Berignone, una foresta, tre castelli e un comunello medievale

In Berignone, ai piedi della collina sulla quale si trovano le rovine del Castello dei Vescovi, si sviluppava il borgo che costituiva l’anima del piccolo comune medievale.

Questo comunello aveva il suo governo, le sue leggi e il suo ordinamento penale e civile, nonché una zecca per il conio delle monete con l’argento ricavato dalla miniera di Montieri.

Vedremo ora in che cosa consisteva questo comunello medievale e tutto quanto si riferiva alla sua vita che risulta reale, concreta e facile nella pratica e, quindi, per i tempi che correvano, anche assai ordinata26.


I GUASTI CON I COMUNI LIMITROFI

Reato grave era la ruberia e il guasto per odio di Comune. Sembra che, a tal riguardo, fosse ricorrente l’invasione del comune di Berignone da parte di quelli di Casole, che portavano via il bestiame dalla pastura e distribuivano ogni volta buone legnate ai guardiani. In seguito a tali azioni scattava subito la vendetta, rendendo il guasto e il saccheggio, finché i due Comuni ritornavano amici, con l’incontro delle parti lese che si davano la mano e si scambiavano il bacio della pace27.

Anche i rapporti con il vicino comune di Silano furono spesso turbati da simili reati, tanto è vero che un giorno fu convenuto fra le parti di stabilire una pace vera, pura e duratura. Per questo ci fu un festoso scambio di visite di ambasciatori, concluse con desinari e rinfreschi28.

Nella visita che quelli di Berignone finanziarono, furono spesi dal Comune ventiquattro soldi per due capretti fatti arrosto, nonché trentaquattro soldi per il pane, vino e altri generi. Di questi incontri pacifici devono essere stati fatti più di uno, perché al comune di Berignone la pace con Silano venne a costare complessivamente ottantasette soldi29.


LA CHIESA

Nel borgo di Berignone esisteva anche la chiesa parrocchiale, intitolata a San Michele. Di essa, però, abbiamo scarse notizie in quanto mai il Vescovo vi si è recato in visita pastorale perché molto spesso si trovava nel suo castello e quindi s’interessava anche ai problemi della parrocchia. Poi sarebbe stata inutile una visita pastorale in quella parrocchia, che era alle sue dirette dipendenze e poiché di quel Comune il vescovo era al vertice del governo.

Si dice antichissima e forse di stile romanico, non molto grande ma certamente sufficiente per quella piccola comunità.

È rammentata nelle decime degli anni 1302-1303 e nel sinodo Belforti del 1356 sotto la denominazione di Ecclesia de Berignone30.

È da precisare, infine, che nel castello esisteva anche una cappella, dove il Vescovo officiava in privato.


L’OSPEDALE

Va un atto in data 14 maggio 1305 risulta che il comune di Berignone aveva anche un ospedale, che pare fosse dedicato a Sant’Antonio e detto Ospitale dei poveri31.

La elezione dello spedaliere era di competenza vescovile, per cui, più di una elezione, si trattava di una nomina.

Generalmente l’incarico era conferito a persona non residente in quel comune. L’amministrazione, invece, era affidata ad un operaio che veniva eletto dal consiglio e dalla giunta comunale e doveva avere cura dei beni e delle terre dell’ospedale stesso, prendendo iniziative che sembravano utili per l’istituzione. Il materiale di proprietà dell’ospedale era custodito da una religiosa e si dice che consistesse in tre sacconi di paglia, cioè le reti di quel tempo, quattro letti con materassi di penna, sette capezzali, dodici lenzuoli fra vecchi e nuovi, due coltri ed una coperta, tre casseruole piccole, due bigoncelli e un bigoncio, una madia per il pane, nonché due casse in legno molto basse, una grande e una piceola che, oltre a contenere la biancheria, servivano ai convalescenti per non mettere i piedi in terra, standovi a sedere o sdraiati.

Fra i beni dell’ospedale risultano anche dei lasciti, cioè delle donazioni in denaro, some di grano, panni vari e letti. Fra questi beni era anche un piccolo appezzamento di terreno che, per la sua coltivazione, veniva ceduto in affitto.


