Chiedo ospitalità per rispondere brevemente a delle domande che mi sono state poste da alcuni giovani. Sono le stesse che questi avevano rivolto prima ad alcuni anziani volterrani, ottenendo frammentarie spiegazioni e risposte non convincenti accompagnate da qualche commento non lusinghiero nei riguardi dei soldati americani di allora.
> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano
Ecco alcune domande:
a) E’ vero che Volterra non aveva alcuna importanza strategica?
b) Sappiamo, per averlo letto, cosa avveniva nella nostra città nei tristi giorni dell’emergenza. Siamo a conoscenza se non di tutti gli avvenimenti almeno di quelli più importanti che si svolgevano al di qua delle linee. Ma non sappiamo niente di cosa accadeva al di là di queste. Cosa può dirci in proposito?
c) Gli americani oltre che a cannoneggiare per diversi giorni Volterra cos’altro fecero?
d) Sostennero una vera battaglia? In tal caso ebbero perdite? Perché indugiavano a salire?
e) Quale corpo appartenevano tanto gli uni che gli altri armati?
Nella descrizione che segue tento di sciogliere parte di questi interrogativi. Tengo a precisare che lo faccio non per spirito di parte o per gusto di polemica, ma solamente per amore della verità.
Utimi giorni di giugno 1944.
«La 1° Divisione Corazzata Americana avanza verso Volterra, difesa dalle truppe del XIV Panzerkorps germanico. Durante l’attacco è sostituita dalla 88. Divisione di fanteria che occupa la città l’8 luglio.»
Da questo breve e asciutto bollettino di guerra non c’è da capirci un granché sull’importanza più o meno strategica della nostra città.
Certamente Volterra non poteva più avere l’antico e sempre ristretto valore politico – militare, ma nemmeno, in una visione più ampia del teatro di operazioni, avere la considerazione di «baluardo inespugnabile» da bloccare addirittura il fronte e arrestare per lungo tempo l’avanzata alleata, come era avvenuto per esempio a Cassino.
Eppure c’era qualcosa che la faceva ritenere importante. Per capire cosa, bisogna che mi ponga a mia volta una domanda e tenti, dopo, di dare una risposta ragionata: «Perché i soldati tedeschi vi resistettero più a lungo possibile?». Sicuramente non per aver tempo di ammirare i nostri bei monumenti, o per godersi il panorama con i soldati americani visibili a tiro di cannocchiale, ma perché sfruttando il suo aspetto di roccaforte, i suoi punti di osservazione che gli permettevano una veduta di 15 miglia in ogni direzione, la serie di montagnole e colline intorno e il terreno accidentato potevano rallentare il passo ai nemici.
Proprio la sua «posizione strategica» permise loro di stabilirvi una efficiente linea difensiva e tenere in scacco quasi una intera divisione americana. Naturalmente in tutto questo c’era un motivo più sostanziale e Volterra era semplicemente una pedina di una operazione più ampia, cioè: ai tedeschi stavano a cuore le parti a sud e a ovest di Firenze per dar tempo al corpo principale dell’armata di attraversare l’Arno senza essere circondato.
«Ad est, i francesi e gli inglesi si dirigono verso Firenze – ad ovest reparti americani, liberata Cecina, si dirigono verso Livorno e Pisa. Nel settore centrale altri soldati americani hanno un importante lavoro da svolgere, la vecchia cittadina etrusca di Volterra è il principale obbiettivo» – così riportava un comunicato.
Pertanto, contrariamente al giudizio semplicistico dell’opinione pubblica, la presa di Volterra era essenziale per gli alleati come lo era per i tedeschi mantenere tale posizione più a lungo possibile.
A parer mio c’era e tutt’ora c’è in molti concittadini la convinzione che «quegli americani» siano stati 10 giorni all’ombra dei loro cannoni ad attendere che i nazisti, martellati di continuo, cessassero la loro debole difesa e si ritirassero. A questo punto loro avrebbero fatta una passeggiata (con il fucile in spalla proprio come ce li mostra una foto che tutti conosciamo) fino nel cuore della città.
E’ doveroso portare nella sua giusta luce questa vicenda che, dobbiamo ammetterlo, fa parte della nostra storia. Devo anche sfatare quella opinione che è diventata ormai una novella, e cioè: un solo cannone tedesco, trainato da un punto all’altro della città, era stato capace di tenere a bada per un vasto raggio e per tutta la durata del fronte, e non in ultimo come in effetti avvenne, un avversario più numeroso o e più armato.
