Sono rimasto un po’ imbarazzato nel ritrovare quello ch’era stato il nostro quartiere di Palazzo Solaini, al secondo piano. Già, perché al suo posto c’è ora un gran salone con quattro finestre, due in Via Sarti e due in Piazzetta, mentre prima le esili pareti a mattoni per ritto ci avevano offerto cinque locali, non vasti ma sufficienti, e un corridoio. Una stanza era buia e ci dormiva mamma, volentieri, perché c’era meno freddo.
Ce l’aveva lasciato Fidia Solaini, comproprietario del palazzo, quando lui si era fatta la casa nuova alle Ripaie: sembrava non andasse d’accordo con gli altri, tutti parenti.
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Fino al 1943 in pianta stabile c’era stata soltanto la Sor’Aida, come la chiamavo scherzosamente. lo, quasi sempre fuori: prima in collegio, poi a Siena, poi a Firenze, e da lì in Africa, in Albania e ancora a Firenze. Dodici anni e sempre stellette, anche a tirate lunghe, con qualche spizzico a casa. Il 1938, per esempio, ma per modo di dire, poiché fui titolare di primo pelo a San Vincenzo, e prima che l’anno finisse, di nuovo stellette. Mio fratello, lui era addirittura sparito da quand’era ragazzetto: Roma, Modena, e poi Tobruk, Giarabub, India. Ci si rivide a guerra finita.
Ma per un po’ di tempo, dopo 1’8 settembre del 1943 l’appartamento fu pieno zipillo: c’era anche Antonietta e i miei due mocciosi e anche una donna di servizio, la Carmela, una sfollata da Livorno, anziana, fidata e brontolona, che ci tiranneggiava un po’ tutti, ma che poi fu d’oro quando in casa c’era nascosto Tobia.
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Quando la Repubblica di Salò cominciò a far la faccia feroce, il Palazzo Solaini che fino allora era stato il simbolo dell’inamovibilità volterrana, con la sua sonnacchiosa «routine» da un anno all’altro, cominciò a ribollire di imprecisati fermenti.
AI piano nostro, ma verso la chiostra e il giardino, c’era stato da sempre l’Avvocato Solaini, vecchio più che anziano, dalla barbetta bianca pinzuta. Viveva con lui l’Ermellina, non saprei dire se più vecchia o più giovane, che lo curava come un bambino: lo imbacuccava perché non prendesse freddo, lo sgridava se mangiava poco, gli rincalzava le coperte del letto. Quando lei faceva una capatina da noi, parlando di lui lo chiamava «l’Antico».
L’Avvocato era fascista, convinto, tetragono, ma, per dir così, un fascista – cherubino, sempre fra le nuvole, che forse credeva di vedere un nesso misterioso fra il Regime e l’etrusca malìa emanante dalle urne, al Museo, dove trascorreva quasi tutto il suo tempo. Non avrebbe fatto male a una mosca, ma poi, quando aveva preso l’abitudine di venire da noi ogni sera alle otto a sentire la radio (lui non l’aveva: aspettava a comprarla che fosse perfezionata, ma l’Ermellina diceva che era spilorcio) ci toccò dirgli che l’apparecchio s’era guastato. Poi legò per testamento la sua parte di palazzo personalmente al Duce e volle esser sepolto in camicia nera e fu accontentato nel 1942.
Nell’alloggio, quando Pisa e Livorno cominciarono a scottare trovò posto un agente della Questura, delI’U.P.I. (Ufficio Politico Investigativo); un povero diavolo preso per la gola cui dava evidente fastidio quel mitra a spalla nello scendere o salire le scale. Senza conoscermi mi salutava e si faceva da parte, e quieto rientrava in casa. AI 31 di marzo del 1944, quando fu ammazzato il Giorgi, sulla Sita c’era anche lui, e finì in mano ai partigiani e per sua fortuna tutto si risolvette in un colossale spavento. Dopo neppur tre mesi bussava al mio uscio e mi consegnava un tascapane di bombe e un moschetto. Non l’ho più rivisto.
