La prima voce che corse – ci sono i partigiani – mi giunse nell’androne del Palazzo Solaini mentre già si sentivano le schioppettate che venivano dalla Piazza dei Priori. Via Sarti s’era già fatta deserta e stupore e paura si leggevano evidenti nell’espressione e nei movimenti di qualche ritardatario che si affrettava ad entrare in qualche uscio ancora aperto. Il mio primo pensiero fu che qualcuno dei nostri fosse indotto in modo sconsiderevole ad uscire per partecipare all’azione e allora, percorso il breve tratto di Via Buomparenti, dal vicoletto dell’Oro fui subito in Piazza. Era completamente deserta, se si tolgono i militi che sparavano in aria a casaccio. Davanti a me si parò Miliotto, anche lui armato, con un’aria feroce e spaventata, che m’intimò qualcosa, e intanto sparava. Mi pareva, in direzione del Porcellino, quello sulla torre.
> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano
Con una rapida occhiata m’ero reso conto che quanto m’interessava era a posto e imboccato l’Ortaccio fui in Via delle Prigioni proprio nell’istante in cui ne scendeva un’autoblindata tedesca sulla quale, in piedi, uno di loro sparava in aria a brevi intervalli con la pistola. Il mezzo procedeva a passo d’uomo e confesso che quelle botte rimbombanti alle mie spalle mentre andavo verso Via Sarti, mi davano la smania di correre. Ma il buon senso mi suggeriva di non farlo e allora, pur camminando spedito, ogni poco e nella speranza di farmi sentire malgrado lo sferragliare della macchina, mi voltavo indietro e gridavo: – Ich gehe zu Haus, ich gehe zu Haus! – Il tedesco, o capì, o di me se ne fregò pari pari. Come Dio volle, giunti così all’incrocio, loro presero in giù per Via Sarti e io mi affrettai dalla parte opposta.
Dei nostri non avevo visto nessuno ed anche tutto quel putiferio, a ragion veduta, mi si presentò quello che era in realtà: sconclusionato baccano e nient’altro. Ma lì per lì, direi una bugia, se affermassi che il mio fu tutto coraggio.
Il Giugno del 1944 si presentava assai caldo e pur non essendo ancora in tiro la agognata messe granaria, i morsi della fame si potevano alleviare con quel po’ di frutta e di ortaggi su cui si potevano metter le mani in qualunque modo. E intanto il fronte si avvicinava. E con quello la speranza e la paura, in una continua altalena; ma se la gente alternativamente dall’una all’altra passava, i repubblichini s’erano fermati sulla paura, consci d’esser vicini alla resa dei conti e d’averne di ben grossi da pagare.
Il C. L. N. vedeva di giorno in giorno cadere l’indecisione degli agnostici, e guadagnare proseliti alla causa era cosa facile, che si presentavano da sé, e trovavano la strada, perché s’era ormai allo scoperto. S’era faticato più di otto mesi per organizzarci in una settantina e in un giorno solo il Partito Comunista ci mise a disposizione 68 nomi di suoi aderenti. Di questi ben pochi ne conoscevo di vista o per sentito dire, ma comunque avrebbero servito quando se ne fosse presentato il momento. Però neppur oggi saprei dire alcunché sul loro armamento e sulla loro efficienza.
Con Umberto, il Pini e Basile, si seguiva per quanto possibile l’avanzare degli Alleati e di giorno in giorno si formava in noi la convinzione d’esser vicini al momento di agire, o per lo meno di fare qualcosa che affrettasse la fine dell’incubo che ci opprimeva. La mancanza di informazioni dall’altra parte del fronte era un ostacolo grave, ma remora ancor più grave al tentativo di un collegamento diretto a mezzo staffette, era il non poter stabilire contatti rapidi qui. Volterra, per la sua disposizione, era suddivisa in tre compartimenti stagni: il Centro, San Lazzero, San Giusto. E quel che avveniva là, qua non si sapeva, o si sapeva dopo, quando ormai era già tardi.
