavano il Castello solo per finire in carcere o in manicomio (all’ospedale psichiatrico di Volterra su ottocentocinquanta pazienti novanta provenivano da Castello).

Renato era uno di questi emarginati fra gli emarginati. Fu portato in manicomio nel 1970 con l’ordinanza di un maresciallo, per una sbronza più violenta delle altre. Aveva urlato, distrutto un tavolo, picchiato la moglie. «Dentro» però non beveva. Per il suo modo di fare umano e semplice era rispettato da tutti. Lavorava, aiutava gli altri, collaborava con gli infermieri. Venne dimesso una prima volta, ma «fuori» la disoccupazione, le liti con la moglie e di
nuovo la sbronza lo riportavano spesso al reparto. Per sei anni la sua vita era trascinata così, fra brevi dimissioni e il rientro in ospedale. Una vita coperta dall’anonima etichetta di alcolista.

Abbiamo scelto la sua storia per raccontare, con le parole di medici, infermieri e operatori sociali, come si realizzava concretamente il processo di umanizzazione di una istituzione, quella manicomiale, fra le più violente che questa società abbia saputo produrre. Ovvero, come veniva messa in campo la «negazione dell’istituzione» manicomiale, per reagire bene all’impatto con il sociale; dalla riscoperta della storia del malato, alla ricostruzione della sua identità. Nella riproposizione della sua storia all’esterno (a quell’esterno che lo aveva voluto segregare) e nel provocatorio lavoro di coinvolgere e responsabilizzare gli «altri», i diversi da Renato (che è un diverso fra «normali»).

Nella seconda metà degli anni Settanta, le tappe di questo processo, erano sinteticamente tre: l’incontro del paziente con i «nuovi» medici; l’incontro dell’equipe sociale con la famiglia del paziente; le iniziative con il comitato di quartiere, con il maresciallo, con le forze sociali, con i sindacati, con la gente, insomma, perché la malattia del paziente divenga un fatto «collettivo», sia socializzata e gestita socialmente. La direzione di questo processo era dell’allora direttore professor Carmelo Pellicanò, un uomo dal viso dolce e dal forte accento meridionale.

Nel 1975 avevano dimesso, o «sconsegnato» (come si dice in gergo manicomiale) circa 400 pazienti, ne rimanevano 850 in cura che erano ancora troppi. Ci viene in mente un gustoso paradosso: il sogno dell’ultima generazione dei direttori di manicomio era dirigere il più grande ospedale, con il maggior numero di «matti», ma allo stesso tempo l’altro sogno era quello di chiudere il proprio ospedale e di non avere più nemmeno un malato – da Basaglia a Pirella, a Slavich, a Pellicanò.

Quando «arrivava la pietra», che ha significato per anni l’arrivo di un altro malato e di una nuova fonte di lavoro e guadagno, questa veniva smistata; il complesso ospedaliero di Volterra era stato suddiviso per «zone». Abolito il reparto di accettazione-osservazione e la mostruosa catalogazione comportamentale (divisione per violenti, suicidi, tranquilli, etc.) i pazienti venivano riuniti a seconda della loro zona di origine: Cecina, Piombino, Cascina, Pontedera, Rosignano, etc.: tutte aree comprese nelle province di Pisa e Livorno. Anche se furono spezzati i segni più appariscenti della segregazione, come i cancelli, le porte sbarrate, le chiavi e i chiavistelli, severissima era comunque la selezione per i malati che ancora venivano spediti dal maresciallo. Ingresso assolutamente libero invece per parenti, cittadini, visitatori e bambini. Si respingevano drasticamente, però i minorenni handicappati e si tentò fino all’ultimo di non ricoverare nessuno, a meno che non avesse urgente bisogno di un intervento medico.

Ad esempio, se tempo addietro all’ex reparto «donne agitate» c’erano le tracce delle panche dove «le matte» restavano legate intere giornate, dopo essersi convertito in zona Piombino, le stanze erano pulite, c’erano gli specchi, gli orologi alle pareti, i disegni dei pazienti o i ritagli di giornali. «Umanizzare costa» diceva il professor Pellicanò; si pensi che la provincia pagava sulle 30 mila lire al giorno per ogni paziente, di cui 9 mila per interessi passivi.

Perchè le zone? C’era la necessità di ristoricizzare il malato, di sondare e scoprire dentro la sua vita, nei suoi rapporti affettivi, interpersonali o sociali, tutti i suoi bisogni. Alla precedente «lunga mano» del manicomio sul territorio si stava tentando di contrapporre un rapporto centripeto fra territorio e reparto. Qualcuno temeva che così si potesse psichiatrizzare la zona, che si potesse cioè esportare nel territorio una concezione manicomiale, ma era un rischio da correre, perché d’altronde non esistevano ricette certe su come condurre al meglio questo lavoro: lavoravano spesso su ipotesi tutte da verificare, su una prassi che si misurava giorno per giorno.