IL SUO GOVERNO

li borgo si doveva sviluppare nell’area circoscritta dalle cinte murarie.

Non contava che 165 uomini dai 14 ai 70 anni e si era eretto a Comune, ammettendo la sovranità del principio feudale e la compartecipazione al governo dei rappresentanti del popolo.

Almeno in embrione, si trattava di un governo monarchico costituzionale. Al vertice era il Vescovo di Volterra; il consiglio amministrativo era composto da sette terrazzani, cioè nativi abitatori del borgo, dei quali tre fungevano da consiglieri, due da provveditori, uno da camarlingo e uno da ambasciatore. Questi quindi erano gli ufficiali rappresentanti del popolo, ai quali si aggiungevano quelli della Giunta, composta da dodici elementi32.

Tutti questi personaggi formavano l’effettivo governo di quel piccolo Comune medievale. Però il Vescovo, in seno a questo consiglio, era rappresentato dal Vicario, generalmente si trattava di un notaro, che fungeva da segretario, nonché da giudice e, in caso di bisogno, da tutore dell’ordine. È evidente così che il Vicario era il personaggio più importante del consiglio amministrativo, al quale era lasciato l’effettivo potere del governo e, quindi, la cura della cosa pubblica.33

L’elezione dei terrazzani avveniva ogni sei mesi. Infatti, secondo le norme statutarie, il Vicario preparava quindici schede, di cui otto bianche e sette con la scritta in ognuna di uno specifico incarico del consiglio direttivo. Gli ufficiali decaduti estraevano ognuno una delle quindici schede: chi la estraeva bianca lasciava l’incarico, mentre gli altri subentravano in detto consiglio con la facoltà di eleggere, a loro volta, un consigliere o il camarlingo. Gli eletti, a loro volta, eleggevano i dodici della Giunta, completando così la formazione del governo34.

Tutti gli eletti, come convalida nel loro incarichi, prestavano il giuramento nelle mani del Vicario35.


LE SUE LEGGI

La consuetudine fu la prima fonte del diritto e, come tale, per avere valore pratico presso il popolo, ebbe bisogno della sanzione della Chiesa. Quindi rimasero in vigore certe disposizioni generali dettate dal diritto romano e dal diritto canonico, determinando così leggi scritte proprie36.

Era logico che il Comune, nato sotto il controllo diretto della Chiesa, aprisse i propri statuti a Dio, alla Madonna, ai Santi e punisse chi ne profanava il nome. Tale apertura così diceva: Nessuna persona di Berignone o del suo distretto ardisca o presuma di bestemmiare di maledire il Signore nostro Gesù Cristo; la di Lui Madre Vergine Maria o alcun Santo della Corte celeste o dire aliquid turpe e di vituperabile contro le loro immagini, aut facere filocus o che altro alla pena stabilito negli statuti. La punizione a tale trasgressione era in denaro37.

Ciò che non si riscontra in altri statuti è la seguente disposizione: Che nessuno estragga o porti via dal castello e dal suo territorio per sé o per altri, biade, grani, legumi, cacio, uova, polli o qualsiasi grascia, legna, carbone e bestia da macello, alla pena… Naturalmente per ovviare a tale norma era prevista la denuncia per ottenere il permesso di esportazione38.

Per quanto si riferisce ai danni verso persone e proprietà vigeva questa norma: Se alcuno fa guasto, incendio o ruberia sia condannato a cinquanta libbre di denari in ammenda del guasto e se tale incendiario o guastatore non viene in mano del Comune siano obbligati all’ammenda i genitori, i fratelli, le sorelle germane, se vi sono: altrimenti i consanguinei fino al terzo grado. Questa è una disposizione grave, ma non si tratta di voler far giustizia o vendetta ad ogni costo, bensì il desiderio di indurre il delinquente a pensarci bene prima di commettere un reato39.

Per i banditi era decretato: Nessuno ordisca né di giorno né di notte accogliere un bandito, accompagnarselo, dargli da bere e da mangiare o prestargli consiglio, favore ecc.: pena all’arbitrio40.