L’88° divisione di fanteria statunitense, la stessa che aveva liberato Roma, venne fatta pervenire da Tarquinia dove si trovava in riposo-esercitazione e portata nottetempo a sud di Volterra. Mentre la 1° divisione corazzata si ritirava dalla linea del fronte per essere inviata a Napoli per partecipare all’operazione «Anvil», i fanti dell’88° si attestavano sulle posizioni con il compito di espugnare la nostra città.
Inizialmente vennero assegnati a questo scopo due reggimenti, di cui uno doveva fiancheggiare la città sul lato destro e l’altro su quello sinistro, mentre un terzo doveva rimanere di riserva. Poi ancora alcuni battaglioni di artiglieria da campo, mezzi corazzati, un reparto da ricognizione e un reparto medico.
Era la mattina del 5 luglio 1944 quando ebbe inizio la vera e propria «battaglia di Volterra».
I soldati della 5° armata avanzavano su un terreno ondulato con rifugi insufficienti. Molti gli ostacoli che dovevano superare. I campi minati si susseguivano l’uno all’altro.
I soldati del Panzerkorps dalle loro posizioni fortificate non facevano fare progressi ai loro nemici. L’assalto frontale contro la «formidabile catena di colline coronata dalla vecchia città di Volterra» era duro. Lajatico era inespugnabile ed era teatro di violenti combattimenti.
In città quando udivamo il rumore della «cicogna» (piccolo aereo osservatorio americano) per noi era un sollievo perché ogni volta che sorvolava le linee aveva il pregio di attenuare il cannoneggiamento. Questo era il momento di uscire dai ricoveri per andare in cerca di cibo o di un parente, o a vedere se la nostra casa era ancora in piedi
Eccetto questa benefica parentesi, che generalmente si apriva nelle ore centrali della mattina, in città vivevamo momenti disperati, oltretutto c’era l’incubo del bombardamento. Questa notizia rimbalzava da un rifugio all’altro e pare che anche i tedeschi paventassero questo timore. «Ci faranno evacuare la città o ci faranno morire in queste tane come talpe?» – ci chiedevamo. «Si dice che in certi casi avvertirebbero la popolazione con un lancio di volantini». Quanti «si dice» e quanti «perché?».
Continuavano i duelli di artiglieria e pertanto cadevano in città centinaia di proietti sparati da postazioni ormai vicine. Ancora morti, feriti e spaventi. Le cannonate segnavano il tempo e questo non passava mai nel senso voluto. Ogni giorno era più terribile dell’altro e ci chiedevamo se sarebbe stato l’ultimo.
Qualcuno dai nervi a pezzi cambiava rifugio ogni notte con l’illusione che quello sarebbe stato più sicuro.
Quanta fame! Quanti disagi in quelle cantine, androni di palazzi, corridoi bui a pianoterra, sottosuoli umidi con scarafaggi e topi che ci tenevano compagnia la notte. C’è chi dormiva per terra, chi sopra una cassa o chi stava perennemente seduto. I più fortunati erano riusciti a trascinarsi giù la materassa e portato un fornello a carbone. L’acqua e l’igiene personale un vero problema.
Fuori c’erano dei coraggiosi che portavano aiuto. C’erano anche i tedeschi armati che rubavano nelle case e nei negozi e qualcuno molestava le donne. Non c’erano i fascisti: erano fuggiti al nord.
Quanto chiasso, fumo e macerie in ogni via. Ci consolava il pensiero che presto tutto sarebbe finito, ma quando? «Quando vengono gli americani?» – ci domandavamo ancora con angoscia «Ma che fanno? Che aspettano?».
I fanti dell’88. finalmente fuori dalle mine e con l’artiglieria che batteva l’area di bersaglio sputando fuoco a ovest e a sud-est della città, iniziarono l’attacco su un terreno in gran parte accidentato. I tedeschi opponevano una accanita resistenza e i loro contrattacchi erano respinti con forti perdite per gli attaccanti.
Alla compagnia scelta per guidare l’attacco finale venne dato come obbiettivo Roncolla. Incontrarono posizioni fortificate. Ci fu battaglia sul campo scoperto. Uccisero e catturarono la metà dei difensori di quell’agglomerato di vecchie case.
Dalla nostra frazione, divenuta importante per quel cerchio rosso tracciato sulla carta militare intorno al suo nome venne organizzata una pattuglia di 30 uomini con l’ordine di procedere verso la città. Per tutto il giorno ci furono cruenti scontri con morti e feriti da ambo le parti. Altri Krants si arresero.
