Verso la fine dell’anno 1333, in occasione delle nuove elezioni, i popolani, che ormai prevalevano negli incarichi per il governo della città, pensarono di eliminare del tutto la partecipazione della nobiltà dall’amministrazione della cosa pubblica, essendo peraltro dell’avviso che non si potesse fare buon governo, finché una delle due fazioni non avesse eliminata l’altra.
Tale proposito popolare veniva poi ad essere favorito dalle inimicizie e dalle discordie esistenti fra i nobili: i Belforti erano contro gli Allegretti, i Baldinotti contro gli lnghirami e i Buomparenti contro i Buonaguidi e gli Africanti.
I popolari, infatti, approfittando anche di questa disunione esistente fra la nobiltà, fecero cadere la elezione su sei dei loro rappresentanti, a capo dei quali fu posto Maestro Fede di Ser Dolcetto del Fede, uomo di costumi santissimi, assai stimato da tutti e nipote di quel Fede che, nel 1262, aveva riconquistato alla banda dei Salonicchi la rocca di Monte Voltraio.
I candidati dei nobili, quindi, furono esclusi completamente e, per dimostrare che il governo aveva mutato faccia, i popolari cambiarono anche l’emblema del Comune, prendendo – ad imitazione dei Fiorentini – l’insegna della croce rossa in campo bianco, chiamandola «arme del popolo».
Ai governatori, che furono mantenuti nel numero di dodici, fu concessa la possibilità, nei negoziati più difficili, di interpellare, a titolo di consiglieri, quei cittadini ritenuti idonei al caso, istituendo così un magistrato di quindici persone, tutte del ceto popolare.
Anche il consiglio di pieno dominio, composto di settanta membri, nonché il consiglio del popolo, composto di seicento elementi, furono di esclusiva partecipazione popolare.
Frattanto si era giunti all’anno 1334 e, per sottolineare ancor più la utilità del cambiamento avvenuto nel governo, fu deciso di intraprendere dei lavori per sanare e abbellire alcune strade cittadine. Infatti fu fatta la nuova strada per la Fonte di Docciola e quella che da Porta a Selci conduceva in linea retta, malagevolmente e ripidamente tanto da chiamarla «Le Piagge», nel Borgo di San Lazzero. Si fece poi sboccare in Via Nuova, oggi Via Gramsci, la Via degli Asinari, oggi Via di Sotto.
Poi, per maggior sicurezza e quindi al fine di impedire o comunque ostacolare, in caso di sollevazione, l’accesso della cavalleria, furono munite di grosse catene in ferro le cinque porte della città e tre delle mura vecchie (cioè quella di San Marco, della Penera e di Mandringa, oggi non più esistenti). Dette catene furono poste sei a Porta a Selci, dieci in Sant’Agnolo, cinque in Piazza, undici nel Borgo, due ai Fornelli e tre in Santo Stefano. Fu predisposta, per una spesa aggirantesi su diecimila fiorini, anche la restaurazione del Bagno al Morbo, assai rovinato dalle passate guerre.
Non poteva poi mancare un provvedimento di una certa importanza come quello attinente alla moneta, anche perché, quella prima introdotta in Volterra in copiosa quantità, non era di buona lega. Furono pertanto incaricati Mone di Vico e Piero di Giusto della stima del giusto valore della moneta circolante, comandando poi al capitano e ai dodici governatori di stabilire l’ordine e la forma di quella che si dovesse «battere» in avvenire.
Tra i provvedimenti di rinnovo del governo del Comune fu compreso anche l’invio di nuovi «uffiziali» nel contado e precisamente nei castelli di Mazzolla, Agnana, Canneto, San Dalmazio, Sorbaiano, Buriano, Pignano, Monte Leone, Micciano, Lustignano, Querceto, Gello, Castel Volterrana, Monteverdi, Cedderi, Silano, Montegemoli, Pomarance, Castelnuovo, La Nera, Libbiano, Sassa, Montecastelli, Acquaviva, Montalbano, Gerfalco, Travale e Monte Falcone.
Fu disposto, infine, che fosse messo in esecuzione l’accordo raggiunto nel 1318 col Vescovo, concernente la permuta della metà di Montecastelli, affinché quel castello fosse per intero di proprietà del Comune. A tal riguardo, ottenuto di nuovo il consenso del Cardinale Giovanni di San Teodoro, legato pontificio, furono consegnati al Vescovo vari beni del Comune, pari al valore di sedicimila lire.
I nobili erano fortemente amareggiati per l’essere esclusi dal governo della città e per tutti i cambiamenti predisposti, e tale cruccio aumentò ancora di più quando i popolari, con animo poco moderato, si dettero a fare grandi feste e a beffeggiare gli antagonisti, originando, così in essi anche vergogna, per non potersi risentire perché, come detto in precedenza, non si trovavano in buon accordo nemmeno fra loro.