Nei momenti di solitudine mi arrovellavo per trovare una soluzione al problema. Avevo nel primo nucleo di organizzati, quello che faceva capo a Cùccheri, un certo Antonio Potì, ex-sergente del Genio Telegrafisti, sbandatosi l’otto Settembre. Lo mandai a chiamare e lui venne, e io, dopo avergli fornito una mappa della città, lo invitai a studiare la cosa. Ci s’incontrò successivamente fuori Porta Marcoli, nel prato di sotto, a sinistra e lì mi espose linea di massima i dettagli: sarebbero bastati tre R4, ma non erano consigliabili comunicazioni radio perché i tedeschi e forse anche i repubblichini avrebbero potuto intercettare e facilmente localizzare. Più sicuro un collegamento telefonico volante. Occorrevano solo tre telefoni da campo e poche bobine di cavetto monopolare. Io m’ero già scoraggiato fin dalle prime parole e mi tornavano in mente le manovre estive del mio Reggimento, ma mi feci dare ugualmente l’appunto che aveva stilato e lo ringraziai. – A vostra disposizione – mi rispose, e dopo un saluto sparì per il viottolo dentro la macchia. Rientrando, ridacchiavo fra me: né tedeschi né repubblichini mai avrebbero potuto intercettare le nostre comunicazioni radio, perchè non ci s’aveva né R4, né altri R. E in quanto a stendere i fili telefonici, che non c’erano, sarebbe stato press’a poco, come per i topi attaccare i campanelli alla coda del gatto. E si rimase così come s’era.
Alla prima quindicina di Giugno si aveva la netta e fondata sensazione che la guerra fosse giunta alle porte di casa. L’andirivieni dei militari tedeschi si era di molto accentuato, ma sulle loro intenzioni non si poteva che far congetture. Gli spostamenti delle truppe avvenivano più che altro di notte e seguendo la circonvallazione. Ad un certo punto, perché non ci fossero interferenze o contatti con i civili ricordo che furono sconficcate le fermature della Porta Fiorentina e chiusi i battenti. Dalle Mura o da sopra il Bastione, si potevano vedere, stravaccati sull’erba dei pratini sottostanti, tedeschi stanchi e impolverati che consumavano il rancio o si riposavano prima di ripartire. Poi, sugli autocarri o a piedi, per la Via di Porta Diana scendevano nella Valle dell’Era, forse diretti ai Cornocchi; altri invece, proseguendo per il Gioco Novo, sembrava avessero come meta la Via Pisana per Villamagna o il Castagno, se non la Statale 68 diretti a Saline o a Montecatini.
Un giorno, che però non potrei collocare esattamente nel tempo, mi trovavo ai Monumenti e da lì potei vedere sfilare per Sotto i Ponti una lunga teoria di militari germanici, appiedati, che accusavano sintomi di estrema stanchezza. Non mancava qualche biancheggiare di bende, e molti di loro spingevano carrozzelle da bambini sulle quali avevano caricato i pesanti zaini e parte dell’armamento. Provenivano dalla parte di San Lazzero e giunti al colmo del dosso stradale li vedevo rinfrancarsi alla vista del viale ombroso e in discesa. Mi tornavano in mente le parole del Giusti – …schiavi li spinge per tenerci schiavi; ma non provavo alcun senso di pena e in cuor mio auguravo loro altri dieci chilometri di salita, sotto un sole da spaccare le pietre.
Non erano momenti da pensieri caritatevoli, dai luoghi vicini giungevano notizie di atrocità commesse, di rappresaglie talmente sproporzionate da far pensare ad un predisposto un disegno di terrore; ad una bestiale vendetta da sfogare su vittime inermi e incolpevoli.
Il sentire di tali esecuzioni sommarie non recava sollievo neppure ai fascisti nostrani, che vedevano anzi moltiplicarsi le responsabilità di cui presto avrebbero avuto a rispondere, né rimaneva loro alternativa diversa dalla fuga, e quanto prima, tanto meglio, anche in considerazione dell’evidenza che ai tedeschi non importava un bel nulla di loro, sì che inutile sarebbe stato chiedere protezione.
La G. N. R. aveva ormai perduto ogni baldanza e già molti dei suoi componenti cercavano di squagliarsela alla chetichella. Il G. L. N. aveva impartito disposizioni, non solo perché fosse prestato aiuto e rifugio ai militari, specie se austriaci o russi che intendevano disertare, ma anche perché fosse facilitato il dissolvimento della milizia incoraggiando quella che ancora titubavano e rassicurandoli, specie se non particolarmente compromessi.