I colpi di cannone in partenza dal nostro poggio si erano diradati. Quelli in arrivo si concentravano ogni volta in un punto diverso: seguivano inesorabilmente, nei suoi spostamenti, il cannone semovente avversario.
Prima dell’attacco alleato, i soldati della Wermacht «avevano ammassato davanti a Volterra artiglieria di tutti i tipi e ne stavano facendo più uso che mai». II loro osservatorio, dall’alto della fortezza, era di un’efficienza straordinaria. I tedeschi dovettero tenere la posizione anche quando era divenuta insostenibile, così «quel cannone» era l’unico mezzo (eccetto che pochi mortai) di difesa e di disturbo rimasto. Faceva parte della retroguardia. Adoperato con maestria da elementi ritardatori, aveva lo scopo di far credere all’avversario che la loro presenza sul «poggio» era ancora forte mentre in effetti non lo era più perché avevano iniziato a ritirarsi. Si capiva bene che cercavano di guadagnar tempo per dar modo ai loro reparti di attestarsi al di là dell’Era.
Il comando della piazza si affrettava a lasciare Volterra per non rimanere dentro la morsa che si stava lentamente serrando. L’unica via rimasta ancora libera era quella verso Nord.
In quel mentre forti pattuglie americane avanzavano a ventaglio con l’intento di bloccare le entrate e occupare la città. Il fragore delle cannonate si era affievolito. Il tiro allungato, si stava aggiustando su nuovi obbiettivi. Villamagna cominciava ad essere battuta.
(Ora seguiamo più da vicino quei fanti che stavano per entrare per primi in Volterra).
All’alba di un giorno per noi incancellabile nella memoria, la pattuglia dell’88° si mosse verso S. Lazzero salendo lungo un sentiero, evitando di proposito la strada principale devastata dalle esplosioni causate dalle mine e colpi di cannone.
Nel contempo i guastatori tedeschi stavano completando la loro opera, udimmo gli ultimi boati. Il silenzio che seguì lasciava presagire qualche avvenimento inconsueto.
Gli americani seguitavano a salire senza incontrare ulteriori difficoltà.
La notizia del loro arrivo dilagò. La gente a poco a poco uscì dai rifugi. Si riversò nelle strade, dapprima incredula, poi titubante nel vedere quei soldati con indosso una divisa e un elmetto che non avevano mai visto, poi, esultante di fronte alla certezza che tutto era finito, che i «liberatori» avrebbero fatto cessare le infinite trepidazioni e anche la fame, le paure, i lutti e le tante sofferenze causate da una guerra catastrofica.
I fanti con l’emblema della 5° armata attaccato ad una manica della camicia, ben armati, comminavano lenti e guardinghi per le nostre vie. Dimostravano di apprezzare i nostri saluti, le nostre grida di gioia e i sorrisi. Lungo il percorso da un capo all’altro della città, ricevettero anche degli abbracci. C’era chi donava loro i fiori, chi bicchieri di vino conservato per l’occasione.
I soldati delle pattuglie che seguirono e, dopo del tempo, quelli del grosso della divisione con i loro comandanti, si dimostrarono subito generosi e più socievoli.
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L’ultima guerra dominata dai progressi tecnici, di trasporto, da mezzi di offesa e di difesa micidiali, nonostante la concezione di guerra moderna questa non è mai stata su grande scala. La guerra è fatta di piccole battaglie, di scontri di pattuglie, rosicchiando il terreno palmo a palmo, contendendosi un ponte, una strada, una casa. E’ fatta di perlustrazioni, di ore passate nelle buche, di privazioni di ogni genere, di vera paura e anche di azioni audaci.
Intorno a Volterra si svolse veramente la «guerra guerreggiata» e questa dette luogo ad atti di eroismo sia da una parte che dall’altra. Per quanto riguarda gli americani, due fanti dell’88° vennero decorati per una azione di valore, fatta proprio a poche miglia dalla città.
Voglio concludere con le parole pronunciate dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, John Volpe, durante le celebrazioni del Memorial Day al cimitero militare americano di Firenze: «Ricordo l’importanza del sacrificio di quanti caddero combattendo per permettere ad altri di vivere in libertà. In particolare voglio ricordare tutti quei militari americani, di origine italiana, che combatterono e morirono per riscattare dalla dittatura quella che era la loro terra di origine; insieme a loro hanno combattuto e sono morti per “l’ideale di un mondo libero per sempre da paura, bisogno e guerra” anche altri italiani, a tutti questi caduti deve essere rivolto il ringraziamento di quanti per iI loro sacrificio possono oggi vivere in libertà».
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