«Dichiaro inoltre di essere di pura razza ariana e che non lo sia nessuno dei miei ascendenti, fino alla terza generazione.»
Così concludeva la domanda per ottenere un incarico d’Insegnante nelle scuole elementari cittadine. Naturalmente prima avevo dichiarato anche di essere iscritto al P.N.F. e di essere addirittura membro del Direttorio di Volterra in qualità di Fiduciario del N.U.F. (Nucleo Universitario Fascista).
> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano
Con quest’ultimo attributo, veramente, avevo un po’ barato, perché tutto si riduceva a sostituire Fabio per un paio di mesi nel non far nulla, compito che assolsi io brillantemente, fino al suo ritorno. Ma insomma, il posto io l’ebbi, e a San Lino. E s’era nel 1938.
Però conoscevo due persone, qui sul Poggio, che quel discorso della razza ariana non l’avrebbero potuto sottoscrivere, e se si fossero provate sarebbe andato peggio che mai: Liana Millù e Emerico Lukacs.
> Prosegui, Ti presento Liana Millù
M’incontrò Guido, quello della Questura, e mi disse senza tanti preamboli:
– Li vogliono arrestare. C’è una nota lunga. Una trentina.
– Chi? – dissi io.
– Non me li ricordo tutti. Non ho fatto in tempo a copiarla, l’ho letta in furia. In cima c’è Tobia, e subito dopo c’è Beppe, c’è anche Arnaldo un po’ più in giù. Prima di lui dell’altri, e dopo anche dell’altri. Appena lo so te li dico.
Emerico Tobia Lukacs, invece, ha una storia più corta. Era ormai da anni a Volterra, neo-professionista e delle prime e ormai lontane diffidenze verso lo straniero nessuno ormai più si ricordava. Ammesso e anche gradito, partecipava alla vita cittadina, talora addirittura sollecitato a capeggiare iniziative. Frequentava il Circolo dove s’incontrava la «élite» tutta fascista, naturalmente, ch’era inconcepibile una posizione diversa. Forse l’unico a non avere la tessera era proprio lui. Non perché non la volesse, ma più che altro perchè… è vero che ancora non si parlava di arianesimo… ma insomma… e poi perché cercare complicazioni. Tanto, fra amici, chi va a vedere. Anche il Sor Luigi era d’accordo, né lo respingeva quando prendeva posto al tavolo verde.
Tobia era anche sportivo ed io ci avevo fatto amicizia proprio per questo. C’era un campetto da tennis laggiù a San Giusto e ci s’andava più che altro io e lui, ma ci veniva anche la Giovanna e la Silvana e Antonietta e Enrico e qualche altro. Spesso c’era anche Quagliata, il Capitano della Milizia, e lì si giocava amichevolmente, sia pur da schiappini, come s’era un po’ tutti.
Un giorno venne anche Fabio e mentre si tornava in su, a piedi, io e lui, proprio davanti al Ricovero, se ne uscì con questa frase: – E’ l’ora che tu la smetta. con quell’ebreaccio! –
Fu la prima volta che sentii manifestare aperta ostilità verso il mio amico, e in forma così rozza. Non seppi rispondere, ma da quel momento Tobia diventò una faccenda mia personale.
Nei suoi confronti continuai come prima, ma non mi fu difficile accorgermi che intorno a lui si stava creando del vuoto, malgrado che per matrimonio avesse acquistato un suocero di provata fede fascista, «sciarpa littoria» e, a quanto pareva, addirittura in dimestichezza col Duce.
Del resto, anche lui se n’era accorto e cosi, prima che qualche altro con la delicatezza di cui sopra glielo dicesse, s’era ritirato in buon ordine. E intanto fioccavano e s’inasprivano le leggi razziali: fuori dalle scuole!, fuori dagli uffici pubblici!, fuori dai ritrovi!, fuori!. Ad un certo momento fu, anche loro proibito di possedere la radio che doveva essere consegnata al Carabinieri.
