Le ragazze di San Lazzero

Entravano a sciami dalla porta a Selci, allegre, loquaci come cicale inebriate dal sole d’estate.

La dura e ripida salita di oltre cento scalini che dal Borgo accede in città, non scalfiva minimamente il loro innato buonumore. La brezza accarezzava le loro chiome bionde, brune, castane, naturalmente ricciolute; le vesti leggere ondeggiavano sulle gambe appena appena brunite; i volti puliti e senza trucco avevano nella loro semplicità, la freschezza e la bellezza rara dei fiori di campo appena sbocciati. Chiamavano le amiche che si affacciavano alle finestre delle prime case per poi subito scendere ed unirsi al gruppo. Anche i loro nomi avevano una poesia antica, genuina ed agreste: Assunta, Olga, Carolina, Maria, Rosa, Renza…

Saranno stati i vent’anni o forse i loro corpi resi esili dalla scarsa alimentazione sofferta nella lunga guerra da poco finita o semplicemente la gioia di trovarsi per andare insieme verso la vita, certo non sentivano la fatica e non c’era alcun ansito nelle giovani voci.

Con l’entusiasmo di chi si preparava ad una festa andavano nella gloria della strada diritta e soleggiata in quei dorati vesperi estivi. In fondo le attendeva il miraggio dei sogni cullati a lungo nel segreto del cuore, sfogliando furtivamente le pagine dei primi fotoromanzi. La musica che usciva dalle stanze a pianoterra sulle note del “Bogie” e di “Rosamunda” era per loro il preludio ad un incontro intensamente sognato. Tutta la voglia di vivere stava in fondo alla strada, pulsava frenetica nel cuore della città che a quell’ora s’andava animando sempre più perché, seguendo un’antica e familiare tradizione, tutti amavano fare prima di cena quattro passi per il Corso principale, nella piazza larga e spaziosa o prendere il fresco sul muretto del Ponti da dove, nei tramonti sereni, si vede luccicare il mare non lontano e qualche isola che si staglia all’orizzonte.

A quell’ora tutta la città pareva darsi convegno in questi punti nevralgici: gli alabastrai, senza neppure cambiarsi, si scuotevano alla meglio la polvere bianca dai pantaloni e salivano baldanzosi la Porta all’Arco per andare a sedersi sui gradini dei bar in “via Guidi” e occhieggiare da lì le belle ragazze che passeggiavano avanti e indietro, ammirando ed ammirandosi con allegro cicaleccio.

Quei tempi lontani cosi pieni di ebbrezze misteriose mi sono tornati d’improvviso alla memoria, percorrendo queste stesse strade un sabato sera.

Entrando in città da Porta Fiorentina avevo lasciato dietro di me un paesaggio d’incomparabile bellezza leonardesca: le grandi vallate che s’aprono verso il piano, laggiù dove silenzioso scorre l’Era, un susseguirsi di poggi dove fra il verde scuro di alberi secolari, occhieggiano le pietre grigie di minuscole chiese come Santa Margherita, di tabernacoli, di rustici cascinali dai portici fioriti: visioni di serenità e di pace che allargano il cuore!

Ma che tristezza trovare poi la città deserta.

Quasi tutti i negozi sono chiusi, nessun cartellone colorato reclamizza il film della domenica sul portone del Cinema Centrale, non s’ncontrano persone con cui scambiare un saluto; solo qualche turista straniero cammina guardandosi intorno stupito e incantato.

Il tempo sembra sospeso fra un passato ove s’intrecciano dolore e memorie di giorni irrimediabilmente perduti e un futuro dalle realtà incerte e sterili.

Penso che sarebbe bello se la vita somigliasse all’eterno ciclo dell’acqua; forse un giorno queste strade risuonerebbero ancora di giochi di bimbi, di risa argentine di ragazzi, di suoni festosi, di musica e ritroveremmo le atmosfere d’allora!

Ma va calando la sera; i rossi bagliori del sole al tramonto, filtrando tra i cupi abeti del Giardinetto, inondano di riverberi d’oro le facciate dei palazzi dalle cui ogive grondano cascate di gerani fiammanti.

Un tempo, in queste prime sere d’estate sulle aie, nelle piazzette dei villaggi, seguendo forse un antico rito pagano, si accendevano i fuochi propiziatori all’approssimarsi della mietitura; ora anche quei falò che ardevano alla luna sono un lontano e sbiadito ricordo. Ma, mentre sta per discendere una nuova magica notte delle solitudini volterrane, come stridono le rondini sui cornicioni delle chiese, nella sera di San Giovanni!

A.M. Belcari