Quando Novembre è alle porte ce lo annunziano le prime brume autunnali che salgono dopo il tramonto dalla Cecina per espandersi in tutta la vallata.

La nebbia sale piano, poi, con l’inoltrarsi della notte, diviene sempre più fitta, finché all’alba, talvolta giunge ad occultare tutta la pianura al di qua ed al di là del fiume ed anche poggetti e casolari fino a mezzo monte.

«L’aria del mattino ha il cuore in bocca», dice il proverbio, e ne son ben convinti quei volterrani che hanno la saggia abitudine di alzarsi presto per recarsi sui «Ponti» a prenderne una boccata. Così certe mattinate nella stagione fredda, a chi si affaccia alle spallette di quella che è una delle più belle passeggiate della nostra terra, uno spettacolo straordinario si presenta, dopo la Chiostra, giù, giù, a perdita d’occhio, una coltre impenetrabile che si distende mollemente dovunque, interrotta ora da un cucuzzolo, ora da un podere di collina, quasi isole di un vasto tranquillo mare.

Dalla cintola in su tutto lì vedrai

Un po’ in disparte, sulla destra, Montecatini sonnecchiante in uno splendido isolamento. Il bellissimo borgo medievale da qualche anno silenzioso. Non più si diffonde per le sue strette strade il cigolìo dei montacarichi e degli ascensori, caro motivo conduttore di quella sublime opera che è il lavoro, né più echeggia attorno alla torre dei Belforti il canto delle sirene annunziante il cambio dei turni. E’ chiusa la secolare miniera e chimerica appare ormai la sua riapertura. Spenta ogni attività, emigrati i suoi figli migliori in cerca di altro lavoro, Montecatini, ieri prosperosa, gioconda, dispera per il suo avvenire.

Il nostro poggio, dall’alto dei suoi trenta secoli, imponente troneggia, forse ammirato da così bella suggestiva visione, che il sole, ormai alto, fa variare di continuo. Si sta sciogliendo la nebbia e tra le dissolvenze lentamente risorgono, come per magia, poggettini, alberi, casolari che poco prima avresti pensato scomparsi per sempre.

Più tardi, quando il candido velario svanisce del tutto, la vallata non più rossiccia per l’arsura estiva, appare, veramente stupenda nel suo abito verde, di cui si gustano tutte le gradazioni tonali. Qua e là avverti come un luccichio: le foglioline, i fili d’erba, roridi, rispecchiano il sole.

Il mattiniero volterrano, critico talvolta, come tutti i suoi concittadini, arguto anche, ma poeta sempre, guarda ammirato e pensa a quanto e come sia largamente ripagato il sacrificio di una ora di sonno dal meraviglioso spettacolo che la generosa etrusca sua terra sa offrirgli. E forse rientrerà all’ombra del palazzo dei Priori con sul labbro una riminiscenza carducciana:

Le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente

Forse si deve a questo non infrequente impareggiabile panorama, che l’immaginazione riaccosta al mare, se qualche anno più tardi, allorquando per il trasporto dell’alabastro fu attuato l’allora criticato «servizio navetta», un satirico buontempone ne trasse spunto per trasformare i Ponti in un amplissimo porto: un riuscito fotomontaggio, opera mi sembra, del rinomato studio fotografico Vannucchi, mostrava un magnifico golfo con all’ancora numerose imbarcazioni, mentre, in primo piano, faceva bella mostra di sé un yacht in navigazione. In alto, sui moli, verso la dono un ottimo nettare che con il suo frizzantino invitava alla degustazione ripetuta, sì da infondere allegria agli animi e a riscaldare i cuori. Lavoro c’era per tutti in paese: la Salina aveva di recente inaugurato dei moderni sistemi produttivi e le ciminiere dei «forni nòvi» svettavano al cielo fumanti giorno e notte. Anche la fornace dei laterizi e la fabbrica del gesso, dove si utilizzavano residui della lavorazione dell’alabastro, assorbivano un buon numero di operai.

Si, il lavoro non mancava alle saline ed a quel tempo avere un pezzo di pane sicuro per tutta la vita era la massima aspirazione per chi viveva della forza delle braccia.

Alcuni operai calavano anche da Pomarance, da Montecatini e qualcuno raro, da Volterra (chi tra gli anziani non ricorda la caratteristica figura del «Cecchellino»?). Vita dura, per loro di fuori! AI mattino, per essere sul posto alle sette dovevano partire almeno alle cinque e mezzo e alla sera ci volevano due ore buone per il ritorno, giacché a quel tempo l’unico mezzo di locomozione era il cavallo di San Francesco.

Ma quanto dormivano, quanto si riposavano? Pochissimo, di sicuro!

Buoni, onesti, ottimi lavoratori si sacrificavano volentieri reputandosi fortunati rispetto a coloro i quali, d’inverno specialmente, non trovavano da fare «un’apra» per mesi.