A questo punto volli intervenire: andai in Caserma e dissi al Maresciallo Raciti che avrei smontato e ritirato io stesso il complesso radio, lasciando solo il mobile col giradischi. La legge non parlava di musica riprodotta, e lui accettò, ma subordinatamente al consenso del Sor Luigi. E questi, al Circolo mi guardò male e poi disse: – Va bene, fa’ come ti pare. – Eseguii lo smontaggio con ogni cura, pur sapendo che il mio agire non era altro che irritata protesta, perché privato del gruppo radio-amplificatore, il giradischi da solo non avrebbe servito a un bel nulla, né io avevo la capacità di operare alcuna utile trasformazione.
Poi le cose peggiorarono. lo fui ancora richiamato, Tobia dovette chiuder casa e ambulatorio e rifugiarsi a Montecatini, dove lo andai a prendere il 18 Ottobre del 1943.
Il terreno cominciava a scottare, e lo sapevano tutti dov’era. Al tempo si trovava in cima alla lista, e farlo sparire non era semplice, ché una persona non è un capo di spillo, e poi, conosciuta da tanti. Ma in tutti i modi bisognava levarlo di lì, e poi si sarebbe visto. Una decina di chilometri in discesa e quattro in salita, per me che andavo, sia pure con una bicicletta incrociata fra “da passeggio” e “da corsa” non costituivano problema; però lo divenivano per due che tornavano, specie se Tobia mai aveva premuto un pedale. E bisognava giungere a buio, ma che non fosse tanto buio, da incappare nel coprifuoco. Nel suo tranquillo rifugio, che poi era casa sua, un po’ fuori del paese, arrivai stronfiando allorché, biciclo in spalla, avevo preso la scorciatoia per non farmi notare. La mia visita fu scambiata lì per lì per una delle solite. Mi mostravo tranquillo, e non volevo allarmare, perché c’era una moglie e due bimbi piccini, e una suocera e un suocero, ancora ottimisti.
Però, appena soli, dovetti esser chiaro. Subito, voleva dir subito, con me. Senza perdere un minuto, per non doverlo rimpiangere, e come. Coi bimbi, silenzio assoluto; il suocero invece non si voleva convincere:
– ma c’era anche un altro, proprio lì vicino. E nessuno gli dava noia, e perché tanta furia!
Anche Tobia la mummiettava, e fu allora che mi feci duro e spietato:
– Va bene, me ne vado. Arrangiatevi. Ma se va male, non contate su me: non potrei far più nulla.
Se andava male, andava male davvero! Avevo portato con me un telo da tenda, di quelli mimetici, e questo vuol dire che qualcosa dovevo aver già progettato. Difatti poco dopo quel telo era diventato un grosso fagotto con dentro vestiti, biancheria, libri, roba da mangiare, e… che so io?
Legato per le cocche, me lo portavo a spalla con le braccia infilate fin sotto le ascelle, come uno zaino informe e mostruoso. Non era pesante, ma dava fastidio, con quel suo scomposto dondolare, specie sulle svoltate, tanto più che lui l’avevo in canna e la strada sterrata pareva un maggese. In discesa, giù, sbìsciando per scansare le buche più grosse e il brecciame; in quei pochi pianerottoli, a pigiar sui pedali; in salita, vale a dir quasi sempre, a piedi tutt’e due.
Cominciava a scurire quando da Citerna s’attaccò per le Piagge, una pettata da sputar l’anima. Il viottolo franoso, e in parte franato, non si distingueva più bene, anche per certe toppe di loglio che mascheravano le buche, e la bicicletta in una mano, e quel fagotto sul groppone mi davano noia. Ma mi dava noia di più la paura di far tardi e d’inciampare in qualcuno che era bene non ci vedesse.
A metà rampa, era finito. Non il viaggio. Lui, Tobia. Io tiravo lungo e lui mi seguiva, zitto, affannato per l’inconsueta fatica, e di tanto in tanto, e poi ogni poco, mi fermavo per prendere fiato e fargli coraggio.
– Su, gli dicevo, ancora un po’ e poi si trova la strada buona. Lì ci si riposa.
Poi, la tragedia. Bastò un ciuffo d’erba che pareva erba ma era invece una buca, e sparì con un gemito soffocato, sotto il viottolo. Un ruzzolone da poco, forse da mezzo metro, e nemmeno di picchio, ma nel buio. Mi liberai dagli impicci, gli andai vicino.
– Niente di rotto?
– No.
– Meno male. Hai avuto paura?
– No, no.