Sullo stesso pianerottolo abitava Nino Cappellini con la zia e una cugina. Con Nino s’era amici fino dai pantaloni corti, quando si stava tutt’e due in Via Roma. Non ci volle molto, forse niente, perché anche lui fosse del nostri: un amico vero, un carattere di equilibrio perfetto, positivo che gli ho sempre invidiato; l’ebbi poi accanto sempre, soprattutto nei momenti più difficili, quando era più facile perder la testa.
AI piano di sopra, ricavato da certi rimaneggiamenti del sottotetto, stava la famiglia Taddei, di poca o, forse meglio, di nessuna relazione con noi. Del capo, in tanti anni, non ho mai saputo il nome e non m’era mai stato simpatico, forse perché da ragazzetti brontolava che si faceva chiasso; Orano, rosso di capelli, doveva avere la nostra età, pressappoco, ma non ci s’era mai fatto razza. Nel 1943 tutti insieme avevano nomea di fascisti: io non sapevo altro, ma alla metà del 1944 sparirono, e la voce doveva quindi esser vera.
Sopra ancora c’erano palchi morti e soffitte sterminate, nere di sudicio e di carbone, che per fortuna mai tradirono quello che c’era nascosto.
Il primo piano, quello nobile, salvo un pezzetto da poco lasciato da una strana famiglia comproprietaria per non so quali relazioni di parentela, era occupata dai Dolfi: la Bianca e il prete, e su almeno uno di questi due personaggi dovrò poi ritornare.
La Chiostra, a terreno dietro l’entrone, accoglieva i decisamente cattivi, addirittura pestiferi, per quel momento.
Attraverso l’uscio un po’ sgangherato e bianco di polvere, mescolato al ticchettìo dei mazzoli, al ronfar della sega, al frusciar delle scuffie, giungeva un parlottare, a volte pacato, a volte acceso, che si tramutava in silenzio di voci e di arnesi al primo cigolare della carrucola per il sollevarsi del peso. Il decano era Sandro e con lui c’erano Beppe e Culino e Oscare, buona gente, tutti, anche se comunistacci, o socialisti, sempre «acci» per le persone «bene» del posto. Gente che non avrei saputo mai immaginare in un atto violento, neppure verso chi li aveva oppressi, e messi al bando, e qualche volta alla fame; neppure se qualche volta anche in mia presenza dicevano che «quelli» bisognava squartarli e fargli patir mille morti. Sandro poi riportava la calma con la sua pacata condanna: «Eh, sì, hanno fatto male; non dovevano farlo; poi se ne dovranno accorgere di aver sbagliato.»
Di faccia c’era il magazzino dei medicinali di Beppe Amidei farmacista; l’uscio accanto a quello di Sandro dava nel giardino, e questo s’aveva noi. Si chiamava «l’orto», per far più presto ma era una ghiacciaia che non vedeva mai sole. In compenso però dava per una porticina alle Mura e questa fece comodo più d’una volta, anche se in alto potevano spiare le temute finestre della Bianca e quelle dell’U.P.I.
E torniamo ai Dolfi. Sorella e fratello. Prima lei: fascistissima, incolta, egoista, zitella acida, punto sincera, ed altre qualità negative. Il primo aggettivo forse non è esatto: quello giusto, ma sempre superlativo, forse bisognerebbe cercarlo nel fondo dei fiaschi che lei, fitti fitti, dalla cantina scarrozzava su per le scale. Forse il suo fascismo era tutto lì; forse Mussolini non era per lei che il dio protettore di quei fiaschi e della farina e dei prosciutti. E gli altri, tutti gli altri, non erano che i rapaci attentatori a quel ben di Dio. Non arrivava a credere che la gente potesse aver fame: una scusa, un pretesto. Alla sua roba era così abbarbicata che quando cominciarono a piovere le cannonate anche sul Palazzo, mai una volta scese giù a ripararsi con noi, forse per timore che qualcuno gliene chiedesse.
