Nel marzo 1973 si celebrava il III centenario della morte di Salvator Rosa. Questa circostanza, l’amore per la stupenda campagna volterrana e la simpatia istintiva che ho sempre nutrito per un pittore così “romantico”, polemico, estroso, contestatore, indipendente e vivace mi hanno spinto, ormai da diverso tempo, a ripercorrere gli itinerari, le stanze ed i luoghi ove il Rosa visse durante gli anni della sua permanenza a Volterra e nelle sue campagne, ospite dei Maffei.


SULLE ORME DI SALVATOR ROSA

Sulle relazioni intercorse tra il pittore napoletano e la famiglia volterrana Maffei rimando all’articolo del prof. Lucio Festa pubblicato sul numero XII del 1963 della rivista “Volterra”. Al riguardo aggiungo solo che Salvator Rosa, oltre a Giulio il mercante, a Marc’Antonio il politico, a Giovanni l’arcidiacono, a Ugo il bellimbusto scavezzacollo, a Lodovico il pacifico, conobbe anche Francesco Maffei, il cappuccino morto missionario nel Congo (vedasi Storia del convento dei Cappuccini sul numero IX dell’anno 1971 di “Volterra”).


LE RAGIONI DELLA DIMORA A VOLTERRA

Perché Rosa era venuto a Volterra e ci si fermò ripetutamente per periodi più o meno lunghi dal 1641 al 1650?

Il pittore era fuggito da Roma ove si trovava da diversi anni per trarsi fuori dagli intrighi e dalle polemiche («… a Roma c’è solo abbondanza di quadri, speranze e baciamani»). Su invito di Fabrizio Pier Mattei (o Permattei), incaricato dal principe cardinale Gian Carlo dei Medici era venuto a Firenze; ma se nella città del Giglio aveva trovato il suo rifugio nell’esilio, il vero asilo fu Volterra. A Firenze si era trovato bene. Aveva preso in affitto una casa al Canto dei Cigni presso la Croce al Trebbio. Aveva stretto amicizia con numerosi intellettuali che vivevano a Firenze: tra gli altri con Antonio Abati da Gubbio, Carlo Roberto Dati, Paolo Minucci, Francesco Rovai, Andrea Cavalcanti, fra’ Reginaldo Scambati, dott. Lasagnini e molti altri artisti, letterati e pittori. Baldinucci nella Vita di Salvatore dice che quella casa era divenuta “l’abitazione della giocondità, mercato dell’allegria”.

In Firenze aveva incontrato Lucrezia Paolini (o Paolina), la donna con la quale convisse per tutta la vita; che gli diede vari figli e che egli sposò solo in articulo mortis nel 1673. Una bella serva sotto il nome di governante era allora un necessario accessorio nel modo di vita di un celibe, laico od ecclesiastico che fosse. Lucrezia Paolini era bene educata, bella: fu dapprima richiesta come modella per le ninfe, le vergini, le pitonesse dei quadri rosaiani; poi divenne quasi subito governante ed amante. Si stabilì in casa del pittore. Gli amici di lui la trattavano come una donna maritata. Essa gli cedette, forse non senza resistenza, e gli fu poi sempre fedele. Poco dopo aspettava un figlio. I cortigiani, la gente bene di Firenze avevano fatto ormai l’abitudine ai bastardi. Ma ipocritamente volevano salvare certe apparenze. Si cominciò a chiacchierare, a scandalizzarsi. Forse l’invito ad andare a Volterra che da qualche tempo gli rivolgevano i Maffei, i fratelli Ugo e Giulio, cadde proprio a proposito. Questi nobili volterrani erano gente alla mano, amanti della caccia, delle burle, della buona tavola, delle battute spiritose ed intelligenti.

La signora Lucrezia fu accolta a Volterra come una moglie. Quasi certamente il figlio primogenito di lei, Rosalvo, nacque a Volterra nell’estate del 1640. In alcune lettere il Rosa chiama Giulio Maffei e la moglie Giovanna padrino e madrina. Rosalvo fu battezzato tra noi («Bello signor compare non so che farò rispetto al bambino, il quale, per averlo spoppato non vuol stare altro che con la madre»).

I gusti e le inclinazioni più intimi del Rosa trovarono sul colle etrusco particolare corrispondenza.

Scriveva nelle Satire:

«Sotto ogni ciel padre comune è il sole
là state all’ombra e il pigro inverno al fuoco.
Tra modesti desii l’anno mi vede
pinger per gloria o poetar per gioco».

È qui rappresentato il cliché di vita a Volterra. Egli non amava le corti. Era incline a frequentare gente di sua scelta, più sul piano dell’amicizia che su quello della gretta convenienza. Non si illudeva su quello che piaceva a certa gente che egli disprezzava:

«Piovono ai porci qui le margherite
e in tutti i tempi gli uomini migliori
col pane ci hanno una continua lite».