S’era impaurito, invece, e trovava difficoltà a risalire l’argine, poco più che un gradone.
– Ma cos’hai?, chiesi ancora, dammi mano; sali, il viottolo è subito qui.
Nella semioscurità lo vedevo atterrito e quasi lo sentivo tremare.
– Ma cos’hai?, chiesi ancora.
– Ho perduto gli occhiali. Non vedo più.
– Mancava questa, ora! Dove sei cascato? Più avanti o più indietro? Cerca di raccapezzarti.
Lo feci sedere e mi misi a cercare, più che altro a tastoni, sempre nella speranza che un qualche luccichio mi guidasse. Un paio di cerini non servirono a nulla: anzi, era peggio. E poi, poi li trovai, e glieli resi. Bastò perché si riprendesse.
La strada continuava a salire, ma ora era larga e più liscia. Poche case. Dalle finestre stoppinate, ogni tanto, una fessura di luce. Gli parlavo sottovoce, più che altro per farlo parlare. Mi spiegava che i miopi, non soltanto non distinguono con chiarezza i dettagli, ma che nell’oscurità la capacità visiva gli si riduce di molto.
S’era al boschetto del Mori. Dal lavatoio di Santo Stefano, per il viottolo sotto il muro, s’arrivò a San Felice che ci aspettava qualcuno per la stradetta di sotto Ponti. La mattina dopo del 19 Ottobre, prima di giorno, un barroccino lo portò al Tignano dei Massetani, dove ci stava Ugo che s’era accordato coi Marrucci, parenti di Tobia, per farlo nascondere in una casa colonica, fuori della fattoria e già addentrata nel bosco.
Quando andai a trovarlo per la prima volta dovetti farmi indicare la strada, se strada si poteva chiamare quella specie di viottolo motoso che menava alla Baracca (così si chiamava il podere), nome già di per sé abbastanza significativo. Era di là del Sellate e così affogato nella macchia, che non si vedeva nemmeno da dieci passi. Ci stava una famiglia di contadini: Beppe, Mimmi, sua moglie e un ragazzetto di nome Bruno.
Di loro non ho ricordo alcuno, se si eccettua di un esasperante mutismo rotto solo da qualche «sì». «no», «già». Bruno bestemmiava come uno grande e ciò non piaceva a Mimmi, suo padre, che lo redarguiva:
«Brunino, ‘un bestemmiare, Dio…» E giù un moccolo! Un po’ mi faceva anche ridere.
A Tobia (è da questo momento che cominciò a chiamarsi così) avevo portato la pistola, quella cromata, a tamburo e l’avevo diligentemente istruito: «esplora la macchia e studia tutti i sentieri. Cercati anche un nascondiglio, magari fattelo con le zolle.» Gli avevo insegnato ad intrecciare i rami, come I carbonai – «e non ti far vedere da nessuno. E se vedi venire qualcuno in divisa, te corri subito nel bosco e nasconditi. E se ti scoprono, allora, svelto, scappa, e se stanno per raggiungerti, te voltati un pochino, ma soltanto un pochino, e sparagli addosso e poi seguita a scappare. E sta attento a non perder gli occhiali.» Gli parlavo con tono di comando, perché lo vedevo titubante. «Ecco. questa è la pistola, ci sono sei colpi. Ora sparane uno contro l’albero, così per provare, ma uno solo.»
Lo vedevo impacciato e spadellò anche l’albero che era grosso e vicino, ma non lo scoraggiai.
«Va bene così, gli dissi, e mentre scappi tiragli addosso, così per un po’ li fermi. Ma non te ne dimenticare.»
Pedalando sulla via del ritorno, in quella pistola non ci avevo punta fiducia.
A lasciarlo solo non mi fidavo. Antonietta aveva avuto il posto a Riparbella ed io corsi al Provveditorato e chiesi che glielo cambiassero: «Troppo pericoloso», dicevo, «ci passano gli aeroplani, e c’è la ferrovia, mitragliano… Meglio un postaccio lontano e scomodo, da andarci a piedi, ma con meno paura.»
Sapevo che era ancora libera la scuola di Ponsano, e gliela feci avere. Dieci chilometri all’Indicatore, e altri sette o otto all’Incasso, e poi altri due o tre. Tutti a piedi o in bicicletta, ma era sull’orlo del bosco e a poco più d’un tiro di schioppo si vedeva il Tignano. La fattoria era di Alvaro, fratello di Ugo, e anche lui sapeva.
