Il C.L.N. fu definitivamente costituito nel dicembre 1943. In un clima ormai disperato, la necessità assoluta di ottenere armi per una formazione partigiana rappresentava una preoccupazione costante per il C.L.N., che doveva anche affrontare altri problemi sempre più pesanti e gravi. Numerosi gruppi di giovani erano stati impiegati da tempo dal C.L.N. per svolgere varie mansioni nella zona, stabilire collegamenti e fronteggiare una situazione che precipitava giorno dopo giorno.
Tra questi gruppi, una squadra di sei amici decise di contribuire in modo più significativo e consistente fornendo armi alla formazione partigiana, organizzando un attacco alla caserma della milizia di Volterra.
> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano
Non è un compito facile ricordare oggi l’eroico, sebbene sfortunato, evento. È saggio indicare ai giovani di oggi, molti dei quali non conoscono o conoscono male, questi luminosi episodi della resistenza, che possono fornire una chiara dimostrazione del cosciente senso di sacrificio che animava questi giovani mentre una guerra implacabile e inumana si avvicinava alla sua tragica conclusione. Quanto sto per narrare, con l’aiuto di documenti del C.L.N. e ancor di più con i vividi ricordi dei protagonisti, nel dolore e nelle ansie vissute dai loro cari, rappresenta uno dei tanti episodi della resistenza. Uno dei tanti gesti eroici che contribuirono a dare una nuova identità all’Italia, nel clima vittorioso della resistenza armata.
Fin dal 1943 il C.L.N. aveva disposto che elementi fidati fossero immessi nelle organizzazioni nazifasciste per prevenire eventuali decisioni ai danni dei Patrioti e della popolazione ed anche per cercare di distogliere altri giovani già inquadrati. Emilio Gazzarri (Ascanio) si trovava in strettissimi legami di antica amicizia con certo Bigazzi Berto, detto Boccale. Rientrato quest’ultimo dalla Germania venne circuito dalla milizia fascista perché entrasse a farne parte. Boccale fece presente all’amico Gazzarri questo fatto e Gazzarri, che già operava nel movimento clandestino, lo consigliò ad accettare le proposte, purché mantenesse il contatto con lui e servisse così, indirettamente, la causa. Inizialmente la cosa sembrava funzionare, tanto che qualche bomba e qualche caricatore furono da Boccale consegnati a Gazzarri.
Emilio Gazzarri voleva però concludere un grosso colpo, ben conoscendo le difficoltà in cui versava la formazione in fatto di armi. Informato il C.L.N. e il C.M. (Comitato Militare) da esso dipendente, ricevette consigli alla prudenza dato che il colpo presentava incognite piuttosto disperate e non di facile attuazione. Gazzarri era però sicuro di poterlo condurre a buon fine dato che già ne aveva discusso con Boccale che si dimostrava favorevole e disposto a collaborare. Concluse quindi con lui stesso, in un ultimo abboccamento, lo svolgimento dell’azione nei suoi più minimi particolari. Era stato deciso tutto, anche il giorno più propizio, senonché Boccale, inspiegabilmente, lo rimandò varie volte, asserendo che al momento non aveva disponibili elementi fidati. Infatti, proprio in quel tempo avvenne l’arresto del milite Santi Armando, trovato in possesso di armi che doveva consegnare al movimento clandestino; si disse poi che ciò avvenne per una delazione.
Boccale insisteva per conoscere il nome degli altri componenti, cosa che Gazzarri si guardò bene dal fare. Le insistenze di Gazzarri costrinsero Boccale a fissare definitivamente il giorno, l’ora e i segnali di riconoscimento.
L’operazione doveva avvenire nella notte dal 12 al 13 marzo, esattamente alle ore ventitré; segnale di riconoscimento: il lampeggiamento di una torcia elettrica da parte di Boccale con la risposta da parte di Gazzarri di uguale segnale.
Avvenne una prima riunione al Bar Roma, per definire la dislocazione dei partecipanti nella zona già attentamente studiata da Gazzarri. Fu stabilito di dislocare Bigazzi Enzo e Cappelli Bruno, che disponevano di un permesso di circolazione durante le ore di coprifuoco, quali dipendenti dalle FF.SS., di guardia uno alla curva dei Ponti e l’altro nelle vicinanze della fontana. Dino Del Colombo e Grandoli Ottorino al di sotto del muretto di cinta della curva della dogana, su di uno sperone erboso allora esistente. Gazzarri Emilio e Cecchelli Ottorino dovevano invece recarsi entro il cortile della caserma, sul posto in accordo prestabilito con Boccale. In caso di pericolo, il gruppo doveva sciogliersi e ciascuno doveva provvedere a sé stesso.
