«Per la conoscenza delle biblioteche medievali disponiamo essenzialmente di due fonti: i manoscritti e gli inventari. L’ideale sarebbe naturalmente di far coincidere questi due tipi di documentazione, ma, sfortunatamente, per molte biblioteche abbiamo solo manoscritti senza inventari e per altre solo inventari senza manoscritti, o almeno senza manoscritti identificati».1
L’affermazione di Birger Munk Olsen per certi versi potrebbe essere riferita anche al caso di Volterra. Nella biblioteca municipale, la Biblioteca Guarnacci, infatti, sono conservati numerosi manoscritti dei secoli XI-XVI, provenienti da diversi fondi librari e biblioteche private, la cui unità originaria è oggi difficilmente ricostruibile. Quindi siamo di fronte non soltanto ad una biblioteca (di manoscritti s’intende) senza inventario o ad un inventario senza biblioteca, ma all’insieme di parti di diverse biblioteche, per giunta difficilmente identificabili.
La biblioteca Guarnacci fu istituita nel 1785 nel palazzo dei Priori (l’odierno municipio) con lascito testamentario (datato 1774) di oltre 7000 tra volumi antichi e manoscritti dall’abate di San Giusto, erudito e celebre antiquario Mario Guarnacci; nel 1877 la biblioteca venne trasferita nel palazzo Desideri Tangassi (insieme all’archivio comunale), per poi venir collocata nel 1985 in quella che è l’attuale sede, il palazzo Vigilanti. Come l’erudito ed ecclesiastico volterrano mise insieme il suo ingente patrimonio librario non sappiamo con certezza, siamo certi però che all’epoca della donazione testamentaria, la consistenza della “pubblica libreria” era sostanzialmente di edizioni a stampa, alcune delle quali molto rare. Nell’Inventario alfabetico della Biblioteca di monsignor Mario Guarnacci sono riportati da un estensore anonimo (in cui bisogna forse riconoscere l’abate Giuseppe Ballani, successore di Mario Guarnacci) tutti i settemila volumi donati da Guarnacci. Tra essi però non compaiono la maggior parte dei 514 manoscritti oggi esistenti nella Biblioteca. Sappiamo che Mario Guarnacci aveva in effetti acquisito alcuni manoscritti, ma quasi tutti dei secoli XV e XVI2.
La costruzione dell’odierno patrimonio della Biblioteca è frutto sia degli studi, ricerche e acquisti di Mario Guarnacci, sia dallo zelo di ricerca dei direttori della Biblioteca Guarnacci, che si sono impegnati a riportare a Volterra tutti gli esemplari manoscritti e a stampa che in qualche modo potevano essere collegati con la città delle saline e potessero dare lustro alla sua pregevole biblioteca3. Le fasi di questa acquisizione, però, non ci sono note. Infatti, in biblioteca non sono conservate note di acquisto o verbali di acquisizione di manoscritti, che risultano in numero di 514 solo nell’inventario dattiloscritto del 1894. Bisogna ipotizzare che alcuni manoscritti dei fondi librari dei principali enti ecclesiastici volterrani siano stati sottratti alla dispersione seguente alla soppressione degli enti e siano entrati a far parte di un (ipotetico) deposito del comune di Volterra. Per quanto riguarda i codici del monastero dei santi Giusto e Clemente di Volterra, l’acquisizione avvenne con ogni probabilità, insieme ad altri libri a stampa del cenobio, nel 1866, allorché il monastero cessò di esistere e vennero trasferiti tutti i suoi beni mobili.
Diversa sorte, probabilmente, seguirono alcuni dei principali codici della Biblioteca della Sacrestia del Duomo di Volterra, trasferita temporaneamente nei depositi comunali nel primo decennio del Seicento quando il vescovo Inghirami diede avvio ai lavori di ristrutturazione del complesso monumentale del palazzo vescovile e della sacrestia, dove i libri erano conservati. Da quel momento è possibile che una parte dei libri, i più rilevanti, ma anche i meno utili per la liturgia ormai rinnovata post tridentina siano rimasti in possesso dei depositi comunali e poi entrati a far parte del patrimonio manoscritto della biblioteca dopo il 1774.