Il 5 novembre Artibano, col gassogeno, ci portò tutti là: Antonietta, sua sorella Marisa e i miei bimbi. Il permesso di viaggio ce lo aveva fatto avere dai tedeschi il prete Dolfi. Loro rimasero, e la sera io tornai a casa.
Da allora in poi, nel pomeriggio, la mia bicicletta non conobbe riposo: venerdì, a Montecatini e ritorno, per notizie e rifornimenti; sabato a Ponsano, con doppio rifornimento (per i miei e per lui), due visite d’incoraggiamento a lui (tre chilometri l’una, a piedi, e di mota fino all’occhi); domenica sera, a Volterra; lunedì di nuovo a Montecatini.
Il 28 novembre, di sabato, ci avevo portato Biba, sua moglie, che stava in pensiero. Si avviò da sola, a piedi; la raggiunsi dopo San Lazzero e la feci salire, ma la strada era tanta e ci si mise un quattr’ore. Poco prima della Baracca c’era da passar le Sellate, e per l’appunto c’era un po’ di piena perché era piovuto. A buio fitto non riuscivo a trovare il guado, sentivo l’acqua scorrere da tutte le parti, e la lampadina tascabile che aveva lei sembrava facesse più buio che mai. E allora non mi restò che prenderla in collo ed entrare nell’acqua. A tentoni e dirigendomi a lume di naso mi riuscì portarla di là, quasi asciutta.
L’incontro fra i due non era cosa che mi riguardava: io mangiai come un lupo tutto quello che c’era e la notte dormii male e infreddolito, su un saccone di foglie di granoturco.
Biba tornò un’altra volta, verso Natale, mi sembra, con qualche mezzo e per il ritorno s’aveva appuntamento al Tignano. Come al solito era piovuto, ma splendeva un bel sole, e nell’andare per la viottola a orlo di bosco, vidi laggiù lontano due figurine che s’agitavano in mezzo a un coltivo. Per intuito affrettai il passo e li raggiunsi. Naturalmente erano loro, avevano perduto il sentiero e s’erano infilati nella mota: lei, impacciata anche da una valigetta, cercava aiuto da lui e lui gliel’avrebbe anche dato se gli tosse riuscito spiccicarsi da quella paniccia.
Li tirai fuori, ma lei ci aveva lasciato una scarpa, e ci volle del bello e del buono per riaverla, e ridotta da far pietà.
Il segreto pareva reggesse. A Volterra non lo sapeva nessuno, ma là più d’uno se n’era ammoscato e a mezzo gennaio Antonietta mi disse: «Sono stata giù nella bottega del Manni e la sua figliola, di certo con intenzione, mi ha detto che il Paglianti darebbe non so cosa per sapere dov’è nascosto il dottore».
Un bel guaio. Poco lontano, alla Casa al Vento, s’era acquartierato un gruppetto della Milizia; c’era odore di rastrellamento; in Dispensa bazzicava spesso Severino, che non sapevo da che parte pendesse. Anche se era al corrente, poi risultò che della cosa non aveva fatto parola.
Così il 18 di gennaio, di nuovo in sella, con due biciclette, una ce l’aveva prestata Alvaro. Tobia barbuto, con un berrettaccio calato sugli occhi e una cacciatora, nella speranza di non inciampare conoscenze. A buio s’era alle Mura e dalla porticina s’entrò nell’orto. E poi, zitti zitti, per le scale, su in casa mia.
Di colpo, con uno spintone, lo rivogai in camera e chiusi l’uscio: proprio davanti, per fortuna, di spalle, m’era apparsa la Bianca.
Chiacchierava, chiacchierava, e mamma non riusciva a spiccicarsela.
Poi, come Dio volle se n’andò e Tobia poté uscire. Più morto che vivo per lo spavento e intirizzito per il sudore rappresso in quel gelido ambiente.
Il giorno dopo spedii anche mamma a Ponsano, per non aver motivo di visite, e così si rimase io, lui e la Carmela. Della quale in altra parte ho detto che fu d’oro e a buona ragione perché non solo mantenne il segreto, ma da commediante perfetta, riuscì a sviare sempre ogni sospetto nel vicinato.