Era già quasi un anno che la città veniva governata secondo i nuovi ordinamenti, quando si giunse al 5 giugno, giorno nel quale era d’uso che i magistrati con il clero, seguiti da tutto il popolo, onorassero con particolari festeggiamenti la solennità dei Santi Giusto e Clemente, avvocati e protettori della città.
Pertanto, tutti in processione, si recarono alla chiesa di San Giusto, mentre i nobili se ne restarono a casa per risparmiarsi una ulteriore umiliazione di fronte ai nuovi governanti, del ceto popolare.
Partita la processione, i pochissimi popolari, rimasti in città, presidiavano la Piazza e l’attuale Palazzo dei Priori. I nobili, allora, incominciarono ad uscir fuori, guardandosi l’un l’altro per l’onta che stavano subendo, finché, o perché già pattuito o
per puro caso, si ritrovarono pressoché riuniti nella Piazzetta di Sant’Agnolo, oggi di San Michele.
Qui, Barone Allegretti, uomo di grandissima reputazione per l’età, per la saggezza, per i meriti e per essere il padre del Vescovo Ranuccio, secondo quanto narra Raffaello Maffei su “Storia Volterrana”, pronunciò il seguente discorso:
«Ecco in che grado le nostre discordie ci hanno condotti: abbiamo scosso il giogo che sopra le nostre spalle avevano imposto gli imperatori e i vescovi, abbiamo abolito quasi interamente le fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini e dopo tante fatiche e travagli sofferti da noi e dai nostri maggiori, tanto sangue sparso, tante miserie patite, ora dobbiamo essere pacifica preda di per loro che abbiamo tratto dal fango della più infima plebe, dopo averli fatti capaci e partecipi della dignità e degli onori della nostra indulgenza. Ci siamo allevati nel seno questo serpe maligno, e non c’è da meravigliarsi se è stato riscaldato dai nostri favori, per poi dare morte alla nostra autorità e preminenza, per cui vediamo questo popolo, che prima ci era soggetto, alzare il capo della superbia, andare in trionfo a sventolare il gonfalone, nuovamente spiegato in segno della nostra oppressione, a rendere grazie a lddio in quelle stesse chiese che dalla pietà dei nostri maggiori sono state fabbricate. Immaginatevi che, mentre vanno processionalmente, e mentre assistono in questo giorno agli uffizi divini, i salmi e gli inni che ora cantano sono le derisioni e le beffe che si fanno di noi, sono i vanti di averci posto sotto i loro piedi, sono gli arguti motti che a vicenda si dicono fra loro in dispregio della nostra viltà e delle spade che vicendevolmente insanguiniamo delle stesse nostre viscere, per dar mano alla loro pacifica e quiete grandezza. Così è cittadini miei, i premi dei nostri combattimenti si guadagnano per la plebe nostra nemica, perché le nostre discordie sono la loro pace, e tanto le vittorie che le nostre perdite sono la loro esaltazione. Che dunque s’ha da fare? S’ha da proseguire in questa maniera? Dobbiamo noi essere gli autori e i ministri della nostra distruzione? Ciò non sia mai vero: ma lasciamo per questa volta le nostre gare e le nostre discordie che fanno vittoriosi i nostri nemici, e uniti insieme ripigliamo il solito vigore per lasciare i nostri discendenti in quella autorità e in quella grandezza che fu lasciata a noi dai nostri maggiori. In questo punto si presenta l’occasione di un nobilissimo fatto, poiché essendo tutti quelli del nuovo governo, con il restante del popolo lor seguace, fuori della città, dentro la quale per volontà divina hanno lasciato noi, che credono discordi, avviliti e paurosi della loro potestà tirannica, e in grado di non aver più spirito che per piangere le nostre miserie: or mentre essi, accecati dalla troppa confidenza ci disprezzano, o non fanno di noi conto veruno, depongasi le scambievoli gare e fatta generosa risoluzione, serriamogli le porte in faccia e, con i nostri aderenti, occupiamo le mura e tutti i posti migliori, guardandoli vigorosamente che io vi prometto una sicura e preclara vittoria. Perché se consideriamo lo stato di dentro, noi gli siamo di gran lunga superiori, non essendovi quasi alcuno dei parziali del popolo che non sia andato alla solennità della festa: se riguardiamo lo stato di fuori, non ne può essere, impedito l’effetto che pretendiamo, perché essi non hanno armi, né macchine, né modo d’espugnarci. Il caso improvviso, la confusione che produrrà in loro un accidente non immaginato, non gli consentirà di poter pigliare fra di loro alcuna soluzione che ci possa offendere, mentre la loro stessa moltitudine, offuscata dai gridi e dai pianti delle loro donne e dal concorso della turba inutile, sarà a se stessa impaccio e noia grandissima: per noi influirà invece la fortezza e l’altezza delle mura, combattendo con animi franchi, disposti con ordine e provvisti di tutte le armi e strumenti dei quali la città abbonda per la difesa. Abbiamo in potere nostro tutte le vettovaglie che dovevano nutrire tanta gente, mentre i nostri nemici ne avranno grandissima penuria per tanta turba. Né ci mancheranno gli aiuti dei Pisani, dei Senesi e dei Fiorentini stessi, ai quali non piace che tante famiglie nobili ed illustri siano dominate dalla feccia della plebe più sordida. Solo ci resta, cittadini miei, che noi facciamo di due parti una sola e, se vi parrà di fare così, avremo vinto».