Quel che è certo è che in poco più di un secolo la biblioteca Guarnacci fu dotata di un grande patrimonio manoscritto, nella maggior parte proveniente da fondi ecclesiastici. A causa di questo tipo di acquisizione la biblioteca costituisce una sorta di stratificazione di fondi librari o di singoli libri e manoscritti, che se da un lato ci ha tramandato il patrimonio librario di Volterra, dall’altra ha sconvolto gli antichi assetti dei fondi librari degli enti e dei privati della città. La prima domanda che bisogna porsi, pertanto, è in che modo si possa ricostruire un (del tutto parziale) status del patrimonio librario presente in città nel medioevo, suddividendolo tra vari enti ecclesiastici che lo possedettero e tra i laici. Solo avendo un quadro della distribuzione e consistenza del patrimonio manoscritto, ancorché molto parziale e, come vedremo, talvolta sfuggente, è possibile mettere a fuoco un campo di indagine il più possibile omogeneo e, internamente ad esso, ritagliare ulteriori ambiti di ricerca, sulle forme, le modalità di produzione e i centri produttori.
Benché i fondi librari antichi siano sottostati ad una grave dispersione, alcuni di essi possono essere ricostruiti attraverso gli antichi inventari dei secoli XIII-XV che, in molti casi, ci permettono di tracciare un quadro sufficientemente ragionevole della presenza e circolazione di manoscritti nel Medioevo, in quanto consentono la «ricostruzione documentata del processo formativo» delle biblioteche e pertanto sono una fonte insostituibile della storia culturale4.
Lo studio e l’edizione di questo tipo di fonti solo negli ultimi decenni ha attratto l’interesse degli storici, che ne hanno messo in evidenza le potenzialità euristiche e l’importanza per lo studio della cultura medievale e rinascimentale. Passo essenziale nello studio e nelle edizioni degli inventari sono, oltre che la descrizione della loro struttura, consistenza e delle modalità di redazione, anche la ricerca delle corrispondenze con i manoscritti conservati5. Per quanto riguarda la realtà toscana, che occupa i nostri interessi, non esiste un quadro d’insieme sugli inventari medievali delle chiese cattedrali e dei principali enti ecclesiastici medievali, ma sono a nostra disposizione altresì, edizioni e commenti di inventari antichi di una certa rilevanza, che possono servire come metro di paragone per l’area volterrana. In particolare, gli inventari risultano di grande funzionalità al fine di saggiare la consistenza delle biblioteche antiche e verificare se l’ampiezza quantitativa delle biblioteche volterrane era in linea con le altre biblioteche toscane6.
Per ciò che concerne le corrispondenze tra manoscritti menzionati negli inventari e quelli effettivamente conservati nei fondi contemporanei, elemento essenziale da esplicitare nelle edizioni degli inventari, come abbiamo già avuto occasione di affermare, per Volterra non si hanno a disposizione dati quantitativamente consistenti, a causa della grande dispersione del patrimonio librario degli enti ecclesiastici volterrani tra XIV e XV secolo. Infatti, se la dispersione dei fondi manoscritti è un fatto fisiologico per ogni centro di conservazione medievale e di epoca moderna, specialmente se si tratta di biblioteche di enti ecclesiastici che hanno subito soppressioni o modifiche istituzionali, per Volterra ci sono cause ulteriori. Innanzitutto, dalla fine del Duecento in poi, la grande attrazione da parte dei comuni maggiori (Pisa, Firenze e Siena) di beni volterrani, tra cui vi furono sicuramente i prodotti scrittori. In secondo luogo un evento in particolare provocò un vero sconvolgimento, tra l’altro, del patrimonio librario volterrano: il sacco fiorentino della città nel 1472 da parte delle armate del duca di Urbino Federico da Montefeltro. Il saccheggio non risparmiò i principali enti ecclesiastici e le loro “librerie”, provocando di fatto un radicale depauperamento del patrimonio librario volterrano7.
Basterebbe far parlare i manoscritti stessi, per descriverne alcuni particolari. Una miscellanea umanistica, probabilmente messa insieme da Biagio Lisci, umanista volterrano, nella prima metà del secolo XV, riporta una nota che ricorda l’acquisto per il prezzo di 4 soldi da parte del maestro di grammatica Lucantonio da San Gimignano del codice rubato dalla casa di Ser Biagio Lisci durante la direptio di Volterra; il codice era stato acquistato da un soldato e l’acquirente, al fine di non apparire compartecipe del crimine, diede in comodum a ser Biagio Lisci un altro volume8. Un codice miscellaneo con opere di Aristotele e Ambrogio Traversari, scritto da Rinaldo di Ludovico di Francesco a Volterra nel 1451, riporta una nota attestante che l’abate di Santa Fiora di Arezzo comprò il 30 di giugno 1472 (quindi cinque giorni dopo il sacco) «hunc librum a militibus quorum direptioni rapinisque civica volterrana patuerat», per il prezzo di due ducati9.