Volterra è isolata, in cima ad un colle e il suo manicomio — a differenza per esempio di quello di Arezzo, che in qualche modo faceva parte della città — fu costruito in modo da essere a sua volta isolato da Volterra. Raccoglievano i malati di due province e questo rendeva ancora più difficile il nuovo metodo di umanizzazione e il loro rapporto con l’esterno. Quindi la «zonizzazione» dei reparti nasceva anche da una esigenza pratica, di funzionalità operativa. La giornata in ospedale dei medici e degli infermieri (ce n’erano 800 compresi gli amministrativi) trascorreva tra dibattiti e assemblee. Di sera in ogni reparto si faceva il punto del lavoro svolto, si discutevano i problemi dei singoli pazienti o quello sollevato dall’infermiere in protesta, perché con questo nuovo metodo il lavoro era costretto ad andare a spese proprie, fuori dell’ospedale, a casa di quel certo malato.

LE TRE FASI

Prima fase: l’incontro del paziente con i «nuovi» medici. Nello specifico di Renato, aveva sorpreso che fosse gentile, sensibile, amato da tutti. Anche dopo numerosi colloqui non erano riusciti a riscontrare alcun disturbo. Ripeteva: sto qui per qualche sbronza, ma là fuori sto peggio.

Seconda fase: l’intervento terapeutico, quello del rapporto con la famiglia. Le prime volte gli incontri avvenivano con difficoltà, perché la moglie e i figli erano prevenuti e intimiditi. Con il tempo tuttavia, il contento cresceva; si superarono alcune barriere, si cominciarono a capire i problemi interni al nucleo familiare. La moglie rinfacciava al marito di non avere un lavoro, mentre lei andava tutte le mattine in campagna e ci restava dieci ore. Il loro rapporto affettivo era profondamente in crisi. Nella zona c’erano voci e si facevano pettegolezzi. Dagli appunti del medici leggiamo: «La moglie è preoccupata di perdere il sussidio, una volta che il marito fosse dimesso (si tratta di 45 mila lire al mese). La donna ci appare abbastanza abile nel sottolineare che solo, grazie a lei i figli si sfamano; ci è parsa chiusa al rapporto affettivo con il marito». L’uomo che era stato più volte accompagnato a trovare i suoi si comportava in modo imbarazzato: «appare succube e impotente ad uscire dai suoi conflitti».

A conclusione di una serie di incontri gli operatori, la moglie e Renato arrivarono ad un compromesso: lei accettò il ritorno del marito a casa, ma con un lavoro stabile, e con la garanzia di essere libera e di continuare a lavorare nei campi. La loro casa disponeva di due stanze, senza servizi: una miseria spaventosa, sporcizia ovunque (al Castello l’acqua arrivava per poche ore, d’estate). Avvenne anche un incontro con i figli; la più grande dei figli aveva appena superato i 10 anni. Da un rapporto dell’equipe risulta che: «dimostra sempre più i sintomi del suo conflitto: avverte anche balbuzie, non va più a scuola, è chiusa nelle responsabilità della casa» Anche un altro figlio di Renato aveva grosse difficoltà psicologiche.

Terza fase: gli incontri con il comitato di quartiere, con le forze dell’ordine e i medici responsabili dei «facili» ricoveri di Renato. Questo esercizio puntava a stimolare un clima di solidarietà anche affettiva nei confronti dell’uomo. Si spiegava al maresciallo la situazione invitandolo a sdrammatizzare una prossima eventuale sbronza, caso mai con un ricovero in un ospedale civile, per qualche notte. «Il maresciallo — dice il rapporto — pur nel suo ruolo tradizionale di difesa dell’ordine, si è mostrato comprensivo».

A conclusione delle discussioni con il comitato di quartiere erano tutti d’accordo che la cosa più importante era proteggere la personalità del malato sfibrata dai problemi e dai sei anni di ricovero in manicomio. Bisognava trovargli un lavoro e con lo stesso comitato di quartiere stabilirono di realizzare due incontri con il consiglio di zona e con gli altri organi «competenti». Si svolsero poi riunioni con il sindaco e l’assessore alla cultura per parlare dei problemi d’emarginazione al Castello invitandoli ai dibattiti e alle assemblee organizzate dall’ospedale psichiatrico. Si sollecitarono persino gli enti locali (in particolare le «province» di Livorno e Pisa) ad un maggiore e concreto impegno per una gestione diretta della medicina e dell’igiene sociale e mentale, ad un recupero totale della delega data a medici e operatori. Inizialmente Renato fu dimesso, dapprima vivendo ancora molte ore in ospedale: usciva spesso e andava a parlare con i figli, poi in pianta stabile a casa sua. Un risultato vincente di reinserimento, con la capacità positiva di togliersi di dosso la vecchia inerzia manicomiale e di armarsi di entusiasmo e coraggio per tentare di scoprire soluzioni nuove.

In quegli anni l’apertura dell’ospedale psichiatrico al sociale aveva significato apertura degli operatori ai bisogni che emergono dal paziente, ma anche a quelli del suo contesto, e disponibilità di fronte alla critica e alla contestazione di chi tradizionalmente ne è escluso. La storia di Renato conferma questa osservazione.

© L’Unità, FRANCESCA RASPINI
Come il manicomio ha cessato di essere prigione, in “L’Unità”, a. 20 luglio 1976, REVISITED