C’è tutta una serie di circostanze galeotte. La pioggia invernale che sventaglia sui vetri, una cenetta che un paio di bicchieri di whisky ci aiutano a digerire, un lume d’alabastro che illumina la stanza d’una tenue luce rosata e un fantastico disco del vecchio Benny Goodman che ci porta in salotto Lionel Hampton, Gene Krupa ed Harry James. A completare il quadro, due vecchi amici volterrani che si ritrovano dopo tanto tempo. Il gioco è fatto. Si riappiccicano centinaia di fogli al calendario e siamo di nuovo a Volterra, tanti anni fa. Quanti? Lasciamo perdere; diciamo troppi.

– Ti ricordi?
– Che domanda, si che mi ricordo!
– Guarda qui com’eri giovane.
– Guarda, questo è Nocciolo. E questo di spalle che balla pomicione sembra Remo.
– Era una festa di carnevale ai Partigiani… no, era un capodanno alla BAV.
– E noi, tanto per cambiare, si suonava.

La giovinezza volterrana è tutta impastata di musica. Bella o brutta che fosse quella che facevamo noi, poco importa; era la nostra musica, fatta soprattutto di un grande amore per il Jazz questo grande messaggio di libertà che noi avevamo scoperto proprio con la scoperta della libertà.

Con gli americani erano arrivati i «V Disk», quelli che poi si sarebbero chiamati Extended Plays, enormi padelloni a 45 giri, per quei tempi incredibili capolavori di tecnica, che fecero scoprire i Teegarden, i Philips, i Parker, i Goodman e così via fino all’indimenticabile Satchmo. E con loro, sull’onda della loro inimitabile fantasia creativa, tutto un mondo sonoro e armonico si apriva davanti a noi, poveri sottosviluppati musicali, venuti su all’insegna del Trio Lescano e del frenetico ditone di Alberto Rabagliati, con quell’abbozzo di ritmica che il regime permetteva al massimo di chiamare musica sincopata.

C’era un innegabile quanto inconscio sense of humour nei nostri gerarchi quando italianizzavano i termini stranieri. Mi ricordo del Fox-trot che qualcuno, incurante del ridicolo aveva proposto di chiamare latinamente «Vulpicola currens»!

Era chiaro che uscire da un tunnel di quel tipo e trovarsi di colpo immersi nella luce abbagliante dell’improvvisazione, della libertà musicale più completa, non poteva non provocare in noi un trauma musicale che ci costrinse a buttare alle ortiche il nostro pur piccolo mondo musicale e strumentale.

Scoprimmo la chitarra elettrica. Il primo amplificatore (che figura farebbe oggi accanto ai supermostri da centinaia di watt con eco, riverbero, distorsori, flutter e via così!) ce lo costruì con tanta buona volontà e pochissimi mezzi Evandro Viti. Un cassettino di legno verniciato in amaranto con quattro birilli di valvole dentro.

Remo suonava una batteria che era più da cucina che da orchestra. Ci si ritrovava la sera in casa a provare. A noi si aggiungevano Sergio Mannucci con la chitarra e Silvano Fivizzoli con la fisarmonica, lo “swing-man” del gruppo.

Intanto a Volterra l’unico complesso che dettava legge era la Meloritmica, un’orchestrona con tanto di montura e con un programma ritmo-melodico che manteneva le promesse contenute nel nome e che andava benissimo per il ballo, esploso come uno sfogo violento dopo la parentesi della guerra. C’era Cesare Pertici al basso, un musicista coi fiocchi che sapeva il contrappunto. C’era Enzo Merlini alla batteria e il maestro Compare, livornese che suonava il piano e dirigeva il complesso. La sezione sax era costituita da Ebo Michelotti, Mino Vigilucci (Nocciolo), Aligi Gelici e i Rosi Indiano e Lirio. Ai tromboni Mino Guerrieri (Il Chipi) e Franco Degl’Innocenti (detto Smania, ma se ne offendeva). Le trombe: Luciano Bocci e il Chiti (Cicciotto); tutto solo al clarinetto, ma con la batteria nascosta nel taschino, Remo Pocci.

Ma i tempi premevano e l’andamento, più melodico che ritmico della «Melot» (come la chiamavamo noi), spingeva alcuni dei suoi componenti di punta a tentare nuove strade, musicalmente più moderne e meno inquadrate negli schemi tradizionali. Così, dopo parecchie vicissitudini e decisioni personali certamente anche dolorose, avvenne la storica scissione con l’uscita dal complesso di Vigilucci, Bocci e Pocci.