La temevo soprattutto per quanto potesse spiare e denunciare di ciò che avveniva nell’orto. Naturalmente morì molto più tardi, tranquilla nel suo letto, col naso e i pomelli sempre più rossi.
Il prete era per tutti Don Dolfo, figura ben nota in ogni ambiente, sempre col toscano in bocca, trasandato, energico nell’andatura tra lo sgonnellare della tonaca. Nei confronti della sorella erano come il giorno e la notte e s’intendevano poco. Si vedevano solo a tavola e lui subito scappava; lei gli raffazzonava alla meglio la camera aspettando che lui non ci fosse. Erano proprio l’opposto: lei tirchia e lui prodigo, lei beona e lui quasi astemio. Le liti nascevano proprio dai tanti fiaschi, prodotto di proprietà indivisa, che prendevano la via del suo studio dov’era sempre bicchiere imbandito per gli ospiti abituali e occasionali. Ma lui non beveva.
Aveva tenuto la Parrocchia di S. Francesco, faceva scuola ed era colto. Già Cappellano della guerra del 1915 aveva creduto nel fascismo e detto Messe per i «Balilla» e per i militi e, coerente, per i repubblichini. Quando con la sua voce sonora spiegava il Vangelo, però, il Duce rimaneva regolarmente di fuori e in questo, bisogna dirlo, era onesto.
In Africa Orientale io non c’ero col Battaglione CC. NN. dei volterrani: c’ero da coloniale con gli àscari e il Dolfi, capitano, l’avevo incontrato più volte, per caso, sempre in giro a dorso di mulo. Con l’altarino da campo e le tasche sempre piene di lettere da impostare o da distribuire fra i reparti della Legione.
Nel 1939 durante una mia breve licenza, ci aveva sposati, me e Antonietta, nella cappellina privata del Palazzo, una mattina alle sei, così alla svelta, e appena posati i paramenti ci aveva offerto un bicchiere di vino rosso.
Poche erano le linguacce che ne dicevano male, e senza convinzione, forse soltanto perché era prete. Ed io sapevo che l’avevano obbligato in casa a quel passo, e che lui s’era ribellato con violenza (dicevano che si fosse levato il collare e l’avesse messo al cane, in segno di rifiuto. Poi aveva ceduto e una volta vestito l’abito l’aveva sempre rispettato nell’essenza anche se le frittelle apparivano più che evidenziate dalla cenere del sigaro.
Aveva preso a proteggere un ragazzo, mio carissimo amico, poco in salute e molto più scarso di mezzi, e l’aveva tirato su su, fino a dargli da nulla una professione e un impiego. Nell’ambito, del Fascio, s’intende, perché fuori non c’era né professione né impiego. E con lui teneva in piedi il fratello maggiore, ancor più malato, e ancora due loro nipoti piccini piccini, e orfani, tutti sulle esili spalle di un Geppetto, più povero in canna del babbo di Pinocchio: un intero ospedale, insomma, e un asilo. Viveva solo e s’era addossato un’intera famiglia cui provvedeva con i quasi soli suoi mezzi, ormai non più larghi per tante persone.
Figurarsi la Bianca!
Le sue veglie le conoscevo fin da ragazzo, quando inciampavo in latino e scendevo giù per aiuto. Una nebbia fumosa da potersi affettare mozzava il fiato, un caldanone nel mezzo che accoglieva ogni sputo con uno zampillo di cenere e intorno Cesarino barbiere e Michele e Riccardo. Pipe e sigari e vino rosso. Naturalmente del prete. Discutevano forte di tutto, anche di politica. Riccardo ce l’aveva col Fascio, e era una linguaccia, anche perché costellava di moccoli le non sempre obiettive sue tesi. Don Dolfo inorridiva e in anni di occhiatacce e rabbuffi era riuscito a ridurli fino del 75 per cento: ma quell’altro 25, prepotente, si riaffacciava non appena uscivano le carte per la partita o le tessere del domino.