Come si può, pertanto, ricostruire, anche in via ipotetica, la consistenza delle biblioteche cittadine, la qualità e la tipologia dei libri in essa contenuti e, in generale, la circolazione e fruizione libraria nel Medioevo? In questo caso bisogna distinguere se esaminare prima gli inventari o cominciare dai codici superstiti. Perché gli inventari ci diranno sicuramente molte informazioni sulla circolazione di manoscritti e sulla diffusione dei testi in epoca tardo medievale, ma poco o nulla sulle caratteristiche materiali di quei testi, sul luogo di produzione e sulle tipologie testuali in esse contenute. Per quanto riguarda invece i codici superstiti, il principale problema che si presenta a chi analizza un patrimonio documentario come quello della Biblioteca Guarnacci, messo insieme dal Settecento ai giorni nostri attingendo a diversi fondi, attraverso acquisizioni, vendite, recuperi, è quello della provenienza dei suddetti manoscritti. Parliamo sia della provenienza relativa alla biblioteca di origine, sia ai luoghi di produzione e ricezione. Se non si trova un chiaro riscontro negli inventari tardo medievali (e come si vedrà i riscontri saranno quasi del tutto assenti), non si può far altro che percorrere due differenti vie: tentare di ricostruire la storia di ogni codice e verificare la plausibilità della sua collocazione originaria in qualche ente ecclesiastico del territorio volterrano, attraverso rimandi interni, note di possesso, tipologie strutturali; tentare di definire un tipo scrittorio proprio della zona (ma in questo caso bisogna vedere quanto ampia deve essere questa zona) e verificare l’omogeneità dei codici a questo tipo scrittorio.
Per il momento, nel presente lavoro ci limiteremo ad esaminare cinque inventari superstiti: due del monastero di San Giusto databili tra la fine del XIII e l’inizio del XIV; uno del monastero olivetano di S. Andrea risalente al 1382, interessante soprattutto per le informazioni qualitative sui codici inventariati e sul corredo di strumenti scrittori del monastero; due della cattedrale risalenti rispettivamente al 1417 e al 1521. È ovvio che la lontananza cronologica tra essi e il fatto che si riferiscono a tre soli enti ecclesiastici cittadini, mentre sicuramente altri detenevano una biblioteca (basti pensare al monastero di S. Francesco, attivo fin dal 1230), ci restituisce un quadro molto parziale e assolutamente frammentario della circolazione libraria a Volterra nel medioevo. L’osservazione diretta del materiale presente nelle biblioteche dei principali enti ecclesiastici cittadini, però, apre uno squarcio sulla vita culturale della Chiesa volterrana, che difficilmente può essere osservato per altre vie. Risulta pertanto centrale, per il nostro discorso, descrivere e commentare gli inventari medievali.
Il monastero dei Santi Giusto e Clemente, oltre che essere uno degli enti ecclesiastici più antichi della città, costituì dal primo decennio del secolo XII un polo fondamentale dell’Ordine Camaldolese. Pertanto, il cenobio fu uno dei protagonisti principali della cultura volterrana medievale e, come tale, costituì una propria biblioteca probabilmente a partire dalla prima metà del secolo XII. L’entità e la qualità della Biblioteca del cenobio ci è nota da due splendidi inventari, redatti dal notaio di Volterra Bartolomeo, del 1284 e del 1315. Le liste di libri, conservate in due registri notarili relativi al monastero in questione, si presentano all’interno di un più ampio inventario di beni mobili monastici, e come tale redatto seguendo le regole che l’Ordine aveva messo a punto in tal senso per la descrizione del thesaurum monastico10. In entrambi gli inventari viene annotata, in maniera molto stringata, la funzione (missale, antifonario ecc.) e talvolta il contenuto sommario (summa virtutum, diadema monacorum ecc.) e le anomalie riguardanti la consistenza, attraverso l’indicazione quaternum, se il manoscritto era costituito da un solo fascicolo.