La sera del 12 marzo, il primo gruppo si radunò prima a casa di Ottorino Cecchelli, dove depositò tutti i documenti di riconoscimento, poi a casa di Gazzarri in via San Felice, da dove, lungo il viale Trento e Trieste, si spostarono verso il fondo di Via Porta all’Arco: erano circa le ore ventidue. Dopo aver attraversato Via Porta all’Arco, imboccarono un cancelletto vicino alla casa di Gabellieri Elio (Dania) e, attraverso la ripida scarpata, Gazzarri, Cecchelli, Del Colombo e Grandoli si portarono sotto un grande arco in muratura proprio al di sotto della curva della Dogana, in attesa dell’ora prestabilita. Bigazzi e Cappelli si spostarono ai loro posti di guardia. Erano circa le ventidue e un quarto.
Alle ore ventitré, l’ora fissata per l’operazione, suonò il segnale di allarme aereo. Gazzarri e Cecchelli salirono sul muretto in curva della Dogana, lo scavalcarono, attraversarono il viale e, rasentando il muro della caserma, entrarono per il cancello in uno stretto corridoio. Del Colombo e Grandoli salirono sullo sperone erboso, al di sotto del muretto, in attesa. Gazzarri e Cecchelli aspettarono che Boccale facesse il segnale stabilito per poter entrare nel cortiletto, chiuso al fondo da un muretto di circa due metri di altezza, prospiciente le cucine della caserma.
Boccale ritardò nel dare il segnale, che avvenne infatti solo mezz’ora dopo quella fissata. Gazzarri rispose e si mise di lato al muretto, mentre Cecchelli, salito su una cassetta, si posizionò all’altezza del muretto da dove Boccale stava già passando un moschetto con la canna rivolta giusto nella direzione di Cecchelli che tentava di afferrarlo. Boccale trattenne il moschetto, tanto che Cecchelli ebbe la netta sensazione che qualcosa non funzionasse, anche perché vide chiaramente un’ombra affacciarsi alla finestra superiore della caserma. Preoccupato, lo fece presente a Boccale, che però escluse ogni pericolo.
Appena però Cecchelli tentò di afferrare decisamente il moschetto, che Boccale però non cedeva, ebbe inizio un nutrito lancio di bombe Balilla, dalle finestre alte della caserma, che si illuminarono di colpo. Contemporaneamente, una fitta sparatoria proveniente da vari punti della caserma stessa.
Cecchelli fu subito colpito da numerose schegge di bombe in tutte le parti del corpo, si gettò giù dalla cassetta e con Gazzarri riprese la via dell’uscita. Passarono il cancello, si gettarono nel viale sottostante che attraversarono e si buttarono a capofitto nella sottostante scarpata. Nel frattempo Del Colombo e Grandoli, in attesa sullo sperone, udirono la sparatoria e lo scoppio delle bombe. Cercarono di rendersi conto di cosa fosse avvenuto e Del Colombo, peritandosi sul muretto, con generoso spirito di altruismo, tentò di vedere se Cecchelli e Gazzarri si stavano allontanando, ma non riuscì a vederli.
In quel momento Del Colombo fu colpito in pieno da una bomba che gli provocò lo stritolamento completo del braccio destro e contemporaneamente una nutrita sparatoria iniziò da varie parti della zona circostante. Del Colombo fu colpito ancora da una pallottola al braccio sinistro e da un’altra che gli attraversò la mascella. Con sangue freddo fuori dal comune, concitatamente avvertì Grandoli di allontanarsi immediatamente e, dallo sperone, si gettò nel sottostante campo, cercando di allontanarsi dal posto seguendo alcuni filari di viti.
Grandoli si gettò bocconi tra i filari delle viti per ripararsi dalla fitta sparatoria; non sapeva di Del Colombo, gravemente ferito. Sentì voci dall’alto del muretto che indicavano i fuggitivi, certamente visibili, essendo la notte rischiarata dalla luna piena. Proseguì la fuga carponi e si trovò nel cortiletto retrostante la casa di Elio Gabellieri; sentì, senza vederlo, Cecchelli passare poco distante da lui e perse ogni traccia di Del Colombo.
