La peste che infierì a Volterra e nei Borghi tra il maggio 1631 e il febbraio 1632 provocò più di millecento morti. Le autorità pubbliche e di Sanità, benché preavvisate, non riuscirono ad evitare la diffusione del morbo. Furono determinanti la povertà di mezzi, la scarsa conoscenza delle norme igieniche, la noncuranza da parte di tutti delle leggi speciali e dei divieti. Tali problematiche sono ricordate, assieme alle notizie sullo svolgersi dell’epidemia, in due bei saggi scritti da Maurizio Cavallini nel 1915 e da Mario Battistini nel 1916.

MONNA ANSIDONIA E LA PESTE DEL 1631

Non è invece riportata da questi autori una breve memoria che rivela anch’essa la crudezza dei tempi. Si trova nel Libro dei Suffragi della parrocchia di San Pietro in Selci, scritta per mano del curato don Domenico Vadorini di Pomarance. L’ 11 giugno 1631 – riporta la pagina – monna Ansidonia moglie di un certo Giovanni Antonio e «serva già del Cancelliere della Communità», morì in «Corrente, o Correntino nella strada, dove era stata dal dì otto insino al dì undici soprascritto, giorno e notte per non si poter muovere, essendo stata bannata». «Bannata» voleva dire bandita: ovvero la donna era stata espulsa dalla città, forse perché sospettata di essere affetta dalla peste, anche se il ricordo non lo dice direttamente. Immaginiamo in quali condizioni visse e che misere speranze avesse in sé Ansidonia nei quattro giorni passati all’aperto, in un luogo, nella zona di San Girolamo e Roncolla, dove allora imperversava proprio un violento focolaio di epidemia.

Tuttavia nella sventura la poveretta non fu dimenticata. L’11 giugno giunsero a Corrente degli uomini mandati dai Deputati della Sanità per condurla «al coperto, acciò fusse curata come conveniva». L’intenzione doveva essere quella di sistemarla nello spedale, in quanto il lazzaretto non era ancora pronto (lo sarebbe stato nel mese di luglio, a Montebradoni).

Purtroppo la donna morì proprio quel giorno. Tralasciando di informare i Deputati dell’accaduto, gli uomini subito ne seppellirono il corpo in una fossa. Tale negligenza provocò in certo disappunto in don Vadorini, come traspare dalla memoria. Né si poteva dargli torto: all’epoca i parroci sentivano fortemente il dovere di celebrare i suffragi per tutti i defunti, affinché nessuna anima andasse perduta. Ma, nel caso di monna Ansidonia, i riti funebri erano stati anticipati dalla sepoltura.

Tuttavia, il 12 giugno, forse considerando il degrado dei tempi e la misericordia divina, il curato e i cinque preti che erano venuti con lui compirono ugualmente, «conforme all’Ordine del rituale romano», le «funtioni solite» e benedirono la fossa dove la povera donna riposava.

© Paola Ircani Menichini, PAOLA IRCANI MENICHINI
Monna Ansidonia e la peste del 1631, in “La Spalletta”, a. 2 marzo 2013

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