Nel primo inventario (1284) vengono menzionate 82 unità codicologiche (divisi in 63 item): erano presenti numerosi manoscritti per scopi liturgici (45 su 82), menzionati per primi, insieme a sette salteri (più uno menzionato alla fine), che servivano, insieme ai due Manuali, oltre che per funzioni liturgiche anche per la scolarizzazione dei monaci11. A questo primo gruppo seguono varie expositiones di Sant’Agostino, S. Ambrogio, S. Gregorio e anonime. Tra esse troviamo una anonima Summa virtutum, e una Summa de Septem Vitiis capitalibus12, il Diadema Monachorum (testo “classico” monastico)13, Libri de Poenitentia e de Reverentia, le Regole di S. Benedetto (ve ne sono due) e di S. Agostino, la Summa Penitentiae di Pietro Cantor (si tratta quasi sicuramente del Viaticum Abbreviatum; vi sono anche le Distinctiones que dicitur Abel, item 27, non direttamente attribuite a Pietro)14; alla fine è menzionato un altro gruppo di libri con funzioni prettamente liturgiche. Ne risulta una biblioteca piuttosto fornita, non particolarmente specializzata, ma comunque ben attrezzata sia dal punto di vista liturgico, sia dal punto di vista dei commenti e delle expositiones, nonché sulla disciplina monastica. La biblioteca si presenta perfettamente in linea con le istruzioni dettate dalla riforma monastica camaldolese della seconda metà del secolo XIII e dimostra l’indiscusso ruolo della cultura scritta all’interno del monastero15.
Il secondo inventario risale al 1315, sotto l’abate Accursio, e fu redatto per ordine dell’abate del monastero camaldolese di Firenze, in qualità di vicario del priore di Camaldoli. Esso contiene 53 item divisi in due sezioni, una generale con 33 item, l’altra concernente le «res invente in camera domini Iusti olim abbatis dicti monasterii» costituita da 21 item. Le unità codicologiche sono in tutto 73, più qualche fascicolo sciolto. La struttura dell’inventario è pressappoco come la precedente: viene menzionata la funzione liturgica del libro, talvolta il titolo attribuito, rarissime volte eventuali commenti marginali (closatum) e la consistenza, se si tratta di quaderni sciolti o il formato minore (parvum). Non vi sono accenni ad incipit ed explicit, né tantomeno a caratteristiche peculiari della scrittura. Nella prima sezione compaiono i manoscritti liturgici e funzionali alla liturgia, nonché di commento e di studio, come nell’inventario del 128416. Interessante di questo secondo inventario è la separazione degli ambienti di conservazione dei libri, che indica che la camera dell’abate, per volontà dell’abate Giusto (in carica prima di Accursio), costituiva una vera e propria biblioteca funzionale al ruolo di guida dei monaci. Oltre che libri per la liturgia troviamo letture per la predicazione e l’educazione spirituale dei monaci: ne sono un esempio la già menzionata e frequente Summa Abel di Pietro Cantor (item 34, era l’item 27 dell’inventario I) varie raccolte di sermoni e Summae de Vitiis, i Breviloquia di Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274)17, i sermoni di Giordano da Pisa18, nonché testi di carattere retorico e grammaticale, tra cui spicca particolarmente la presenza delle Artes dictaminis di Guido Faba e di Bene da Firenze19 e di testi giuridici come la Summa sulle decretali di Goffredo da Trani20. Rilevano, in questa sezione, le annotazioni sulla antichità di un manoscritto (sermonale in cartis ovinis anticum) e sulla scrittura (cum lictera minuta, probabilmente con riferimento alla scrittura dei commenti marginali, come avviene forse per l’item 24 dell’inventario II) della Summa del magister Bene21, nonché sulla circolazione dei manoscritti come pegno di prestiti stipulati con altri enti ecclesiastici cittadini, come mostrano l’item 40 (con il canonico Enrico) e 54 (con i frati di S. Agostino). Quest’ultimo dato, benché isolato, indica un’altra possibile modalità di circolazione dei libri all’interno del circuito ecclesiastico cittadino.
Se un inventario è, quasi per definizione, un documento poco entusiasmante e, talvolta, addirittura eccessivamente noioso per la sua ripetitività, l’inventario del convento olivetano di S. Andrea di Volterra, pur rientrando nei canoni dell’inventario monastico classico, contraddice l’iniziale affermazione, poiché oltre a presentare un testo vivace e interessante, ci fornisce notizie che per il nostro scopo risultano veramente di fondamentale importanza22. Esse, infatti, aiutano a delineare un quadro piuttosto organico della circolazione e utilizzo del materiale librario in città alla fine del secolo XIV, benché dei libri menzionati dall’inventario non sia rimasto più nulla, ad eccezione forse di uno.