Bigazzi e Cappelli già si erano allontanati dal loro posto non appena iniziata la sparatoria, e poterono rientrare a casa loro. A questo punto, Del Colombo, Gazzarri, Cecchelli e Grandoli si allontanarono ognuno per conto proprio, come stabilito, anche perché un eventuale raggruppamento avrebbe reso facile la cattura.
Ora seguiamo per ciascuno di loro i successivi movimenti.
Ottorino Grandoli, rimasto incolume dopo una breve sosta nel cortiletto di Dania, resosi conto che la zona antistante era libera, uscì dal cancello e si diresse verso la Via Porta all’Arco, attraversò e attraversò la S.S. 68 all’altezza di Borgo S. Alessandro, attraversò il borgo e si diresse, attraverso campi, alla frazione Villa, dove trovò un suo zio presso il quale poteva trattenersi. Non essendo stato individuato, Grandoli poté rientrare successivamente a Volterra, dove provvide a ritirare i documenti lasciati.
Emilio Gazzarri, anch’egli rimasto illeso ma assai malconcio dopo i molti salti e rotoloni, si trovò dietro la casa di Dania. Proseguì carponi lungo un fosso e raggiunse l’abitazione di Mino Montagnani, poco distante. Trovò la porta aperta, accese la torcia elettrica e vide Mino Montagnani al fondo di un corridoio con alcuni famigliari. Chiamò Mino, gli consegnò una rivoltella che venne nascosta sotto un pagliaio.
La sparatoria non accennava a rallentare e proveniva ormai da varie parti della zona: Gazzarri dovette attendere qualche tempo. Non appena la situazione si calmò, uscì dalla casa di Montagnani, percorse il viale Trento e Trieste deserto e si diresse verso la sua casa a S. Felice. Trovò i famigliari preoccupatissimi perché Del Colombo era già passato gravemente ferito e non sapevano nulla della sua sorte. Rassicurati i famigliari e dati alcuni chiarimenti e istruzioni al padre, si preparò ad allontanarsi essendo l’unico che era stato individuato e quindi ricercato. Salì in casa e poco dopo bussarono fortemente alla porta della strada: i militi tentavano di sfondarla. Pregò il padre di andare ad aprire e attraverso un abbaino si portò sui tetti circostanti. Dalla grondaia assistette all’arresto del padre, duramente colpito con il calcio dei moschetti dai militi. I colpi ricevuti costrinsero il padre a sottoporsi a un intervento operatorio per un’ernia doppia.
I militi videro vicino alla porta di Gazzarri numerose e ben visibili tracce di sangue. Ritenevano che seguendo quelle tracce avrebbero trovato Gazzarri. Lungo via della Pietraia e successivamente fino all’ospedale, le tracce di sangue li condussero proprio all’ospedale dove trovarono Del Colombo che si era fatto ricoverare. Calmata la situazione, Gazzarri, dai tetti, si recò a casa sua anche per tranquillizzare la madre, preoccupata per la sorte del marito arrestato. Prese alcune coperte e provviste e, sempre attraverso i tetti, si diresse verso la soffitta dell’abitazione di un milite fascista, dove udì anche la preoccupata conversazione con la moglie sugli avvenimenti in corso. Rimase tre giorni nella soffitta, prelevando di notte le provviste nella sua casa. Nel frattempo, il C.L.N., mediante il C.M., dispose il trasferimento di Gazzarri alla Formazione Partigiana, dove effettivamente si recò insieme ad altri.
Dino Del Colombo fu gravemente ferito; maciullato, dissanguato, con il braccio sorretto da un solo tendine. Nascosto abbastanza dai filari di viti, riuscì a vedere sulla spalletta alcuni militi che indicavano nella direzione di Grandoli, poco distante, che si stava allontanando. Dirigerono una sparatoria in quella direzione e ciò dette modo a Del Colombo di gettarsi nella conigliera vicino alla casa di Dania. Si portò immediatamente al cancelletto per spostarsi in Via Porta all’Arco ed intravede, forse, Cecchelli che seguiva altra direzione. Attraversò la S.S. 68 ed imboccò lo sdrucciolo di S. Alessandro verso la chiesa. Bussò alla porta di Nando Carmignani che gli apri. Entrò e, con ammirabile sangue freddo, si tolse ciò che era
rimasto dell’impermeabile ed usò la cintura per farne un laccio emostatico al fine di evitare una ulteriore. più grave perdita di sangue che gli usciva copioso dalle ferite.
