Nel 1619 dimoravano nell’abbazia di San Giusto nove monaci dell’Ordine benedettino camaldolese e cinque di loro, che erano sacerdoti, si occupavano delle liturgie delle due chiese di competenza, San Giusto al Botro e San Salvadore del monastero. Affiancava la comunità nei lavori materiali un nutrito gruppo di laici: il cuoco Giovanni da Galatrona (Bucine, Arezzo), il garzone e vetturale Nanni che si occupava del muletto, dell’asino e del cavallo, i fornai Lucia di Fattore e Goro di Giusto di Goro che rispettivamente facevano il pane e lo cuocevano in Badia, la lavandaia Lisa di Nanni Birrozzi per i bucati e il barbiere Lodovico di Francesco di «Grintarnio» per le rasature. In più il medico maestro Lazzero si occupava degli infermi e fra Niccolò Buonvicini da Pescia era il suonatore degli organi di una o di entrambe le chiese.
Così è riportato in un estimo manoscritto, che ricorda tra l’altro le spese più comuni del monastero e le uscite particolari per le feste solenni, ovvero quella cosiddetta «principale di casa», S. Giusto di maggio, con numerose messe e altrettanti ospiti, e l’altra di San Giusto di mezza Quaresima, cioè del giovedì della terza settimana. La quarta domenica di Quaresima invece si somministrava ai poveri pane o grano e ciò forse aveva un’eco lontana nel miracolo operato da Giusto e dai compagni al tempo dell’assedio dei Vandali, quando i barbari furono privati del frumento e i cittadini affamati ne ebbero pieni i magazzini.
Gli eventi particolari furono il motivo anche delle «ricognizioni», ovvero dei doni riconoscimenti fatti ai preti secolari che partecipavano alle cerimonie pubbliche della chiesa di San Giusto al Botro. L’abbazia consegnava mezza libbra di pepe al capitolo della Cattedrale, una libbra d’incenso al capitolo dei chierici, del denaro ai cappellani che erano in tutto 22; e in più si scrive «berlingozzi e libbre otto di confetti» (zuccherini) per tutto il capitolo al tempo della «colletta» (la richiesta di sovvenzioni). Comunissimi all’epoca, i berlingozzi a forma di ciambella avevano come ingredienti uova, fior di farina e zucchero ed erano caratteristici proprio delle cucine dei conventi, come si trova scritto anche in un lungo elenco di doni di nozze redatto a Firenze l’8 giugno 1466: «Da più e più monasteri, zuccherini e berlingozzi assai».
Le ricognizioni al Capitolo si interruppero al tempo di una controversia su alcuni oggetti di devozione restati in San Giusto dopo la caduta di parte della chiesa nella voragine del Botro (1627). I canonici, che ne erano i proprietari, per molti anni non avevano preso alcun provvedimento per la loro salvaguardia e solo tra 1649 e 1650 avevano autorizzato a depositare nella chiesa dell’abbazia un crocifisso molto venerato, una tavola antica raffigurante il santo titolare – entrambi ormai «maculati» dalla neve, dalla pioggia e dal gelo – e il corpo reliquia del beato Iacopo Guidi.
Il definitivo contratto di custodia fu stipulato il 7 giugno 1652, ma i camaldolesi, per nulla contenti, si premurarono di ricordare per scritto la proprietà morale degli oggetti e i lavori intrapresi dai monaci antecessori durante ben «540 anni» di «pacifico possesso» di San Giusto Vecchio e della sua cura d’anime.