Il monastero di Sant’Andrea, fondato nel 1339, appartenne all’Ordine degli Olivetani, sviluppatosi in Toscana dal secondo decennio del secolo XIV sul solco benedettino, a opera del senese Bernardo Tolomei. A Volterra, i monaci, superate le crisi iniziali, divennero nella seconda metà del secolo XIV una comunità ben radicata e attiva in città23. Evidentemente, il loro dinamismo sociale ed economico era fondato su un notevole patrimonio mobiliare e immobiliare, di cui fece parte anche un lauto thesaurus. Diversamente dagli altri monasteri fino ad ora noti, però, l’inventario del thesaurus conventuale ci informa del grande interesse da parte dei monaci nella costituzione di una biblioteca e, soprattutto, della loro fervente (dobbiamo presumere) attività di produttori di codici. Non sappiamo se la biblioteca fosse costituita in un locale particolare del monastero, ma sappiamo certamente che i libri non stavano nella sacrestia, dove erano invece conservati i documenti privati e i registri di amministrazione, all’interno di una cassa. Solo alcuni di essi erano conservati in uno speciale armarium, dato che ci induce a ritenere che i manoscritti fossero conservati in un luogo speciale, separato dalle altre attività del monastero.
Per evidenziare immediatamente il ruolo centrale dei manoscritti nella concezione del patrimonio monastico, basti osservare che essi sono elencati immediatamente dopo i calici, la cui preziosità, oltre che materiale, in quanto la maggior parte era d’argento, è anche di ordine simbolico, dato che essi costituiscono gli elementi fondamentali per la messa, in particolare per l’Eucarestia.
I libri sono 97, cui occorre aggiungere però l’indefinita menzione finale di libri e quaderni di loica e rettorica e regole e belli esempli di ditare. Non si tratta certo di una biblioteca imponente, ma se si pensa che alla medesima altezza cronologica i manoscritti presenti nella biblioteca del convento domenicano di Pisa, cui era annesso uno studium di grandissima notorietà, non superavano il centinaio, si può ben immaginare che gli Olivetani di Volterra detenessero un patrimonio librario di tutto rispetto24. I volumi sono divisi in sette categorie: messali (9 items, uno dei quali dichiaratamente incompiuto); antifonarii (16 items); breviarii (10 items); salterii (15 items); libri di refettorio e quelli dell’armario e quelli che sono ad uso de frati, cioè Bibbie, Passionali, libri di letture per circulum anni (9 items); libri di divotioni: materiale vario di ordine patristico, vangeli, raccolte di Padri e di testi teologici (31 items); libri di grammatica (7 items, l’ultimo dei quali come si è detto riunisce però diversi volumi, non quantificati).
Le principali informazioni sui manoscritti sono relative innanzitutto ai produttori materiali, all’acquisto e al possesso. Abbiamo la menzione di 14 scriptores, dei quali due aretini (scrivono i messali), due di Siena, uno di Prato, due di Volterra, uno di Foligno, uno spagnolo, uno di Mezzano, uno di Milano, uno fiorentino, due di origine non indicata; riguardo allo scriptor fiorentino, frate Agostino, si dice anche che fu legatore, miniatore e scrittore delle parti musicali.
Per quanto riguarda le note sullo status del libro, undici sono relative all’acquisto (due riportano il prezzo, 15 fiorini per un breviario e 16 fiorini per i Moralia di S. Gregorio), 11 si riferiscono a donazioni di libri, quattro al loro (momentaneo) possessore. La pratica di donare i libri al convento, sia da parte di laici, sia da parte dei genitori dei novizi, è pertanto attestata anche nel caso di un convento olivetano, come di solito avveniva per i conventi domenicani. Poco o nulla, invece, si può dire sui prezzi, se non notare la quasi corrispondenza di prezzo (15 fiorini il primo, 16 il secondo) di un breviario secondo la corte e del grande volume dei Moralia in Job di Gregorio Magno, composto da venti libri e scritto in buona lettera. La somma era sicuramente considerevole, ma non grandissima. Per avere un termine di paragone, rimanendo all’interno dell’inventario, si ponga l’attenzione sul fatto che il calice principale del thesaurus conventuale, in argento e oro, smaltato con la figura della Vergine e recante l’epigrafe della proprietà del monastero, fatto fare probabilmente a Bologna dove risiedeva, da Gabriele di Bartolomeo Arrighi di Pistoia, benefattore del monastero anche per quanto riguarda il patrimonio libraio, era costato esattamente il doppio, ovvero 32 fiorini. Più difficile è spiegare lo stesso valore monetario di due merci sicuramente diverse per qualità; allo stato attuale delle nostre conoscenze, si può solo ipotizzare che il secondo volume fosse stato pagato quanto il breviario, perché acquistato da un frate, cioè una persona in grado probabilmente di adire a circuiti produttivi più vantaggiosi. Non è improbabile, infatti, che i frati riuscissero a reperire libri a costi minori che i laici.