Dopo queste parole di Barone Allegretti, tutti furono concordi di seguire il suo piano; per prima cosa presero ad abbracciarsi scambievolmente e, dimenticati gli asti e le inimicizie private, distribuirono subito gli incarichi relativi all’azione da intraprendere.
I nobili si armarono e chiusero le porte, ponendosi in ordine per la difesa quando i popolari, ritornando da San Giusto, avessero inteso rientrare in città con la forza. Quei pochi popolari che erano rimasti in città, vedendo l’impossibilità di porre rimedio all’azione intrapresa dai nobili, presero a suonare a martello la campana del Comune, ponendosi a guardia del Palazzo e tirando le catene che sbarravano l’ingresso alla Piazza.
I governanti, avvisati dai loro aderenti che si trovavano vicini alla città al momento che furono chiuse le porte, e sentito il continuo suonar della grossa campana, corsero verso le mura. La confusione era grande, perché tutto il popolo gridava all’armi e correva verso le porte senza alcun ordine e, armandosi di quanto fu possibile, insieme ai governatori, ai magistrati e tutto il consiglio, si scagliò contro la Porta Pisana, oggi di San Francesco, e contro quella di San Felice.
Il combattimento si fece subito aspro e crudele e vite generose, sia dall’una che dall’altra parte, furono travolte dall’infuriare dello scontro. A tale vista il potestà, Teglia di Bindo Buondelmonti di Firenze, fece opera di persuasione al fine di procurare un accordo e quindi far cessare quella carneficina. I popolari non l’ascoltarono, anzi lo imputarono di tradimento, lo malmenarono e lo ferirono seppur leggermente.
Giunto a Porta San Francesco anche il Vescovo con il Capitolo convocò i governatori presso la chiesa di Santo Stefano, proponendo loro di accertare la verità e quindi la causa che aveva originato tale precaria situazione, nonché – al fine di porre termine ad una simile carneficina – esortò di procurare un accordo che, secondo lui, poteva consistere solo nel rimettere i nobili a parte del governo. Il Vescovo fu interrotto nel suo discorso dalle urla dei presenti, i quali replicarono che per tanto tempo i popolari erano stati al di fuori del governo della città, sottoposti ad ogni sorta di violenza, di sopruso, di tirannia e che non potevano fidarsi dei nobili in qualsiasi accordo, dopo la poca sincerità dimostrata da loro nella convenzione del 1299, che sfociò in un tradimento a solo danno della plebe e che costò la vita del Ganuzza e di altri sei rappresentanti del popolo. Fu anche affermato che non potevano fidarsi nemmeno del Vescovo, sospettato di partecipare in favore della nobiltà, in quanto, se non tutta ma almeno in parte, la colpa dei disordini era da attribuirsi a suo padre che, per primo, aveva esortati i nobili ad una simile ribellione.
Svanito anche il tentativo di pace fatto dal Vescovo, la lotta riprese in modo ancor più violento: ulteriori rinforzi erano giunti in favore dei popolari, ma i nobili, trovandosi avvantaggiati dalla posizione al riparo delle mura, scagliavano pietre e frecce seminando rovina e morte fra i nemici. A poco poco il fervore dei popolari diminuì e dopo oltre due ore di aspro combattimento, vedendo l’impossibilità di espugnare la città e non sapendo come alimentare tanta moltitudine, fu deciso di chiedere, a mezzo del Vescovo, quell’accordo che poco prima avevano invece rifiutato e disprezzato.
L’accordo fu concluso celermente e, riaperte le porte, la sera stessa fu predisposto un cambiamento nel governo della città, chiamandovi a farne parte anche i nobili, e giurando, sia dall’una che dall’altra parte, nelle mani del Vescovo, il pieno rispetto dei patti stabiliti.
Anche il Potestà, che si era ritirato alla Badia per curarsi la ferita, fu ricondotto in città e riconfermato nel suo incarico.