Era il primo nucleo del gruppo che poi sarebbe diventato sestetto con Salvo Salviati alla chitarra, Silvano Fivizzoli (Piedini di Farfalla) e Marco Moretti, soverchiato da un contrabbasso molto più alto di lui. Il nascente complesso fu chiamato immodestamente “Zenit”. L’omissione dell’acca finale fu l’unica concessione alla nostra reale statura d’orchestra! La permanenza di Fivizzoli nel complesso fu di breve durata; il suo posto fu preso da un altro fisarmonicista, un colligiano pistoiese piovuto a Volterra quasi per caso, anzi, per cacio, dato che suo padre aveva aperto un negozio di formaggi in Via Nuova: Athos Sordi.

Era, con Mino Vigilucci, il secondo vero musicista del gruppo e così decidemmo di promuoverlo da fisarmonicista a pianista. Gli comprammo un pianoforte: un vecchio strumento che scovammo in una villa dei dintorni di Volterra. Era un pianoforte a coda e andava benissimo, perchè non era uno strumento nato per la musica leggera. Comunque, non solo ce la facemmo, ma riuscimmo addirittura a sistemarlo sul palco dell’orchestra, incastrandolo fra le colonnine con una tale precisione, che credo lo abbìano poi dovuto fare a pezzetti per toglierlo di lì.

E da allora i Partigiani furono il nostro regno incontrastato, d’inverno. D’estate era la Pista del Bastione, detta semplicemente la Pista. Non mancavano naturalmente brevi tournée: Montegemoli, La Sassa, Montecatini V.C.; tutti centri d’un certo rilievo d’ove facevamo colpo, anche a livello personale, oltre che come orchestra.

Donne dai nomi esotici e fascinosi, tipo la Zita della Concia o l’Irma di Spigolo (i nomi non sono quelli, ma il fascino è lo stesso), che in quell’attimo magico, in quella leggera sospensione che precede l’attacco del ritornello nel tango smontacosce, ti sussurravano in un leggero afrore di stalla: «Avvollimi!».

Mi rendo conto d’esser leggermente scaduto di tono, ma è impossibile ripensare a quei tempi senza tornare un po’ matti come eravamo allora.

Erano i tempi quando Torquato Ghionzoli e la sua ghenga andavano ai veglioni nei paesi con un enorme tubo di cartone collegato ad una bombola d’ossigeno. Ogni soffiata di gas era un carico di coriandoli che partiva, una nuvola da non vederci più. Poi, dopo la cena e le bevute di mezzanotte, nel tubo andavano a finire, insieme ai coriandoli, spaghetti al sugo e ossi di pollo!

Una volta, per uno di questi veglioni e per dare più colore alle nostre interpretazioni di tipo afrocuban-toscano, ci preparammo molto laboriosamente grandi collane variopinte di fiori di carta, l’effetto era sicuro. Conservammo gelosamente le collane nel «cassarmone» (uno spaventoso baule dove Remo Pocci riponeva tutta la batteria e che era l’incubo di Bruno Molesti quando doveva caricarlo sopra la macchina) e le tirammo fuori solo al fatidico momento della Raspita – El bail de meoda pare que todos se deviertan! – Le persone intorno all’orchestra non poterono celare il loro stupore vedendoci suonare con quelle meraviglie policrome intorno al collo. Uno di loro, il più ardito, espresse in modo lapidario il parere di tutti: – O bravi sonaglioli! Sembrate bovi da fiera! – E’ inutile dire che delle collane di fiori non se ne parlò più.

Chissà quanti giovani di oggi, ai quali sentir parlare dello Zenit non fa nè caldo nè freddo e ai quali, oggi, la nostra musica d’allora non direbbe assolutamente nulla, non sanno che forse la prima idea della loro venuta al mondo siamo stati proprio noi dello Zenit a farla venire ai loro genitori, complici un slow di Berlino, una soffice beguine di Carmichael.

Che ci volete fare, così è la vita! Purtroppo, al contrario di quanto accade in politica, qui cambia la musica, ma cambiano anche i suonatori e quelle che una volta erano persone «seriamente» divertenti sono diventati, oggi, noiosi e annoiati signori qualunque.

Poi, in una serata di pioggia, un disco, un album di foto, quattro discorsi:
– Ti ricordi? – Un giro di telefono interurbane: – Allora Mino siamo d’accordo con Athos, Gigi e Remo: domenica ci si vede a Volterra con gli strumenti, si prova.

Chissà…

© Pro Volterra, SALVO SALVIATI,
I Ragazzi dello Zenit, in “Volterra”, n. 4