Di notevole interesse sono le notizie sui caratteri materiali e testuali. In quasi il 35 per cento dei casi (36 su 97), viene indicata la materia delle carte: carta bambagina, carta di pecora (o pecorina), carta di capretto. Le indicazioni della materia sono più frequenti nelle ultime due categorie, mentre sono assenti nei Libri di refettorio ecc. Sedici indicazioni si riferiscono alla scrittura, qualificata in lettera antica, lettera caduca, lettera grossetto e buona lettera (la maggior parte dei casi). Le notazioni si riferiscono con ogni probabilità al grado di leggibilità e alla sua antichità. All’antichità della scrittura, oltre che allo stato di conservazione, si riferivano le notazioni generali vecchio o antico. Vi sono poi annotazioni sulla rilegatura e sulla coperte in cuoio e sul loro colore; sul formato (piccolo, volume mezzano, Bibbia grande); sulla funzione, come nel caso del brevialotto portareccio, o il breviale che si usa in convento; sulle miniature e la loro qualità.
In sedici casi, oltre al titolo del volume (quasi sempre in volgare, fuorché il solo caso di uno libro di picciolo volume ripieno di molte utili cose, tra i libri di divotioni) e talvolta l’indicazione della presenza del calendario o di testi aggiuntivi, vengono inseriti gli incipit, introdotti dalla frase «lo quale comincia», mentre per i passionari si menziona la prima e l’ultima Vita. Per quanto riguarda il contenuto dei testi, quale si può desumere dalle notazioni dell’inventariatore, non si registrano titoli particolarmente rari. Ovviamente sono presenti tutti i libri utili per le funzioni religiose e per la preghiera, anche quella individuale, corredati da parti cantate e calendari, tutti approvati dalla corte romana o relativi ad ordines canonici (oltre che benedettino-olivetani sono presenti testi esplicitamente camaldolesi): messali e messa letti votivi, raccolte di epistole; salterii; breviarii comuni e speciali per i monasteri (monachini), con copie da usare sia privatamente, che per le funzioni comuni; antifonarii generali e libri con notazioni musicali per vari officia, due martirologi, le costituzioni dell’ordine e la regola di San Benedetto.
Vi sono poi i libri d’uso nei vari momenti della vita monastica, primo fra tutti la bibbia, che è presente in due soli volumi: è interessante a questo proposito notare che il primo volume, con il vecchio testamento dall’inizio fino al libro di Isaia, è descritto come un volume grande, quindi di formato atlantico, scritto con una lettera antica. Si tratta pertanto quasi sicuramente di una bibbia atlantica che i frati acquistarono come unico antico testamento, con funzione probabilmente rappresentativa, più che di vero e proprio utilizzo pratico. Essa veniva pertanto usata, o meglio esposta nel refettorio, come esplicitamente dice l’inventario. Accanto a questo esemplare della bibbia, i frati si procurarono anche un altro volume di formato atlantico, decorato, scritto in buona lettera, espressione che ci fa presumere che fosse un oggetto più recente, forse della fine del secolo XII-inizi XIII, contenente l’antico testamento a partire dal Job e il nuovo testamento, comprese le epistole di San Paolo. Si trattava quindi di un volume non solo di grande formato, ma anche probabilmente di grande densità. Oltre alla bibbia, libri di particolare uso comune, specialmente nel refettorio, erano due esemplari del nuovo testamento, con annessi testuali di calendari e epistole, ripartite per occasioni liturgiche e tre passionali, tutti probabilmente di formato atlantico.