Ed, infine, ecco una disposizione che certamente oggi tornerebbe poco bene perché siamo abituati alla piena libertà anche di notte: Nessun uomo o donna presuma andare per il castello dopo il terzo suono della campana che si suona a fino alla campana del giorno che si suona al mattino. Più tardi tale norma fu modificata con l’aggiunta senza fuoco o lume41.


LA VITA NEL COMUNE

Appare chiaro che, leggendo tali norme, la vita pratica del comune di Berignone fosse assai ordinata. Si provvedeva al censimento degli uomini, buoi, suini, ovini e caprini, proibendo le esportazioni, forse per le frequenti carestie o anche per i continui guasti con gli altri Comuni42.

Ciascun abitante del Comune veniva tassato in base alla sua capacità patrimoniale e si imponeva la libbra43 che, per ragioni di giustizia distributiva, ogni tre anni veniva riformata. Per necessità pubblica il Comune ricorreva ad altri sistemi per cercar denari, cioè, come viene praticato ancora oggi, con imposizioni straordinarie e simili44.

Tutto era monopolizzato, perché il Comune gestiva direttamente il mulino sul fiume Cecina, vendendo perfino il pane ai propri amministrati. Ogni anno conferiva l’incarico di macellaio, di barbiere, di fabbro e di frantoiano, che operavano tutti per conto del Comune45.

Il macellaio doveva fornire sempre carne fresca e, a norma degli Statuti, la fornitura si limitava a due volte la settimana nei mesi di giugno, luglio, agosto e settembre, mentre negli altri mesi una sola volta. Per derogare da questi principi occorreva l’autorizzazione del Vicario. Nessun altro poteva esercitare tale attività. Nel caso in cui la carne non fosse stata venduta tutta, ci pensava il Vicario a farla smerciare. In caso di discordia fra i contraenti nella vendita del bestiame, il Comune eleggeva due uomini, al cui giudizio si doveva sottostare senza possibilità di ricorso alcuno. Per igiene era proibito che le bestie abbattute fossero gonfiate46.

Il fabbro e il barbiere venivano da fuori perché nel Comune di Berignone nessuno esercitava quel mestiere. A tali artigiani era passata gratis la casa e concessa l’esenzione da qualunque tassa, mentre in compenso di tale attività potevano pretendere dai clienti grano, fave e altri generi. Al fabbro, la cui prestazione era troppo necessaria, il Comune passava anche la bottega, affinché potesse far bene l’arte sua. Il frantoiano, infine, veniva scelto fra gli uomini di Berignone47.


ORDINAMENTO PENALE E CIVILE

Fin dalla prima metà del secolo XIV, cioè prima che gli altri Comuni incominciassero a formarlo, l’ordinamento penale e civile di Berignone era esercitato dal foro ecclesiastico e dai notari della Curia48.

Se non ci fosse stata l’evidenza del fatto, venivano ascoltati i testimoni e citato il presunto reo a comparire, contestandogli l’accusa. A tal riguardo, data la poca istruzione del popolo, venivano usate parole semplici affinché fosse compresa bene la responsabilità della imputazione. L’inquisito, secondo i casi, confessava, negava o contestava a sua volta. Non venivano mai usati mezzi coercitivi o la tortura per ottenere la confessione, anzi all’imputato veniva dato un termine per la sua difesa, alla quale però, molto spesso, rinunciava. L’imputato non veniva mai arrestato, ma lasciato in libertà purché desse la parola di ubbidire al Vicario e rimanessero garanti per lui due persone degne di stima, le quali all’occorrenza, avessero soddisfatto per lui. Se l’imputato non si presentava, veniva bandito pubblicamente per le vie e si procedeva in contumacia49.

La contumacia era prova del delitto e il reato più diffuso nel Comune era il delitto di danneggiamento50.

Il più crudele delitto fu l’omicidio, commesso da un certo Pietro di Vicchio, fiorentino, risultato uomo di pessima fama e vagabondo. Con una lunga serie di inganni condusse nel folto del bosco una certa Mina e, dopo averla violentata, la uccise, riuscendo poi ad uscire subito dai vicini confini del Comune e, quindi a non essere impiccato51.