A Volterra il suo spirito scontento, burrascoso, amaro, triste nel fondo ma vivacissimo, trovò l’ambiente ideale. D’inverno al fuoco nel Palazzo Maffei (in Via Matteotti) a parlare, recitare a fare il regista e l’attore durante il carnevale; d’estate all’ombra nelle campagne di Barbaiano, di Luppiano, di San Donnino e di Monterufoli, nelle numerose ville o case di campagna dei Maffei.


IN MEZZO AD UNA DELLE PIU’ BELLE CAMPAGNE D’ITALIA

Bisogna essere stati, e non basta una sola volta, in questi luoghi che ancora conservano abbastanza dell’antica lussureggiante e selvaggia vegetazione per intuire ciò che provò Salvator Rosa in mezzo a questa splendida natura, o sotto il sole infuocato che filtra tra i rami lungo le rive dei torrenti Fosci o Adio e dei numerosi botri e cascatelle, o nella fitta, cupa ombra delle boscaglie, o nei miraggi da fata Morgana ove sul colle lontano della città o su altre colline compaiono castelli, torri, palazzi, rovine. Le Ottobrate della caccia dei fratelli Maffei erano famose: mi hanno raccontato a San Donnino che sono durate fino alla fine del secolo scorso.

Dinanzi a questi paesaggi si capisce il fascino che esercitò la campagna di Volterra sul Rosa ed il fascino che il Rosa, che ad essa si ispirò, ha esercitato sugli spiriti nordici o straneri (danesi, svedesi, inglesi, tedeschi).

Un poeta inglese moderno, Thomas Dylan, nella sua composizione Poesia d’Ottobre (Oscar Mondadori, pp. 141-142), esprime sentimenti e stati d’animo su paesaggi che ricordano il profumo, la poesia dell’ottobre volterrano che godette il Rosa, anche se, ovviamente, si trattava di paesaggi diversi:

Una fiorita d’allodole in una nuvola ondosa
e sulle prode i cespugli che traboccan di merli
fischianti e il sole d’ottobre
estivo
sulle spalle della collina.
Qui erano amati climi e dolci cantori giunti
improvvisi nel mattino dove vagavo ascoltando
il freddo soffio del vento
spremere la pioggia
nel bosco lontano sotto di me.

Rosa, infatti, nelle prime ore del mattino andava a caccia. Il resto del tempo, fino al pranzo, era impiegato nello studio e nelle composizioni. Racconta il Baldinucci che da Volterra portò via una montagna di schizzi. Nel pomeriggio chiacchierava e passeggiava. Erano ore, giorni, mesi felici quelli volterrani. Alla sera, alla cena, intervenivano spesso gli amici fiorentini. Tra essi Antonio Abati, poeta, Filippo Acciaiuoli, drammaturgo e librettista, Pietro Cesti, musicista, conosciuto a Volterra in casa Maffei, che nel 1645 entrò nel convento dei Francescani di Volterra (San Francesco) come maestro di cappella e che poi fu insegnante di musica nel Seminario della stessa città. Le ore passavano felici.

La sera dalle 22 in poi il Rosa, aiutato dal vino e dalla gioia, dominava la conversazione con la sua napoletana vivacità, mentre dalla campagna e dai boschi silenziosi singhiozzava il cuculo e spirava la fresca brezza della sera. Era felice, con gli amici, lontano dalle preoccupazioni e dagli intrighi di quel mondo cortigiano che disprezzava, isolato in quel luogo pieno di bellezza e di delizie con colei che amava.


BARBAIANO E MONTERUFOLI

I luoghi volterrani che più spesso ricorrono nelle lettere del Rosa ai Maffei sono Barbaiano e Monterufoli. Barbaiano fu venduto per trecento fiorini d’oro nel 1516 dagli Inghirami ai Maffei che vi costruirono una casa di campagna. Rosa rimpiange “le balze Monterufoliane e Barbaiane” nelle lettere a Giulio Maffei dell’8 luglio 1642, del 10 settembre 1649 e dell’11 ottobre 1649. In un’altra lettera di poco posteriore al cader delle piogge autunnali (novembre 1649) scriveva: «In sentir fossati d’acqua fresca ho dato subito un sospiro, e son corso col pensiero a riverire il mio Adio, il mio Fosci, il mio Tatti». Per giungere a Barbaiano si scende fin verso il castello di Luppiano. Qui giunti, dopo una doverosa sosta per ammirare questa costruzione in posizione magnifica non lungi dal Fosci, un torrentello, talvolta impetuoso, che nasce dalle alture di Casole e che, dopo aver lambito la tenuta di Ariano, Luppiano, Barbaiano e la zona di Mazzolla, sbocca nel Cecina, e dove si ammirano resti di antiche costruzioni etrusche, si prosegua verso il fondo della vallata del Fosci. Il paesaggio è tale da incantare anche lo spirito più arido. Si intravede non lontano il bosco di Tatti, un’immensa foresta, proverbiale per il suo legno, per la sua estensione che porta, attraverso Berignone, fin verso la bassa Maremma. L’attenzione è attratta anche per un certo aspetto di maestà e di imponenza con cui la verde sua massa si vede innalzare distante in mezzo alle colline. Qua e là rocce dirupate lungo il fiume: una vegetazione selvaggia e pittoresca, l’ideale per un animo sensibile, emotivo e vivace. Ai lati si intravedono biancane grigio giallastre, campi di grano, gruppi di alberi. Della casa di campagna dei Maffei sulla sinistra del Fosci oggi non rimane niente. Qui il Rosa su alcune pareti aveva fatto dei piccoli finti quadretti (come se fossero attaccati al muro con un chiodo) quasi per scherzare. Ma la tecnica usata era poco resistente al tempo.

