Era appena terminata l’ufficialità per il rinnovato palazzo Minucci – Solaini, dopo i lavori di ripristino che hanno riportato all’antico splendore questa meravigliosa opera d’arte attribuita al Sangallo quando, insieme ad altri visitatori, ho varcato l’antica soglia per ritrovare le tante cose che avevo conosciuto negli anni lontani della mia prima giovinezza. Un lavoro veramente magnifico che reca onore a quanti si sono adoperati per rimettere in luce uno dei tanti monumenti che abbondano nella nostra Volterra.
Al pari di un visitatore straniero mi sono portato nella prima saletta a destra dove si trovano esposte numerose fotografie che rivelano lo stato trasandato di questo palazzo prima che venissero iniziati i lavori.
Alla vista di queste fotografie la mia mente si è riportata agli albori del Novecento, all’epoca in cui trascorrevo gran parte delle mie giornate fra Piazza Minucci e Via Del Mandorlo dove mio padre teneva una bottega di falegname nei fondi della seconda torre. Come per incanto mi sono rivisto in mezzo ai protagonisti della monotona vita di questa contrada; i ragazzi di allora, gli operai artieri, le loquaci comari sedute sui gradini della porta di casa di quel meandro di viuzze che fanno capo alla più centrale Via Ricciarelli.
Ho rivisto i proprietari di questo palazzo, già ridimensionato in piccoli quartieri a disposizione della povera gente ed il piano terreno con i laboratori per gli alabastrai, le stalle e le rimesse per i vetturali e barrocciai di passaggio e tante altre piccole cose.
Un giorno che mio padre scaricò sulla mia testa una nutrita dose di scapaccioni più sonora del solito, in ragione delle consuete birbonate, me ne scappai di corsa piangendo e urlando – Me ne vado ed in questa bottega non ci tornerò più!
Con un salto entrai nel palazzo Solaini bussando alla prima porta dove a quell’epoca c’era un laboratorio di scultura e dove speravo di essere accolto come garzone.
– C’è Sandro di Lino? esclamai tutto agitato.
– No! fu la risposta secca degli scultori presenti: – Vallo a cercare dal suo babbo.
Sandro di Lino (al secolo Alessandro Gabellieri) figlio dello zoppicante Lino, un vecchio barrocciaio che teneva i traffici in una stalla di via Del Mandorlo, era un ottimo scultore che si era fatto sa se fino a divenire un intraprendente principale; forse il primo ad occupare un’ala del piano terreno del palazzo. Quando però la prima guerra mondiale creò grandi restrizioni alla nostra industria per il fatto che il commercio dell’alabastro era concentrato quasi tutto in Germania, l’economia volterrana crollò di colpo ed il nostro Sandro, radunata la numerosa famiglia e le cose che possedeva emigrò in Spagna da dove, ritengo, non abbia più fatto ritorno.
Quando uscii da questa bottega di scultori mi imbattei in «bachino», un omaccione della famiglia Raspi, di professione sensale, vinaio, stalliere e perditempo che, vedendomi tutto sconvolto, mi si parò davanti con aria canzonatoria esclamando: – C-Che ti è su-successo? Ti-ti hanno r-riscaldato? Era affetto da balbuzie e quindi parlava a scatti come il telegrafo. Non perdeva mai il buonumore nonostante le proverbiali difficoltà finanziarie, la numerosa famiglia da mantenere e le continue liti con la moglie Zelinda, una povera donna obbligata, oltre all’accudenza della casa, a passare gran parte della giornata nella bottega di vino a servire gli abituali avventori.
Anche il nostro «bachino» è stato per qualche tempo uno degli abitanti dei piccoli quartieri del palazzo. Tre o quattro stanzette al massimo per ricavare una cucina e due o tre camerette e per far posto ad un cassettone, un armadietto e tre letti.