Dalla casa Carmignani uscì, risalì la scaletta e si portò sulla S.S. 68 dove incontrò Guerrieri Gino (Buzzino) dal quale non poté ricevere che parole di incoraggiamento. Imboccò il Viale Trento e Trieste, deserto, e si portò a S. Felice alla casa di Gazzarri dove trovò il padre che lo rassicurò sulla sorte toccata al figlio Emilio. Il padre di Gazzarri consigliò a Del Colombo di recarsi immediatamente all’ospedale civile, data la gravità delle sue ferite. Del Colombo salì per Via della Pietraia e si consegnò all’ospedale. Ricevette le prime cure dal Dr. Sarteschi e venne ricoverato nella corsia comune. Il mattino successivo, il Prof. Carossini lo sottopose a un intervento chirurgico, amputando il braccio destro e curando le altre numerose e gravi ferite riportate.
Il giorno 15 marzo fu disposto il suo trasferimento nella camera adibita ai detenuti e fu piantonato da due carabinieri e quattro militi fascisti. Nel frattempo, Del Colombo riuscì a crearsi un alibi con la compiacenza della famiglia Cavicchioli, abitante al podere Burlando. L’alibi consisteva nel sostenere che, recandosi a raccogliere legna in campagna, fu sorpreso dal coprifuoco e fu testimone di lanci di bombe e spari. L’alibi, anche grazie al fermo atteggiamento della famiglia Cavicchioli, non poté essere del tutto confutato e venne, almeno apparentemente, accettato. Ciò evitò a Del Colombo conseguenze immediate e gravi, anche perché il comando tedesco si era interessato nel frattempo del fatto.
Del Colombo rimase in ospedale fino al 30 marzo e venne trasferito in una cella di isolamento nel carcere della Fortezza. Dal 30 marzo a giugno non si segnalarono eventi rilevanti, se non i periodici interrogatori sia da parte della milizia fascista che del comando tedesco.
Il giorno 15 giugno, alle ore due di notte, Del Colombo fu prelevato dalla cella e fatto salire su un pullman SITA per essere condotto a Castelnuovo V.C. e consegnato, unitamente a Dino Fulceri (Mosè) e Benini Gino due partigiani catturati e ferocemente torturati, alle SS tedesche. Un provvidenziale scoppio di un pneumatico ritardò l’arrivo e nel frattempo le SS tedesche si spostarono. Per questo fatto si verificò l’immediato ritorno a Volterra, sempre con lo stesso pullman al quale se ne aggiunse un altro; ci fu una sosta a Pomarance per evitare, viaggiando di giorno, il mitragliamento degli aerei, e arrivarono a Volterra verso le ventidue circa. Riuscirono a evitare per un pelo la sorte occorsa ai partigiani Stucchi, Vargiu e Pireddu, fucilati dalle SS vicino al cimitero di Castelnuovo, e quella avvenuta la sera dello stesso giorno, 14 giugno, al marchese Spinola, partigiano, freddato in una cella di sicurezza.
Del Colombo e gli altri furono ricevuti dal Ten. Lusso, della milizia, che pronunciò loro un’infervorata e minacciosa allocuzione su come avrebbero dovuto comportarsi durante la loro assenza! Del Colombo fu rinchiuso nuovamente nelle carceri della Fortezza, ma poté uscirne il 27 giugno, insieme ad altri detenuti politici.
Nella fuga Ottorino Cecchelli si trovava in fondo alla ripida scarpata, non lontano da Gazzarri. Evitò in ogni modo di ricongiungersi con Del Colombo, malgrado fosse gravemente colpito da numerose schegge. Raggiunse il muro di Via Porta all’Arco, udì i lamenti di Del Colombo senza però poterlo individuare, e lo esortò ad andarsene il più velocemente possibile, come stabilito. Attraversò Via Porta all’Arco, scavalcò il sottostante muretto e, spostandosi lungo il muro di Via Trento e Trieste, raggiunse il lavatoio di S. Felice senza incontrare nessuno. Si soffermò anche per valutare le ferite riportate, che provocavano una copiosa fuoriuscita di sangue; tuttavia, non poté rendersi conto della gravità delle stesse. Superati i campi sottostanti il lavatoio di S. Felice, si diresse verso il podere Colombaione dove trovò Renzo Trafeli, colà sfollato, e ricevette le prime cure sommarie. Eran le ore quattro del 13 marzo.