E quando si ammalavano? Miseria… le mutue non c’erano, come nessuna provvidenza esisteva. Qualche cosa faceva mio padre, buon socialista e forse unico abbonato all’«Avanti» (rara avis, per quei tempi) in paese. Egli aveva dato vita ad una sezione della Fratellanza Artigiana d’Italia (ricordo: bandiera tricolore ed al posto dello stemma due mani che si intrecciavano) e ritirava un ventina alla settimana dagli iscritti che in caso di malattia fruivano di un sussidio giornaliero. Una vera pacchia davvero, però nessuno si dava ammalato se proprio non ce la faceva più.

Tempi duri. Ci si accontentava di poco, si riteneva l’occupazione un bene ineguagliabile e per quella gente così semplice anche il più piccolo svago assumeva aspetti di un impareggiabile divertimento: come ad esempio il «PaIio di San Martino».


Un paio di settimane soltanto ci separavano dal fatidico 11 Novembre e in quel giorno si correva l’ormai tradizionale corsa podistica detta il Palio di San Martino. Il vincitore diveniva l’incontrastato «cornucrinito» dell’anno, con diritto a conservare sino alla corsa dell’anno successivo lo stendardo ricevuto in premio.

Si sa che il santo è protettore dei sofferenti di quel tipico mal di testa dovuto a certe escrescenze ossee frontali, non guaribile neppure con l’intervento chirurgico. Difatti, si era soliti dire: quello? ha due protuberanze in capo che neppure il Baciocchi gliele leva!

Tutti gli uomini sposati del paese, meno gli anziani, partecipavano alla gara, dalla quale erano esclusi i musicanti in quanto impegnati nel «servizio musicale» che la banda effettuava per la circostanza.

Ho accennato allo stendardo: ricamato dalle spose del paese, raffigurava due bei cervi impegnati duramente ad intrecciare le ramificate corna nella eterna lotta per il possesso della femmina; era appannaggio del primo arrivato che aveva altresì diritto di ritirare un cappone, mentre alla sposa veniva consegnato un bel galletto: entrambi i pennuti con chiaro significato.

La corsa era organizzata e condotta in maniera che ne risultasse vincitore il… fauno più indiziato, pur, ovviamente, non, potendosi andare al di là del sospetto.

Invero le mogli, quasi tutte discretocce, sane e robuste, non avevano molto tempo libero: lavoravano alla raffineria del sale per ben dieci ore al giorno durante le quali ne impacchettavano anche quattordici quintali.

Oltre a ciò dovevano accudire alla casa, ai loro uomini, ai figli per cui tempo da dedicare a distrazioni extra talamo non ce ne restava. Il titolo quindi era puramente simbolico e tutti ci scherzavano sopra volentieri.

Della corsa si avevano i primi accenni verso la fine di ottobre.

Il programma prevedeva:

ore 14,30 – servizio musicale in piazza;
ore 16,00 – raduno dei concorrenti sotto l’olmo dell’osteria;
ore 16,10 – sfilata per le vie del paese;
ore 16,30 – partenza dalle Due Strade e arrivo all’Olmo:
(percorso: Borgo Lisci, Casa di Lelo, svolta per il Ponte, Piazza Salina, Muro delle Guardie, Olmo);

ore 17,00 – premiazione;
ore 18,00 – cena all’osteria.

Il programma veniva affisso al cancello dello stabilimento.


Ricordiamo un aneddoto del 1911.

Quella volta era domenica.

L’entusiasmo nel paese era superiore ad ogni aspettativa. Alla Messa delle 11 tutti in chiesa, alle 12 pranzavano. Alle 14 e mezza iniziava il tutto; quella volta il servizio musicale presente in piazza era diretto dal maestro Consortini di Volterra e l’euforia salì alle stelle. Prima delle 16 i concorrenti si affollavano sotto l’olmo per dare inizio alla sfilata. I mariti, allegri come pasque si motteggiavano senza mai adontarsi e le frecciate si intrecciavano senza tregua.

– Questa volta è quella «bona» Montura, il cappone ti s’aspetta di diritto.
– Noe, noe Gano, dicono che la tu moglie ti ha fatto fare un bell’allenamento e che sei in forma…
– Io tengo per Succhiello!
– Oh gente! ce l’avete con me? Ma io sapete com’è! Le corna sono come i denti, dolgono un po’ quando spuntano ma poi aiutano a mangiare…
– Zitti tutti, c’è Gheghe, pare sia il numero uno! Dicono che n’ha più lui di un cestino di chiocciole!
– Oh Gheghe, vieni! Quest’anno è la tu’ festa: moglie e buoi dei paesi tuoi e te la moglie l’hai presa di Montecatini!
– Di certo, a Montecatini le donne ci sono belle e siccome ci si sposa una volta sola l’ho voluta come si deve.
– Già lo dice anche il proverbio: “Montecatini dalle belle sottane, ma sotto sotto un po’…”

Gheghe aveva sposato la Rosina, giovane e graziosa vedova, tutta pepe, un po’ spregiudicata per quei tempi, cosa che dava la stura ad imprevedibili chiacchiere. Gheghe ne era a conoscenza, ma non ci faceva caso, o non ci credeva: la moglie si mostrava affettuosa, lo teneva bene; era una lavoratrice instancabile, andava in fabbrica come le altre donne, rammendava, lavava, cucinava bene e la domenica ammanniva con pochi centesimi dei desinarini coi fiocchi, sicché, lui, il marito, si sentiva veramente soddisfatto.