La più curiosa era la Ines, quella di sopra.
«Carmela, che ci ha gente, in casa?»
«Mah? Sarà il signore (sarei stato io), chi vuoi che ci sia.»
Poi chiudeva la porta e metteva il paletto.
Tobia restò così ingabbiato fino al primo d’aprile. Si muoveva cautamente in pantofole, parlava sottovoce, non si affacciava mai alle finestre, leggeva. Ma più che altro aspettava me per avere notizie, per giocare a scacchi, per chiacchierare. Ed io facevo la solita vita, anche per non dare nell’occhio, e la solita spola: Montecatini, Ponsano, Montecatini. C’erano anche vari problemi e uno era quello di fargli i capelli, operazione che richiedeva un paio d’ore, ma in compenso c’entrava anche ridere: lui con in mano uno specchio e io con le forbici, e a ogni forbiciata un passo indietro per giudicare. Non veniva un capolavoro.
Quando nel marzo del 1944 restò ferito Pulina, volevo cercarlo e portarlo a casa e se ne discusse. Un po’ anche mi c’arrabbiai.
«Se lo trovo, dicevo, lo porto e gli tagli il braccio.»
«Ma io non lo so fare, e poi son tanti anni…»
«Non importa: te sei dottore e io t’aiuto. Mi dici cosa ci vuole e io te lo porto, ma te, il braccio lo tagli, e leghi, e cuci.»
«Ma io…»
«Non c’è ma che tenga!»
Poi non ce ne fu bisogno, che Pulina non ce la fece e dovette andare all’Ospedale.
Il primo d’aprile a sera due militi vennero a prendermi a casa, io non li feci entrare, uscii subito e Antonietta mi seguì. Nessun accenno a Tobia, e questo voleva dire che il segreto era ancora segreto. A notte mi portarono al Maschio e Antonietta tornò a casa, accompagnata da Pappino, per via del Coprifuoco, e sentendo due passi per le scale, e uno chiodato, mamma aprì l’uscio e Tobia, sollevato da tanta paura, alle sue spalle esclamò: «Finalmente siete tornati!»
> Prosegui, Un po’ in prigione ma quasi per celia
C’era poca luce e Pappino non capì, diede la buona notte, voltò e tornò via.
Da quel momento toccò tutto a Antonietta. Non sapeva quanto «loro» sapessero, e c’era da aspettarsi anche una perquisizione. Si consigliò con Umberto. La Licia Bessi offerse due sue stanzette disabitate nel Chiostro di San Francesco, ma non si prestavano, e la cosa era urgente. Infine ne parlò ai suoi che dopo qualche titubanza accettarono e complice il buio, a braccetto a Marisa, passò Tobia davanti ai Carabinieri per trasferirsi nell’Ortaccio, dai Giudici.
E lì rimase fino al 15 maggio.
Quando venni liberato, il fronte si avvicinava e si prevedeva che tra non molto lui si sarebbe trovato meglio coi suoi a Montecatini. Ci andai e in casa sua si preparò un nascondiglio: c’era un soppalco cui si accedeva per un vano nel muro. Ci si addossò un armadio e di questo rimossi e incernierai un pannello del dietro. La camera era al secondo piano; i bimbi non si accorsero di nulla e fu loro proibito di salire di sopra.
Quando ormai si sentiva tuonare il cannone durante un allarme, la sera, si uscì dalla Porta, e giù per Santo Stefano fin sotto il boschetto del Mori. Lì c’era il Sor Emilio che ci aspettava e se lo rimorchiò fino a casa.
Eppure il diavolo ci volle metter la coda ma fu assai benevolo: quando i tedeschi nel ritirarsi si attestarono a Montecatini, scelsero per loro quartiere proprio quella casa, e al nostro o Tobia non restò che uscir fuori all’aperto, coi suoi, come un cristiano qualunque. Ma ormai tutti avevano da pensare a altro e nessuno ci fece caso.
A cose finite venni a sapere che i suoi bimbi, nell’ultimo periodo di paura e speranza, più d’una notte sognarono che il babbo era tornato, e gli pareva perfino che li avesse baciati.
> Prosegui, Un po’ in prigione ma quasi per celia