I figli venivano collocati quattro per letto e due, i meno grandicelli, in fondo a quello matrimoniale dove, dopo a mezzanotte, si coricavano i genitori. Non sempre tutto si risolveva in una buona dormita perché quando «bachino» aveva alzato il gomito più del solito difficilmente riusciva a prendere sonno e quindi ogni sua attenzione veniva rivolta verso la povera Zelinda che di certe effusioni ne avrebbe fatto tranquillamente a meno. Era questo il momento in cui stendeva Iegambe sui malcapitati figlioli che nel bel mezzo del sonno si trovavano scaraventati ai piedi del letto. Però quando i ragazzi avvertivano le intenzioni amorose del proprio genitore, il più anziano dei due (Nacchia) scuoteva il fratello dicendo: Attento Nello! Che babbo ricomincia!
Una frase che, vera o non vera, faceva il giro della Volterra alabastraia. A quei tempi di ristrettezze e di miserie, il cui dopo-scuola per noi ragazzi era costituito dall’obbligo di trascorrere cinque o sei ore del pomeriggio intorno ai trespoli od alle ceppaie nelle botteghe degli alabastrai, la indiscrezione dei vecchi lavoranti si spingeva a curiosare nelle vicende familiari di questi giovani allievi. Quando uno si abbandonava a raccontare tutto della propria famiglia confessando candidamente di passare la notte nel letto insieme ai genitori, c’era subito una voce maligna che esclamava: Attento Nello, che babbo ricomincia!
Comunque il regno di «bachino» oltre alla bottega di vino e le stalle collocate in un’ala del cortile e nei fondi della prima torre, era concentrato nella piazza Minucci che, nei mesi caldi, diveniva una specie di «piazza delle erbe». Era qui che, alcune donne del contado venivano a depositare i loro fasci d’erba in attesa che stallieri e barrocciai venissero fin lì a fare rifornimento per le loro bestie. Povere donne! Scalze e dimesse, con la faccia scavata dai digiuni e le fatiche, con il cappello di feltro in testa, avevano camminato ore ed ore lungo gli scoscesi greti dell’Era allo scopo di falciare l’erba sulle prode dei campi e salire fino alla piazzetta per racimolare trenta o quaranta centesimi.
Fra queste falciatrici faceva spicco una donna giovane e belloccia con i capelli ricciuti e lo sguardo penetrante. Una donna piuttosto loquace che quando si metteva a discutere il prezzo dei suoi fasci d’erba lo faceva con movimenti felini roteando la falce e pronunciando frasi tutt’altro che castigate che scandalizzavano perfino i più volgari acquirenti.
A guardarla bene assomigliava alla più celebre «Mila di Codra» ma, a detta di coloro che la sapevano lunga sul suo conto, le gesta erotiche della falciatrice dannunziana erano cose da educanda. Lei l’erba andava a falciarla lungo la via delle Saline. Quando aveva racimolato il carico si metteva seduta, nonostante il sole cocente, sui bordi della strada maestra in attesa che passasse il «procaccia» con il barroccio pieno di mercanzie che giornalmente faceva il tratto Saline – Volterra passando da lì sempre alla stessa ora. La nostra ricciolona chiedeva di essere sollevata dalla fatica di salire a Volterra con i fasci d’erba sulla testa che venivano caricati regolarmente sul barroccio dove prendeva posto accanto a lei anche il «procaccia». Un poco per il caldo e molto per le irrefrenabili vogliosità di lei i due finivano sempre per trovarsi abbracciati. A quell’epoca lontana era molto difficile che per quella strada transitasse qualche mezzo o qualche cristiano poiché, se lo sguardo indiscreto si fosse posato sui due, avrebbe assistito a scene boccaccesche e udite frasi da farsi il segno della croce. I movimenti felini di questa donna erano così violenti che il carico del barroccio pareva dovesse ribaltare da un momento all’altro. Sotto la pressione di lei il pover’uomo gemeva e digrignava i denti come se gli lacerassero le carni; con voce soffocata, lanciando al cielo grossi sospiri esclamava: Maria m’usce l’anima!
Qui non ripeterò le parole insensate di lei altrimenti queste noterelle finirebbero nel cestino del censore. Ed ora dite pure che i volterrani sono delle vere e proprie linguacce che quando ci si mettono non guardano troppo per il sottile. Verissimo! Che cosa volete farci: in fatto di segreti un vero volterrano non è capace di trattenere in bocca nemmeno le pere campanie.