Alle 16,10 iniziò la sfilata: Occhi Bianchi, un vispo ragazzetto che Moschino, suo padre, si portava sempre dietro, era in testa con lo stendardo; seguiva la musica: una brillante marcetta composta per la circostanza dall’ottimo maestro, quindi i concorrenti e qualche monello. Il paese assisteva schierato sul percorso e applaudiva o commentava vivacemente, ammiccando a questo o quel partecipante.

Alle Due Strade la musica faceva dietro front e ritornava all’osteria per la premiazione. I concorrenti invece rimanevano qui e si preparavano per la partenza.

Michele, magnifico burlettone, era incaricato delle formalità e iniziò con l’appello: Montura, Gano, Moretto, Cangini, Cinto, Gigino, Deo, Gheghe, Boccalino, Bòcche, Livornino, Tettino, Parisio, Coccolino, Tirodo, Tore, Scucchia, Spinardo, Dinde, l’Armeggi e Lampanino.

Era quest’ultimo un brioso capo ameno, sempre disposto ad organizzare un divertimento e a dare il «Ià» per gli scherzi o si era fatto un nome per «comandare» alle festa di ballo, le quadriglie, che in genere, nonostante il suo impegno si concludevano con un «gran confusione e al posto». In quel frangente si muoveva senza posa tra i concorrenti ricordando l’ordine di scuderia a fior di labbra «Gheghe vincente!» seguìto da una strizzatina d’occhio o mentre ad alta voce sbraitava: «disciplina, mettetecela tutta, niente camorra!»

Finalmente il via: lo sprint iniziale fu movimentato, un paio di strappi, ma niente di fatto. Dal Buci le posizioni si cominciavano a delineare: Cinto, Gigino, Gano e Montura filavano forte, seguiti da Lampanino che continuò la sua supervigilanza, Tettino e Livornino, cacciatori spericolati e quindi di gamba lesta, Tore, Boccalino, Gheghe e dopo gli altri.

Alla casa di Lelo grande zelo in testa per movimentare la gara, ma Lampanino riuscì a far avanzare Gheghe che al ponte pigliò la testa, entrò in piazza in prima posizione, procedette spedito per il muro delle guardie, per poi tagliare il traguardo all’olmo; fu applauditissimo mentre gli ottoni della banda facevano udire gli squilli della «marcia trionfale» della Aida.

La consegna dello stendardo era un avvenimento di tutto rilievo: il paese si stringeva attorno al vincitore, eroe della giornata, il quale brillava di gioia genuinamente paesana, mentre Rosina, vispa più che mai, rispondeva da par suo ai primi frizzi.

Alla fine Michele radunò i concorrenti e lesse un «pistolotto» di sua creazione, dove si parlava dell’altruismo di Gheghe, restìo a voler tenere solo per sé il suo bene, del buon cuore di Rosina, incapace di far soffrire il prossimo e del suo profondo affetto per il marito che ha messo in cornice (…in effigie). Concludeva consegnando lo stendardo dicendo: «conservate questo simbolo in una perenne lotta contro l’insidie casareccie e inspiratevi alla Santissima Trinità di cui vi siete dimostrati così osservanti. Crescete e… ramificate, come afferma la Bibbia.»

A una certa si era fatto buio e la gente cominciò a sfollare.

A quei tempi si mangiava presto, verso le sette, in paese, proprio per consentire agli uomini di uscire per andare a fare una breve partita dopo cena e rientrare prima delle nove, ora di chiusura dei cancelli del «gabbione»1 e coricarsi: il lunedì bisognava alzarsi prestissimo perché il lavoro di «sgrofatura»2 delle caldaie cominciava alle quattro.

Dall’osteria proveniva un profumo di pietanze ormai pronte, da far venire l’acquolina in bocca. Ciccia era così impaziente. Qualcuno diceva che erano stati già buttati giù i maccheroni di fior di farina fatti in casa e si attendeva soltanto che la Maria, ostessa perfetta, annunciasse: ragazzi, a tavola!

Intanto Tore non perdeva il suo tempo: accompagnandosi con la chitarra cantava stornelli a non finire intonati alla circostanza, tutti di sua creazione e poiché la cena era ormai pronta chiudeva con una sua sestina che anche Pietro l’Aretino gli avrebbe invidiato:

«Gente, Gheghe campion per la sua festa
a San Martino la candela ha accesa
dicon le male lingue che la testa
ha ripiegato per entrare in chiesa:
“avea due corna”, afferma il sacrestano,
che un bufalo pareva maremmano »!

© Pro Volterra, ARMANDO BONI
“Il palio di San Martino”, in “Volterra”
1 Il palazzone all’interno della salina, destinato ai salinieri e famiglie. La salina era allora tutta recinta da un’artistica cancellata in ghisa. I cancelli venivano chiusi alle 21 e guardie e finanzieri montavano di servizio.
2 L’operazione fatta a colpi di mazza per togliere i residui (gesso ed altro) precipitati in seguito alla bollitura dell’acqua salsa e divenuti duri come pietre.