La caduta del Fascismo

Da richiamato alle armi, la Caduta del Fascismo mi aveva colto a Firenze. Fatta eccezione per quanto avevo potuto dedurre da me o ascoltando i commenti fra la truppa, la situazione mi appariva tutt’altro che chiara. Ritengo che gli Ufficiali, inferiori o superiori, ne capissero molto di più.

Quel «la guerra continua» e «ad atti di guerra risponderemo con atti di guerra» dell’annuncio badogliano anziché fornire un barlume aveva ancor più ingarbugliato le cose. Ed ero più che certo che per i nostri condannati fosse riuscito di grande sollievo l’incarico di provvedere al mantenimento dell’ordine pubblico, incarico facile che esimeva dal dover pensare e decidere per un’iniziativa qualsiasi.

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Per oltre un mese la periferia fiorentina, ogni notte, aveva riecheggiato lo scroscio in cadenza dei nostri scarponi chiodati mentre noi, in pattuglioni di 30, si rappresentava l’unico segno di vita per le interminabili strade. Ogni tanto si fermava qualcuno, ma era sempre un fornaio, o un dottore, o un ferroviere, sempre muniti del relativo permesso. Di giorno si dormiva nella rimessa dei tram, vicino all’Affrica, consegnati, fra i pestiferi miasmi degli accumulatori sotto carica. E lì ci si annoiava, ma di notizie non arrivava quasi mai nulla: sembrava che dopo un po’ di subbuglio nei primi momenti, dopo qualche più o meno riuscito tentativo di linciaggio dei fascisti più compromessi, tutti fossero rimasti in attesa di qualcosa di nuovo, senza neppur sapere che cosa sperare. Si diceva pure che i pochi militari tedeschi, sorpresi essi pure, o stufi della guerra, o visto il caso tinto, avessero fraternizzato con la gente.

Ma di quel ch’era accaduto a Volterra non sapevo nulla. Qualcuno mi riferì poi che Beppino, che aveva l’ambulatorio all’angolo di Via Turazza, appena saputa la notizia, aveva spalancato la finestra e verso la Piazza dei Priori avesse gridato a gran voce (e la voce non gli mancava) la propria esultante soddisfazione. Ma non dovevano essere accaduti eventi sensazionali o di qualche rilievo, perché non ne ebbi sentore. Oggi i fatti sono tanti e persone di età cui mi sono familiarmente rivolto per evocare ricordi e impressioni del momento non mi avevano granché illuminato.

Non successe nulla. Dico nulla, naturalmente, in confronto a quanto ciascuno si augurava o temeva. Anche perché la notizia giunse la sera tardi del 25 e colse di sorpresa quei pochi che la conobbero.

Parecchi non lo seppero tant’è che il giorno dopo e, per averne conferma una piccola folla s’era riunita in Piazza, davanti alla bottega del Bartolini (l’attuale punto-vendita della Cooperativa Alabastro); c’erano vecchi fascisti ancora col distintivo all’occhiello, ancora in divisa o camicia nera, e fascisti all’acqua di rose, e pseudo-fascisti e gente qualunque. Attendevano la ripetizione del comunicato radio, che venne e fu ascoltata nel più silenzioso disorientamento. «Non successe niente». Non un’invettiva, non una minaccia, neppure sottovoce.

Quella sera era domenica e per loro c’era una cena al Nazionale; mangiarono e bevvero parecchio e tornarono a casa dopo mezzanotte… Quelli, di certo, non sapevano nulla.

Però un po’ di confusione ci fu in Via di Sotto. Qualcuno lo cercarono anche laggiù al Manicomio, ma non so cosa successe. In Via Roma, la mattina del 26 o del 27 un uomo andava all’Ospedale col viso sanguinoso. Non saprei dire chi fosse, ma ci andava da sé.

Minicchio, invece, si espresse diversamente: «Nei Borghi si seppe subito da quelli ch’erano usciti dal cine, e s’era fatta un po’ di manifestazione. Poi venne a bottega un carabiniere e mi disse che il Maresciallo Raciti mi voleva parlare. Mi toccò andarci, e in caserma mi raccattai anche un ceffone grosso così. Poi mi portarono al Mastio. Toccò anche a dell’altri (e mi ha fatto quattro o cinque nomi fra cui Mario Giustarini). Toccò anche a NeIlo Bardini e a Emilio Grandoli, ma quelli li portarono a Firenze, mentre io finii a Pisa.»

La testimonianza mi lasciava perplesso sull’attendibilità completa in rapporto al momento. Erano passati tanti anni e a Minicchio ponevo un riferimento preciso: il 25 luglio del 1943; al massimo il 26. Cercavo di farlo ricordare, di non confondere un momento con un altro: prima prima del 25 luglio? O dopo? O l’8 settembre? O dopo ancora?

Minicchio insistette per la prima versione.

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La figura del Maresciallo dei Carabinieri del tempo non era facile inquadrare in una cornice di logica. Raciti, fino ad allora, notoriamente non era stato uno stinco di santo (poi diventerà anche peggio). Era stato un rigido applicatore di coercitive disposizioni e di suo ci aveva aggiunto tale durezza da renderlo inviso ai suoi stessi collaboratori. Lo si diceva corrotto e corrompibile con un salame o un fiasco d’olio. Fascista per convinzione personale o per ragioni d’impiego, o per tornaconto, agiva in perfetta armonia coi gerarchetti della piazza e non si faceva pregare per dargli una mano.

L’arresto di Minicchio e degli altri si può anche spiegare: superiori disposizioni generali per l’ordine pubblico, coprifuoco, pattuglie raddoppiate e sacramentale «circolare, circolare», permessi notturni a fornai, medici, levatrici, infermieri, …ma quel ceffone?

Qui il personaggio esce davvero di logica: disinformato? Forza dell’abitudine? Incoscienza? Voltagabbana da battibaleno? Donchisciottesco paladino che s’illudeva di rialzare con le proprie spalle tutto il crollato Regime? Perché non è pensabile in lui tale lungimiranza da fargli prevedere, allora, che dopo un paio di mesi si sarebbe trovato ancora in sella e con coltello dalla parte del manico.

A Roncolla risedeva un Comando di Corpo d’Armata e ai Cappuccini era acquartierato un reparto di Bersaglieri, con probabilità a disposizione del Comando stesso, e che furono naturalmente impiegati di pattuglia in servizio di ordine pubblico. Così fino all’8 settembre e a tale data questi militari, più fortunati di tanti loro commilitoni, poterono con facilità disimpegnarsi e tornarsene a casa. Il Comando sparì, così com’era venuto.

Fra il 9 e il 10 i volterroni richiamati o in servizio di leva, che erano riusciti a rimpatriare col treno o con la Sita, al loro arrivo avevan la brutta sorpresa d’essere accolti e raccolti dai Carabinieri e accompagnati in Caserma, in Via dell’Ortaccio e trattenuti in quell’angoletto, allora chiuso dal muro, ch’era davanti all’autorimessa. Non sembra che fossero usate violenze e dopo una laboriosa registrazione di nomi, cognomi, reparti e indirizzi, nella giornata del 10 furono rimessi in libertà. Giusto in tempo, perché nel pomeriggio giunsero i tedeschi, e occuparono la Piazza, e misero mitragliatrici a ogni sbocco.

Il Maresciallo Raciti, sapeva, o non sapeva? Fu per caso, che Ii lasciò andare, o non si volle addossare anche la criminale responsabilità di consegnarli ai tedeschi?

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© Pro Volterra, LORENZO LORENZINI
“L’altalena del ’43”, in “Volterra”