Ritornando al punto di partenza, cioè al palazzo Solaini, rivedo ancora l’avv. Ezio Solaini, l’eminente etruscologo, con la faccia seminascosta da una sciarpa di lana e con indosso l’immancabile «gabbanella», fermarsi sui gradini dell’ingresso per scrutare il cielo e, dopo una breve sosta riflessiva, spingersi verso la piazza od infilare la via Sarti per recarsi nel Museo Guarnacci dove trascorreva gran parte della giornata immerso negli studi. Nel palazzo abitavano anche le famiglie Dolfi e Tangassi legate entrambe da certi vincoli di parentela con i Solaini. Abitavano altrove, gli autentici proprietari Fidia e Pericle Solaini. Due fratelli coniugati entrambi e senza prole; il primo, di professione farmacista e membro autorevole dell’Accademia dei Riuniti ed il secondo professore di disegno ed industriale dell’alabastro. A rappresentare la casata e difenderne gli interessi erano rimaste due inacidite sorelle: una, morta di male sottile agli albori della prima guerra mondiali e l’altra, andata sposa ad un tappezziere piovuto a Volterra non so più da dove.
Alcuni anni avanti della prima guerra il caro «bachino» venne sfrattato unitamente al proprio armamentario ed i fondi, che avevano conosciuti sporchi e maleodoranti, vennero ripuliti e rimessi a nuovo da Don Dolfo Dolfi che, appassionato di teatro, trovava più diletto a recitar commedie in luogo di rosari, e destinati alla filodrammatica del rinnovato «forzabuco».
A preparare musicalmente noialtri ragazzi, per queste specie di surrogati della lirica c’era Lello Sestini, il quale si era innamorato della sorella di Don Dolfi. Le loro corrispondenze amorose avvenivano clandestinamente come ai tempi di Romeo e Giulietta: lei, affacciata ad una finestra della prima torre del palazzo e lui, addossato al muro della vecchia pescheria vicino al gabinetto pubblico, il cui fetore si sentiva ad un chilometro di distanza. La cosa non era passata inosservata da noi altri ragazzacci che di quella piazzetta avevamo fatto il quartiere generale per le nostre scorribande. Armati di stagne vuote e di altri ferracci ci divertivamo a disturbare il loro «idillio» con sonore scampanate.
Anche le recite del «forzabuco» si dissolsero nel nulla ed il locale venne trasformato in una sala cinematografica per la iniziativa di due improvvisati impresari Emilio Spinelli e Carlo Fantozzi che, con questo cinema intendevano far concorrenza al Cinema Excelsior posto nei fondi del palazzo Marchi al centro di via Nuova. Dato che il nuovo «Cinema Marconi» (ex «forzabuco») di spettatori ve ne andavano ben pochi, lo scaltro Spinelli pensò bene di crearne uno completamente nuovo con tanto di galleria signorile come era in uso nelle grandi città. E così, nei fondi della Torre Guarnacci, dove a quell’epoca i fratelli Rossi cuocevano ii pane ed immagazzinavano le derrate alimentari, sorse il nuovissimo «Cinema Centraie Moderno». Fu un successo ma non per questo gli animosi Giustino Vitì e Augusto Veroli, gestori dell’Excelsior, si dettero per vinti. Si accaparrarono l’esclusiva dei films con Lyda Borelli e Mario Bonnard che avevano il pregio di trafiggere i cuori di tutti i sognatori di casa nostra e così nonostante il loro localetto animato dalle musiche del compianto Maestro Consortini, riuscirono a tenere testa a qualunque concorrenza.
Stretto da tanta concorrenza il Cinema Marconi continuò a vivacchiare ugualmente. La gestione passò nelle mani di un certo Ercole Giani che da qualche anno era piovuto a Volterra dalla vicina Montecatini Val di Cecina per commerciare in carbone e vino – vìnello.