Partì quasi subito per recarsi a Fognano presso uno zio. Rimase tre giorni a Fognano, dove la mattina del giorno 15 ricevette la visita di Nello Bardini (Ciaba), di Niccolo Mizzetti e di Grandoli Ottorino, avvertiti da Renzo Trafeli. Il giorno 17 marzo, Grandoli tornò con altri per accompagnare Cecchelli in un capanno del C.L.N., dove poté trattenersi circa sette giorni, ricevendo nel frattempo la visita di Carlo Cassola.
Le numerose schegge, alcune delle quali penetrate in profondità in varie parti del corpo, cominciarono a produrre pus ed era facile che si sviluppasse un’infezione. Fu deciso di sottoporre Cecchelli a un intervento chirurgico presso casa di Ottorino Grandoli, dove fu portato. Un medico, inviato a Volterra dal C.L.N. Provinciale, tale Fellini di Trieste, uno studente universitario, eseguì un vero e proprio intervento chirurgico con mezzi di fortuna, estrasse ben cinquantasei schegge e curò le ferite più gravi.
Negli ultimi giorni di marzo, Cecchelli dovette allontanarsi dalla casa di Grandoli, che poteva essere visitata dalla milizia fascista, poiché nel frattempo il fratello minore di Grandoli si era allontanato per evitare il prelievo forzato dalla Tod. Con una bicicletta si recò nella vallata di Cerbaiola presso la famiglia Taddei, dove sua sorella si trovava sfollata. Rimasero nella zona il tempo necessario per far rimarginare le ferite e per consentirgli di poter camminare più rapidamente. Successivamente si trasferì nuovamente al podere Fognano, dove apprese della morte del proprio padre, avvenuta durante un mitragliamento della SITA presso Lajatico. Fu necessario recarsi al riconoscimento della salma e poi tornare clandestinamente a Volterra.
Nei primi giorni di maggio, si trasferì alla fattoria di Torri, presso Montecatini V.C., dove lo attendeva Umberto Borgna, presidente del C.L.N. di Volterra, che si trovava nella zona con altri membri del comitato. Cecchelli fu sistemato nella fattoria, dove rimase per un certo periodo, partecipando insieme a Umberto Borgna, Mario Giustarini e altri, a varie riunioni organizzate dal C.L.N. per la formazione di nuovi Comitati di Liberazione. Verso la fine di giugno, poté rientrare a Volterra clandestinamente e si nascose nel rifugio della S.A.L.P.A. al Giardinetto, insieme a Umberto Borgna, che lo utilizzò in varie occasioni per conto del C.L.N.
Sulla base di rivelazioni postume, risultava evidente che Boccale, sin dai primi abboccamenti con Gazzarri, già aveva avuto in animo di tradire. Sintomatico era il fatto che volesse ritardare la data per il colpo e che desiderasse insistentemente conoscere il nome degli altri componenti del gruppo. Il segnale di allarme aereo, senza che nessun aereo fosse in vista, fu dato proprio alle ore ventitré, ora stabilita per il colpo. Il ritardo di oltre mezz’ora rispetto a quella stabilita per il segnale luminoso, e ancora, la cosa più atroce: il moschetto non venne passato, ma solo mostrato con la canna nella giusta direzione a Cecchelli che voleva prenderlo.
Boccale era sicuro di avere avanti a sé Gazzarri, l’amico Gazzarri: un amico al quale avrebbe dovuto freddamente sparare, ucciderlo, forse, perché questo doveva essere il segnale del tradimento. Ma Boccale indugiò, si pentì o non ne ebbe il coraggio e il tempo: i militi, appostati da tempo alle finestre superiori della caserma, iniziarono egualmente il lancio delle bombe, mentre da varie parti della caserma stessa e della zona vicina ebbe luogo una nutrita sparatoria. Se il gruppo non fu circondato e preso, fu perché i militi ebbero paura e si limitarono a sparare a distanza senza procedere poi, come sarebbe stato logico, a un accerchiamento della zona, del resto assai limitata.