Personalmente trattai con più d’uno e come primo segno di credibilità e buon volere, pretendevo che il soggetto lasciasse la caserma equipaggiato dell’armamento in dotazione e che mi doveva essere portato a casa, in cambio di un foglio temporaneamente liberatorio. Con la promessa di successiva particolare dichiarazione convinsi Liuzzo (mi pare Alfredo) a restare ancora per qualche tempo in caserma, per riferirmi via via quanto lì poteva apprendere. Gli affidai inoltre l’incarico di procurarmi qualche foglio di carta intestata della milizia, in bianco, ma già timbrato in calce. E questo riuscì a portarmi.
Mi ripromettevo di farne uso al momento favorevole, stilandovi un falso ordine di trasferimento, per liberare qualche arrestato, ancora nel Maschio, che corresse maggior pericolo. L’operazione sarebbe stata affidata a due dei nostri, in divisa da militi, e nutrivo fiducia nell’esito, sia per il dilagare della confusione, sia per le complicità su cui potevo contare nell’interno del carcere. Poi non ce ne fu bisogno, perché il 27 di Giugno il Colonnello Borgiotti valendosi della sua investitura a borgomastro, con personale iniziativa, ordinò la scarcerazione di tutti i politici.
Bandito dalla scuola fin dal primo d’Aprile, in seguito al mio arresto, e senza stipendio fin dall’Ottobre, ero stato riassunto in servizio e reintegrato nelle spettanze ai primi di Giugno, quando però le scuole s’erano già chiuse nel Maggio. Il come avvenne mi ha lasciato per tutti questi anni perplesso e di certi aspetti nemmeno oggi saprei dar spiegazione. I provveditori agli studi, per certe ricorrenze, volentieri venivano in visita a Volterra, non tanto per ragioni di ufficio quanto, e forse più, perché alla Scuola Professionale Femminile di San Pietro c’erano delle autentiche virtuose dell’arte culinaria che anche in tempi di carestia sapevano fare miracoli. E l’ospite illustre non si faceva pregare.
Ricopriva la carica, allora, il Prof. Ragoni che certamente informato della mia posizione mi convocò lassù nello sterminato salone da ricevimento. Qui ci s’incontrò e confesso che, da maestro quasi novellino, il personaggio mi dava soggezione e anche un po’ di patema d’animo. Ma da parte sua non vi fu alcun atteggiamento autoritario. Dopo qualche preambolo mi propose di sottoscrivere il «Giuramento di fedeltà alla Repubblica Sociale» come del resto, con semplicità, avevano già fatto i miei colleghi. Dato il tono tranquillo della conversazione, non mi fu difficile rifiutare. – Non sarebbe stato onesto da parte mia, dicevo, perché io la penso troppo diversamente. E lui: – Non è possibile. lo Le ho stima di persona intelligente. Sono certo, anzi, che Lei sarà proprio uno degli alfieri della Repubblica…
Non riuscivo a capire quanto delle sue parole fosse retorica d’ufficio e quanto fosse personale convincimento. Rimasi fermo nel mio rifiuto, ma lui non mostrò irritazione e neppure fece cenno larvato a minacce o sanzioni. Il nostro colloquio sarà durato una mezz’ora, mi c’era entrato dire che ero senza quattrini e che anche quando prestavo effettivo servizio non avevo mai riscosso lo stipendio. Mi congedò infine con queste testuali parole: – Sono sicuro che ci ripenserà. Guardi me: io sono fascista fino nell’intimo dell’alcova. Lui era sicuro, ma anch’io, pure oggi più che sicuro d’aver fatto una gran faccia da scemo: che cosa mai avrà voluto dire, con quelle parole? Fatto sta che poco dopo ricevetti tutti insieme gli arretrati dello stipendio. Una vera bazza, e proprio a pallino! Molto dopo, a guerra conclusa, me lo vidi capitare in casa. Non era più il Signor Provveditore, era soltanto il Prof. Ragoni. Seppi poi che gli era stato restituito all’insegnamento, mi pare in qualche posto del grossetano. E non ho mai provato rimorso.
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