Anche per i predoni era prevista la condanna alla forca, ma l’unica all’uopo pronunciata fu contro il suddetto Pietro di Vicchio. l reati più comuni erano il litigio, la rissa e l’aggressione52.

Non mancarono i litigi fra donne; fra questi fa spicco quello di una certa Necchia che andò al torrente per lavare. Dall’alto del capo fece cascare nell’acqua la paniera dei panni, bagnando una vicina. Le due donne si azzuffarono, prendendosi per la gola e per i capelli, scambiandosi poi, in quel caratteristico volgare, delle offese facilmente intuibili53.

Ogni processo terminava per lo più con una condanna al pagamento di una multa, ma le sentenze fanno capire che si trattava di un regime paterno perché spesso e volentieri il Vescovo perdonava in tutto o in parte la pena per amor di Dio54.

LA ZECCA

È notorio che in Berignone esisteva una zecca, dove venivano coniate monete d’argento. Nonostante che tale diritto fosse concesso da Enrico VI il 18 agosto 1189 al vescovo lldebrando de’ Pannocchieschi con diploma dato da Wurzburg, risulta che la coniatura avveniva, già prima perché, in un documento del 24 dicembre 1165, si legge Lire 3 di buoni denari volterrani e pisani56.

Comunque per la monetazione esistono notizie incerte anche perché per un periodo di tempo, si dice quattro anni, il Vescovo fece coniare monete insieme al Comune di Volterra e che si avvalse in più occasioni dell’opera di società senesi e fiorentine.

È da ricordare in proposito che ebbe buon successo il grosso d’argento, che era il più comune tra le monete volterrane, fu bene accolto in molte città d’Italia. Era chiamato agontano57, e da quanto si legge ebbe apprezzatissimo corso perfino nelle città e nei paesi delle Marche ed in modo particolare a Fermo, Ascoli e Rieti. Tale moneta era del peso di circa gr. 1,850 e doveva contenere dieci once d’argento fine.

Ma ciò che meraviglia, anche se molti numismatici e storici hanno trattato e studiato il problema delle zecche e della moneta medievale di Volterra, è il fatto che le notizie appaiono tuttora incerte e talvolta contrastanti. Comunque la notizia che in Berignone si coniassero monete con l’argento ricavato dalle miniere di Montieri, è certa ed indiscussa.

© Accademia dei Sepolti, ELIO PERTICI
Berignone, una foresta, tre castelli e un comunello medievale, in “Rassegna Volterrana”, n. LXILXII, a. 1985-1986, p. 265.
26 M. CAVALLINI, Storia di un piccolo comune medioevale, “Vita e Pensiero» Milano, IX, XIV. 8; «Il Corazziere», Volterra 2 dic. 1934, Anno 53, n. 48.
27 Ibidem.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 M. GIUSTI – P. GUIDI. Tuscia, vol. 2°, Le decime degli anni 1295-1304 in Rationes Decimarum Italiae, Città del Valicano 1958.
31 M. CAVALLlNI, Gli antichi spedali della Diocesi volterrana, Rassegna Vollerrana, X-XI, 78.
32 M. CAVALLINI, Storia di un piccolo comune medioevale, op. cit.
33 Ibid.
34 Ibid.
35 Ibid.
36 Ibid.
37 M. CAVALLINI, Op. cit.
38 Ibid.
39 Ibid.
40 Ibid.
41 Ibid.
42 M. CAVALLINI, La storia di un piccolo comune medioevale, op. cit.: Il Corazziere op. cit.
43 Tipo d’imposta.
44 M. CAVALLlNI, La storia di un piccolo comune medioevale, op. cit.
45 Ibid.
46 Ibid.
47 Ibid.
48 M. CAVALLINI, La storia di un piccolo Comune medioevale, op. cit. “Corazziere” op.
49 Ibid.
50 Ibid.
51 Ibid.
52 Ibid.
53 Ibid.
54 Ibid.
56 A. LISINI. Le monete e le zecche di Volterra, RIV. ITALIANA di NUMISMATICA, Milano 1909.
57 A. LISINI, op. cit.