I cosiddetti libri di divotioni comprendevano invece testi di natura patristica, teologica, sermonari, evangeliari, raccolte di leggende, le laudi di Iacopone da Todi, testi di natura normativa (come il De Istitutis coenobium di Giovanni Cassiano), alcuni dei quali commentati e glossati. Tra questi ultimi colpiscono l’attenzione, oltre alle opere di Cicerone, un volume miscellaneo contenente testi di Boezio associati al Libro delli scacchi e detti di Staccha e di Salamone e di Sancto Bernardo e molte medicine di rietro; i trenta gradi della perfezione dello pseudo Girolamo (la copia più antica conosciuta, in volgare, si trova a Pisa, nella Biblioteca di S Caterina) e l’Ars notaria di Rollandino Passeggeri. Quest’ultima menzione, associata a quella dei libri di grammatica, tra cui Uguccio da Pisa, testi miscellanei di grammatici antichi, le Regulae di Goro d’Arezzo, vari testi scolastici, di logica e retorica, nonché schemi per la composizione di opere, induce a pensare che il monastero di S. Andrea costituisse un punto privilegiato per il reperimento di materiale di supporto alla scuola di grammatica cittadina, o che ospitasse una sede di essa.
La centralità del monastero nella produzione e circolazione dei libri è, del resto, attestata da l’ultima parte dell’inventario del 1382, che ai fini del nostro lavoro costituisce davvero un documento eccezionale. Si tratta dell’elenco dei Ferri da scrivere e da legare, che ci suggerisce la possibilità che nel monastero vi fosse una officina di produzione dei codici. I ferri sono in tutto 76: vi sono gli utensili che servono a preparare la pagina, tagliarla, forarla, rifinirla, rigarla, legare insieme i quaderni; inoltre vi sono attrezzi, come le pialle e punteruoli per stampare, per preparare le coperte e quanto serve a dotare le coperte di accessori come le bindelle e i tenoni. Infine sono menzionati gli strumenti scrittori: le penne, i calamai, i temperini, i coltelli per radere, e gli utensili per macinare i colori. Questo elenco basterebbe da solo a far presupporre una sviluppata attività interna di redazione di manoscritti, resa ancora più certa dalla presenza di libri di varia natura nella biblioteca, tutti scritti da frati.
Tra il 27 marzo e il 22 maggio 1400 i notai Giovanni di Francesco e Agnolo redassero gli atti di elezione dei conservatori della Sacrestia della Chiesa di Volterra. Questi ultimi, insieme alle costituzioni della sacrestia e agli inventari dei beni mobili ed immobili confluirono, in copia, in un unico codice, composto in origine di 23 carte (cui se ne aggiunsero poi altre 6 e ulteriori fogli sciolti), vergato in volgare in una bella e chiara gotichetta rotonda. La necessità di avere un inventario “ufficiale” della sacrestia, redatto da un pubblico notaio, era evidenziata nel primo capitolo delle costituzioni, in cui si faceva obbligo ai conservatori della sacrestia di consegnare ogni anno al guardiano della stessa: «per inventario tutte le sacre reliquie, massaritie d’oro e d’ariento e d’avorio e di pietra pretiosa, paramenti, pianete e tutte cose di sita zendado, veluto di fregio d’ariento o d’oro ricamati panni lini e lani, tovaglie, sciugatoi e tovagliuli, libri, massaritie care, cose di ferro e di legno e ogni et ciascuna altra cosa».
Dalla prima rubrica delle costituzioni, non sembra che i canonici e i conservatori avessero un particolare interesse per i manoscritti, che compaiono menzionati di sfuggita dopo i tovaglioli. Lo spazio riservato ad essi nell’inventario, redatto nel 1417 dal notaio Antonio di Pardo, lascia invece intendere che un grande peso i manoscritti nell’economia della sacrestia lo avessero. L’inventario di essi, infatti, fu collocato subito dopo quello delle «reliquie e arienti» e precedette quello dei paramenti liturgici e dei paramenti degli altari maggiori. Tra le reliquie e arienti, inoltre, sono collocati due manoscritti molto preziosi, utilizzati durante le principali funzioni liturgiche in cattedrale, il cui valere evidentemente risiedeva nella coperta: si tratta di un evangeliario con coperta anteriore di argento e posteriore con una raffigurazione della natività, e di un epistolario con tavole di argento e raffigurazioni sacre in entrambe le coperte.