Comunque ora non c’è più niente. Anche le costruzioni posteriori più recenti che s’innalzano tra o presso le rovine delle costruzioni precedenti, non servono più come abitazione. Ci sono stalle per pecore. Intorno c’era un grande silenzio quando ho visitato la zona. Pecore si vedevano lungo le pendici delle colline: a sorvegliarle si vedevano solo i cani; i pastori stavano più lontano, all’ombra, sonnecchiando. La solitudine rende ancor più rosaiano il paesaggio. Erba, stalle, ruderi, ciuffi di alberi compaiono nei quadri del Rosa. Di quel periodo resta solo una cappellina abbandonata che nell’architrave porta la data 1635. Qui, certamente, Salvator Rosa e la signora Lucrezia pregarono ed assisterono ai riti religiosi che allora vi si celebravano.

Ma si scenda ancora. Ci si porti al ponticello sul Fosci e si guardi verso la sorgente del corso d’acqua: si ha l’impressione precisa di trovarsi dinanzi ad un tipico quadro rosaiano. Il castello di Luppiano, in alto da una parte, massi, rocce, alberi ombrosi lungo il fiume. Sotto i raggi del sole si creano giochi di luce splendente e ombre cupe e minacciose. È impossibile dire quanti e quali quadri ispirarono queste zone: secondo noi tanti e più avanti li elencheremo.

Anche vicino a Monterufoli c’è un torrente, l’Adio, ricordato anch’esso nelle lettere del Rosa. C’era anche qui una villa signorile dei Maffei, in alto sul colle ove un tempo ci fu un castello, estremo baluardo del Comune di Volterra, di cui oggi restano alcuni ruderi. C’era anche un’antica cappella di Sant’Andrea. Intorno ci sono foreste bellissime e cupe di querce e di lecci. Di un’antica torre affiorano le fondamenta. Oggi la foresta affascinante e la villa (la chiamano villa delle cento stanze), con affreschi del primo Ottocento e con un’ampia sala che faceva da teatrino ai tempi del Rosa, sono di proprietà demaniale.

Nel secolo XII Monterufoli fu uno dei castelli dipendenti dai vescovi di Volterra. Nelle immediate vicinanze si trovano i famosi calcedoni di Volterra divenuti celebri fin dal granduca Ferdinando I Medici che li faceva lavorare nelle Officine delle Pietre dure a Firenze. Alcuni grossi massi rupestri squadrati che compaiono in mezzo a foreste nei quadri del Rosa sono stati ispirati da queste cave allora attive nel bosco. Dalla collina si domina un panorama dalle trasparenze misteriose nell’ora del tramonto e nelle prime luci del mattino. Nel Botro alla Vetrice e nel Campo al Fico si estraevano pietre per macine. In questi luoghi stupendi venivano a trovare il Rosa gli amici dell’Accademia dei Percossi che egli aveva fondato a Firenze. Qui nelle campagne volterrane si ricomponeva l’allegra brigata per recitare commedie improvvisate, per imbandire banchetti che, secondo lo statuto di quell’allegra accademia, dovevano essere esclusivamente o pasticci o minestre o polpette o altri cibi indicati che uno degli accademici lodava, all’inizio del banchetto, con un’orazione.


CONDIZIONI DELLA CITTA’

Come si viveva allora a Volterra? Nel 1631 la città, come quasi tutto il resto d’Italia, era stata colpita da una pestilenza che l’aveva spopolata. Le condizioni di vita erano tristissime. Unica fonte di guadagno la fabbricazione del sale (i Maffei ne erano sempre i provveditori). Essa era l’unica attività commerciale e industriale. Si produceva sale per tutta la Toscana. A Volterra c’era il deposito generale. C’era un certo traffico. In quel tempo (storia di oggi sembrerebbe) c’era una grossa preoccupazione da quando il granduca Ferdinando II voleva sostituire il sale di Volterra con quello di Catania. Nella metà del ’600 varie carestie rovinarono economicamente molte illustri famiglie proprietarie di terre. La terra era una delle poche fonti di sostentamento. Ne risentirono i Topi, i Pagnini, i Mannucci, i Naldini, i Campani. L’alabastro veniva lavorato per fare qualche busto, qualche statua, ma questa attività non era molto sviluppata né redditizia. Nel ‘600 la polvere d’alabastro veniva adoperata come cipria, come si vede in questo intermezzo musicale, riportato dal dott. