Di giorno maestro, di sera sovversivo

Da richiamato alle armi il mio reinserimento nella vita cittadina non presentò eccessive difficoltà. A onor del vero mi sentivo un po’ spaesato anche se la mia assenza non datava da molto. Al rientro, la prima visita la feci a Umberto Borgna, lassù al Giardinetto. Ci si conosceva da anni, da quando io ero ancora un ragazzetto, e lui era stato sempre la mia ammirazione: era un bel giovane, aveva fatto la guerra del 1915, era distinto di modi, colto, abilissimo ballerino e pattinatore. Ne provavo soggezione. Poi fui accolto anche dalle sorelle e fui come di famiglia per anni e anni, mattina o sera, partecipe di ogni lieta o triste vicenda, anche minima, anche di quelle che si chiudono gelosamente fra le pareti domestiche.

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Non ricordo esattamente la data, ma son certo di non errare di molto se la pongo al 12 settembre. Fui accolto con la cordialità consueta e la nostra conversazione s’imperniò sulle vicende del momento. lo raccontai di Firenze, poi fui informato di quant’era accaduto durante la mia assenza, tutto quel che avviene fra ottimi amici che si ritrovano.

Umberto, però, doveva aver assunto già da tempo un atteggiamento politico, e forse già era in contatto sul posto con altri che dalla caduta del fascismo si attendevano sviluppi poi non verificatisi, e che ora intendevano dare un indirizzo agli eventi, facendo qualcosa.

Ma tutto questo non lo sapevo, tant’è che fino ad allora la mia avversione al Regime, più che sul piano criticamente ideologico, poggiava su precedenti che mi avevano toccato da vicino, o che avevano toccato miei amici; ma che investivano direttamente i gerarchetti del luogo presso i quali da qualche anno non godevo più fama di elemento gradito e malleabile. Anche per certi screzi, per certi rifiuti, per certi scontri, lì per lì accantonati con un – beh, pazienza! – ma tenuti in serbo da una parte e dall’altra.

Son sicuro che non mi parlò subito della sua attività mentre io, ormai a casa e non eccessivamente preoccupato per la mia precaria posizione militare, non gli feci mistero della mia rabbia per lo sfacelo dell’Esercito, per la rinuncia alle possibilità difensive e offensive di cui disponeva. L’avevo un po’ con tutti: in primo luogo coi tedeschi che non avevo mai potuto soffrire, e coi fascisti; ma anche coi nostri capi e anche cogli Alleati. Provavo un senso molesto di umiliazione anche per la mia fuga, umiliazione assurda, se si vuole, ma che le notizie di sporadiche, sanguinose e accanite opposizioni di certi reparti rendevano più cocente.

Ho qui sott’occhio il numero unico stampato sotto la data del 9 luglio 1954, ricorrenza del Decennale della liberazione e vi figura un articolo a firma di Umberto, dal titolo «Il C.L.N. di Volterra», che comincia con queste parole: – Non è compito facile ricordare uomini e fatti ormai lontani nel tempo… Era vero già allora, che erano passati solo 10 anni, e l’articolo stesso, nel contesto e nella citazione delle date «lontano ottobre e nel dicembre 1943», dà l’impressione che l’estensore sia stato tradito dalla memoria per una più esatta collocazione dei fatti nel tempo.

Il C.L.N., sia pure senza la sigla ma con identici scopi doveva essere sorto già prima del dicembre, data della sua costituzione ufficiale, e prima anche dell’ottobre, momento fissato da Umberto per gli incontri clandestini in casa di Gigi Fanucci, perché fra il 15 e il 30 di settembre io ero già andato nel bosco di Tatti con Cùccheri, Bibbia e Renzo Ricci (in sostituzione di Còrso Picci, momentaneamente fuori di Volterra) che era con noi solo per conoscere l’itinerario e far da guida al fratello maggiore in caso di sopravveniente necessità.

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Beppe Giudici, mio cognato, come più esperto dei luoghi, ci accompagnò fino alle prime propaggini della macchia e presi accordi per eventuali messaggi tornò indietro. Noi si rimase sei giorni nel bosco. Altra occasione si presenterà per trattar l’episodio: m’è venuto di ricordarlo soltanto per chiarire come già allora Umberto perseguisse uno scopo preciso, certo in accordo con altri, se m’aveva dato incarico di tale spedizione, tesa a reperire vecchi capanni di carbonai abbandonati, e in qualche modo riattarli, dove far rifugiare momentaneamente giovani soggetti a coscrizione militare od altri comunque obbligati a lasciar la Città.

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Si avvicinava a gran passi l’apertura delle Scuole elementari e ciò costituiva per me, titolare da poco in San Lino, un bel pasticcio: rientrare in servizio facendo finta di nulla su quel che facevo di nascosto, voleva dire riscuotere uno stipendio (che poi riscossi solo 8 mesi dopo), ma anche essere imbottigliato in un’aula, ad ora fissa e per conseguenza a completa disposizione di chi avesse gradito pescarmi: non rientrare valeva dire non solo rinuncia al mangiare per me e per i miei, ma anche dar subito nell’occhio, giocare a carte scoperte una partita in quel momento perduta.

Era Direttrice la Signorina Baldini (se pur non sempre serena) mia buona amica, colta, intelligente, ma acuta nei suoi giudizi anche politici. Da parecchio lei aveva visto più lontano di molti, e imprudentemente non faceva mistero di critiche e previsioni. Forse proprio per questo, pur se la mia ancor nebulosa visione di un auspicato futuro non sempre aderiva alla sua, ci sentivamo vicini nella trepida attesa.

Ma a San Lino non ci s’era soltanto noi due: nell’ambiente scolastico, per anni e anni amorosamente coltivato dal Regime come vivaio di gregari con cui quadrare le baldi legioni, s’incontravano persone di vario sentire. Le anziane, agnostiche politicamente e, semmai di ispirazione religiosa, costituivano la maggioranza e, sia pure senza entusiasmo, si erano adattate a legar l’asino dove voleva il padrone. E in quel periodo, dopo lo scossone del 25 luglio e della caduta del fascismo, nessuno più sapeva dove l’asino si dovesse legare: una posizione d’attesa e un gran desiderio di restare nell’ombra più che possibile.

La Diomira invece, carattere autoritario poggiato su di una lunghissima tradizione di fascismo antesignano, che solide radici di ambiente avevano sollevato ai più alti fastigi raggiungibili nella professione, s’era subito ripresa. Non solo, ma resa più aspra dalla bruciante umiliazione poco prima subita. Aveva intravisto la possibilità di un ritorno in auge, con in più la grande occasione di salvare un’altra volta la Patria e d’impugnare le redini di tutta la scuola. Così la Direttrice Baldini, insidiata, minacciata, spaventata da quanto poteva pioverle addosso, altro non poté fare che sparire e rifugiarsi presso amici in qualche posto del pomarancino.

Nella scia della Diomira s’era mosso anche Giulio, collega di mite carattere, forse in buona fede, ma incapace di odio. Gli avevo detto una mattina nel corridoio: – Giulio, vendila, la divisa da capomanipolo, ora ci pigli qualcosa; tra un po’ non ci pigli più nulla. – Ero certo di non rischiare e lui ci aveva fatto una risata. In seguito si lasciò invischiare di più e accettò di essere Delegato alla Firma dello Stato Civile nell’effimera amministrazione repubblichina. Mansione più che altro decorativa, ma che poi gli fu fatta pagare un prezzo sproporzionato, come succede sempre ai pesci piccini. E io cercai di aiutarlo, e poco dopo morì, giovane, lasciando una moglie e tre bimbi piccini.

La scuola elementare s’era riaperta forse con qualche giorno di ritardo; il Maresciallo Graziani aveva già fatto il suo discorso a Roma il 25 settembre, i vecchi fascisti, forse loro stessi meravigliati che le cose fossero andate così lisce, timidamente riprendevano fiato, i tedeschi procedevano tranquilli ad una loro duratura sistemazione in Città.

Sui muri apparivano i primi manifesti che invitavano gli sbandati alla ricostituzione dell’Esercito, e si rivolgevano agli sbandati perché si presentassero di nuovo ai Distretti, e facevano leva su sentimenti di lealtà e di onore che non commuovevano più nessuno. Il Maresciallo Raciti diventava sempre più maresciallo.

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Dall’incerto magma di vecchio, nuovo e nuovissimo, intanto emergevano anche figure rimaste fino a poco prima in secondo piano, che si davano subito gran d’affare per stimolare e incoraggiare dubbiosi camerati, già troppi esposti, che ora non credevano più, che non se la sentivano di aggiungere altre responsabilità a quelle purtroppo già maturate in passato.

Tra i primi era il tristemente ben noto «Sor Luigi» e accanto a lui incredibile, (ché era stato fino allora un bravo ragazzo), Renzo il ragioniere, e Manlio, che non avevo mai visto prender nulla sul serio, né famiglia, né impiego e nemmeno il fascismo: ne potrebbero ancor oggi far fede certi suoi scritti mordacemente satirici, assai diffusi, che non avevano risparmiato nemmeno i gerarchetti locali. E accettò di diventare Podestà.

Una specie di smania, quasi un sacro furore (che però poteva anche essere paura d’una resa di conti) spinse in ribalta anche come Testine, Miliotto, Gote, il Buzzaio e ancora e ancora di già navigati. Ma la corrente trascinava anche giovani e giovanissimi, da poco o non ancora usciti dalle file degli avanguardisti, la cui preparazione politica non andava più in là degli slogan ufficiali stampigliati sui muri e siglati con una «M» maiuscola.

Che cosa esattamente volessero probabilmente neppur loro sapevano, se si toglie l’ambizione a primeggiare, sopraffacendo chi non poteva reagire con una sguaiata prepotenza che sbandieravano come coraggio ed altro non era se non ombra portata dell’appoggio tedesco. Basti citare il Gatto, Carlo, Giampaolo, Boccale ed altri più giovani, quasi ragazzi, E guai, purtroppo, anche grossi, ne fecero: in ultima analisi forse più a se stessi che agli altri, ché seminarono odio e poi ne raccolsero frutti abbondanti.

Sui muri spiccavano proclami che intimavano la consegna di tutte le armi, da guerra e da caccia, pena le più severe sanzioni e, come prevedibile, fu subito un affannoso nascondere di doppiette, e un sostituirle con vecchi catenacci, che presero la via della Caserma dei Carabinieri. Di armi da guerra c’era ben poco: solo qualche fucile scassato, cimelio di guerre trascorse, rimasto in casa come ricordo, e le pistole d’ordinanza, dotazione di ex-ufficiali. Ma di queste, poche, poiché molti erano richiamati e le avevano con sé.

Chi le considerava roba troppo scottante ma nello stesso tempo voleva eludere l’imposizione, le passava di nascosto ad amici e conoscenti più arditi.

Le direttive che ricevevo da Umberto erano appunto di raccoglierne più che potevo e di consigliarlo agli amici: comunque di non farle consegnare.

La Signorina Bianchi, mi ricordò, mi chiamò per affidarmi un fuciletto da capanno e un antico Veterly, lungo come la fame, che ci fece ammattire, me e Antonietta, per trasferirlo, di giorno, da S. Michele ai Marmini da Cassola: lo portava lei, indossando un mio impermeabile per mascherarlo, ma a capall’ingiù, la canna picchiava in terra; a capall’insu, sporgeva di mezzo metro sopra la sua testa. Non credo che, malgrado ogni possibile disinvoltura, si sia potuti passare inosservati.

Mino Bessi mi fece avere una bellissima pistola a due canne, tipo sceriffo del West, tutta ricamata in argento che era una bellezza, lunga mezzo braccio e con certi buchi di canne, che c’entrava benissimo un toscano e i fiammiferi per accenderlo.

L’allora «maestrino» Innocenti, che abitava nella villetta del Mori, mi portò laggiù nel boschetto e lì mi affidò una 6,35 che tolse di sotto un mattone, già un po’ rugginosa, ma a quanto sembrava ancora efficiente.

Notevole il fatto che si trovavano armi, ma niente cartucce. Problema questo che rimarrà quasi senza soluzione fino in fondo, anche se Valentino Cossio che aveva la ferrareccia per lo Sdrucciolo di Piazza, prima di obbedire al bando, mi chiamò in bottega e mi regalò, dico regalò, tutte le cartucce di tutti i tipi che aveva fatto sparire dall’inventario. Bel gesto, senza dubbio, ma più che altro simbolico, perché quasi nessuna, per calibro e forma, si poteva cacciar nelle canne.

Il nostro arsenale, che poi costituì il primo armamento degli organizzati in Città, comprendeva anche due belle pistole da duello, cromate, ma a un colpo solo, una walter 6,35 da signora e una rivoltella a tamburo a canna corta, con ben sei proiettili, che poi diedi a Tobia quand’era nel bosco, perché l’adoperasse in caso disperato.

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© Pro Volterra, LORENZO LORENZINI
“L’altalena del ’43”, in “Volterra”