Nella prima saletta a sinistra dove oggi i visitatori del palazzo sostano per le informazioni ed acquistare gli opuscoli guida, c’era il negozio di questo strano tipo, nel quale si accedeva da una porta a vetri aperta verso la piazza Minucci. Era questo egregio signore una persona piuttosto tarchiata con una faccia arrogante e con un paio di baffi spinosi che assomigliava ad un cadetto di Guascogna. Le sue gambette erano fasciate da un paio di gambalacci che portava in tutte le stagioni a somiglianza del figlio di «brillone» con i suoi inseparabili calzettoni (altra natura l’indimenticabile ing. Gabellieri fatto di tutta bontà e squisitezza) che gli servivano, diceva lui, per non sporcarsi i pantaloni tutte le volte che inforcava la motocicletta che, al pari dell’auto di Gosto Baldacci, faceva tanto rumore e non partiva mai.
Tutto il santo giorno faceva la spola fra il negozio del vino ed il magazzino del carbone situato nei fondi della prima torre – forse un giorno lontano la scuderia del palazzo – ed in questo andirivieni non faceva altro che sputare sentenze all’indirizzo dei volterrani che, secondo lui, non sapevano apprezzare il valore dei films che proiettava la domenica e la bontà del suo vino che smerciava a quindici centesimi a fiasco.
La prima guerra mondiale spazzò via dal Palazzo Solaini ogni iniziativa del genere ed in questi locali entrarono numerosi alabastrai con trespoli, torni, coppaie ed altri arnesi del mestiere riempiendo ogni angolo di terra bianca ed il bel cortile con casse di imballaggio che lasciavano libero solamente il pozzo dove le donne che abitavano nel palazzo attingevano acqua piovana per cuocere i fagioli e dove, un brutto giorno, Beppe Brogi – andato fuori di senno – si gettò a capofitto per porre termine ai suoi giorni.
Ho salito tutte le faticose scale per rivedere dall’alto la piazza Minucci: ritrovo chiassoso di noi ragazzi. Prima di scendere al pian terreno ho sostato per un attimo nella magnifica loggia per ammirare le bellezze – completamente sconosciute prima di ora – e vedere da lì il Teatro Romano ed i lontani monti del Cornocchio. Ho poi disceso la scala appoggiandomi al guardamano di pietra incastonato nel muro come facevo da ragazzo per guadagnare alla svelta l’uscita.
Arrivato in strada con la mente piena di ricordi mi sono appoggiato all’angolo del palazzo per distendere i nervi e trovare refigerio nella frescura di quelle pietre secolari. La mia testa ha sfiorato la grande campanella di ferro sospesa ad un perno infisso nell’angolo di una pietra rosicchiata dall’usura del tempo. Mi sarebbe piaciuto agitarla come ai bei tempi per riudire il cupo suono e ridere ancora delle birichinate che escogitavamo ai danni della pacifica gente che abitava quei piccoli quartieri. Avevamo appreso che agitando per tre volte questa campana, da una finestrina in alto, posta sotto la tettoia del palazzo, si affacciava un omino piuttosto nervoso per rispondere a chi lo cercava.
Una sera appena fatto scuro ci avvicinammo in sette od otto a questa campanella che agitammo per tre volte con la forza di più braccia. A tanto rumore la finestrina si aprì immediatamente. Il solito omino con in mano la candela si affacciò puntualmente domandando: – Chi è … ? – lo! rispose uno di noi con voce stentorea. – Chi io? replicò I’omino con voce piuttosto stizzita. Quando però rispondemmo con una gran risata ed alcuni con un rumore licenzioso fatto con la bocca, il poveretto capì di essere stato corbellato e con un: – figliacci di buone donne, sbatté la finestra con un colpo così secco e fracassoso che ci parve che tutti i vetri delle altre finestre ci piovessero addosso.
Oggi il palazzo completamente disabitato. E a qualche scampanellata notturna, statene pur certi, non risponderà più nessuno.
Un salto in avanti nel tempo, ma non troppo. Quando la Repubblica di Salò cominciò a far la faccia feroce, il Palazzo Solaini che fino allora era stato il simbolo dell’inamovibilità volterrana, con la sua sonnacchiosa «routine» da un anno all’altro, cominciò a ribollire di imprecisati fermenti e a popolarsi di imprevedibili personaggi. Un esercizio di memoria che sintetizza le vicissitudini di Lorenzo Lorenzini, coinquilino di palazzo, durante la tragica seconda guerra mondiale.