L’inventario dei «Libri di dicta sacrestia» è costituito da 80 item (gli ultimi 12 sono frutto di aggiunte posteriori, probabilmente di metà Quattrocento), per un totale di 95 manoscritti, cui si deve aggiungere un gruppo di quantità generica di «libriciuoli di pocha valuta» (item 70). Dei libri si dà notizia di:
– tipologia testuale (i gruppi di testi che sono percepiti come fortemente unitari confluiscono in un unico item)
– formato: piccolo, piccolino, grande, di media statura
– eventuali segnali di antichità del manoscritto
– presenza eventuale di note (notazione musicale) e di chiose (glosse, commenti marginali, note liturgiche)
– colore dell’inchiostro delle lettere iniziali (rosse, azzurre, gialle)
– prime parole dell’incipit
– eventuali testi che palesemente risultano aggiunte posteriori o mancanza di carte
– notizie sulla copertura
– l’indicazione sulla materia, quando i manoscritti sono di carta e non di pergamena
La maggior dei libri inventariati sono in pergamena e contengono testi di carattere liturgico, utilizzati durante le funzioni vere e proprie; in questo gruppo sono compresi messali, breviari, antifonari, passionari e Vitae Patrum, innari con notazioni musicali, epistolari ed evangeliastari con pericopi liturgiche, salteri; vi sono poi libri che servono ad organizzare l’anno liturgico: ordines e pontificali (cui devono essere aggiunti alcuni calendari, che non si presentano mai da soli, ma sono inseriti nei manoscritti liturgici). Di grande rilevanza risulta essere anche la serie di codici che serviva da corredo all’attività liturgica e all’attività di studio personale dei canonici, ovvero i diversi commenti biblici (sia al Vecchio che a Nuovo Testamento), taluni dei quali sono sicuramente glosse ordinarie (soprattutto ai Vangeli e a San Paolo) e Catenae Aureae, e le raccolte di sermoni ed omelie, per la predicazione episcopale. L’attività della canonica e dell’episcopato era supportata anche dalla presenza di raccolte di canones: nella Libreria della sacrestia ne sono presenti almeno due, la Summa decretorum di Uguccione25 e (ma non vi è certezza) la Collectio canonum di Anselmo di Lucca26. In sacrestia erano inoltre presenti libri di altro genere, con funzioni di studio o di preparazione spirituale: un gruppo di libri di corredo intellettuale, come una copia (forse) della Divina Commedia, il De Aritmetica di Boezio e un trattato musicale dello stesso. Di ordine pratico e memoriale doveva essere invece il Libro de morti, cioè probabilmente un necrologio della cattedrale.
L’inventario, purtroppo, non riporta indicazione sulla collocazione materiale dei libri all’interno della Sacrestia, né tantomeno note relative alla fruizione degli stessi e alla possibilità che essi venissero prestati o utilizzati come pegni, come si è visto nel caso di S. Giusto. In effetti, l’inventario potrebbe aver tralasciato alcuni manoscritti, utilizzati dai canonici o dal vescovo personalmente, o non conservati nella Sacrestia, ma nel coro o nella residenza vescovile.
Tra 1521 e 1614 venne redatto un nuovo Inventarium rerum mobilium et immobilium Sacrestie ecclesiae Volterranae, che ci fornisce un’immagine totalmente ridimensionata della biblioteca dei canonici. Infatti, nella parte riservata ai libri della Sacrestia, risalente al 1521, sono contenuti solo 34 codici, gran parte dei quali Quattrocenteschi e dei primi del Cinquecento. Probabilmente, la drastica diminuzione, deve essere imputata ad una appropriazione personale da parte dei canonici dei codici più antichi e non più utilizzati in fase liturgica, che quindi non si riteneva più di dover conservare “ufficialmente” in Sacrestia, sia ai già menzionati sconvolgimenti bellici della seconda metà del Quattrocento.
Concludendo, bisogna porsi la domanda fondamentale per il nostro percorso: vi sono corrispondenze tra i libri inventariati nel 1417 e nel 1521 e i manoscritti effettivamente conservati oggi nella Biblioteca Guarnacci, nell’Archivio Diocesano e nel Museo d’Arte Sacra di Volterra? Alcune corrispondenze in effetti vi sono, come abbiamo evidenziato nell’edizione dell’inventario del 1417 (con rimandi a quello del 1521), per circa il 13%. È un percentuale molto bassa, indice di una grandissima dispersione, ma bisogna anche considerare il fatto che altre corrispondenze, probabilmente, vanno cercate nei molti frammenti presenti nelle coperte dei registri comunali ed ecclesiastici del Cinquecento e del Seicento (cfr. note all’inventario, con le ipotesi identificative).