Tutte le sere così, fino a tardi.
Poi, specie durante la guerra, era un viavai per le scale di gente minuta che non ce la faceva a mietere, che lottava col male, che per tirare avanti aveva bisogno d’un po’ di licenza per il figliolo alle armi. E spesso il figliolo veniva davvero, perché il prete aveva le mani lunghe lunghe, anche fino a Pisa e Livorno, anche fino a Roma; ma non mi risultò che abbia mai domandato a qualcuno se aveva o non aveva la tessera del partito (Quella, del resto, per Necessità Familiari) o se nel pollaio ci fossero rimaste dell’ova.
Da ultimo gli era venuto un malaccio, sembra, dei fumatori e il radio gli aveva bruciato la gola e si vedeva, ma lui continuava come prima, anche se il suo protetto era morto malgrado ci avesse speso un occhio di cure, anche se l’altro non avrebbe tardato a seguirlo.
AI Venerdì Santo della Pasqua 1944 il prete era andato a parlare col Vescovo, allora Bagnoli, e questi doveva certamente aver trattato con le autorità tedesche: perché, il giorno successivo, Sabato, nel pomeriggio, noi che s’era rinchiusi nel Maschio, si fu liberati. Non ricordo se tutti, ma di certo in parecchi. Sull’intervento del Dolfi non ho dubbi: ne aveva subito informato mia madre sulla veridicità della testimone senza timore potrei metter la mano sul fuoco
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Il prete Dolfi è ormai passato alla storia e ci ha pensato Cassola, Ne «La ragazza di Bube» si chiama Ciolfi, ma è lui, anche se le esigenze dell’arte lo vogliono un po’ nebuloso. Se si togliessero da un capoverso quasi in fondo al romanzo due sole righe, forse intese a lenire un cocente rimorso, rimarrebbe al solo Bube, esecutore carismatico di una frettolosa giustizia, il penoso compito di esprimere giudizio: giudizio che non sarà poi negativo, se addirittura gli dispiacerà di sapere che il prete Ciolfi era morto di cancro.
In realtà il Dolfi non morì di cancro ma di cancrena, nel Maschio, per un femore fratturato dalle violente percosse e poco o punto curato, senza nessun processo e senza che ai fascisti gliene importasse un bel nulla.
Nel desiderio di dare una più equa dimensione ad uomini e cose ho chiesto oggi a buoni e cattivi di allora ricordi e impressioni.
Per molti era un buonuomo – Non se lo meritava – Fu una mascalzonata – Non aveva dato noia a nessuno.
Per pochi era un sudicìume.
lo – D’accordo, ma che cosa te lo fa pensare?
Lui – Era un prete… gli garbava le donne.
Io – Ti pare che basti per ammazzarlo?
Lui – Era un fascista?
lo – E’ vero. Un fascista come… ? Era un picchiatore? un prepotente, un arraffone? Una spia?
Lui – lo coi preti mi ce la san detta sempre poco. A me, veramente, non mi ha dato noia… di persona, non saprei dire.
Però, a quanto ho capito, la faccenda nessuno di noi volterrani ha piacere di rinvangarla, è scomoda e molesta. Neanch’io del resto, quasi un debito ormai in prescrizione è pur sempre un debito. Ma ora l’ho pagato e mi sento meglio.
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Piccola digressione. Agli albori del Novecento i protagonisti della monotona vita di questa contrada e di Palazzo Solaini erano altri; i ragazzi di allora, gli operai artieri, le loquaci comari sedute sui gradini della porta di casa di quel meandro di viuzze che fanno capo alla più centrale Via Ricciarelli ci catapultano in un immaginario alquanto impensabile al giorno d’oggi. Un tempo Palazzo Solaini era ridimensionato in piccoli quartieri a disposizione della povera gente ed il piano terreno con i laboratori per gli alabastrai, le stalle e le rimesse per i vetturali e barrocciai di passaggio e tante altre piccole cose.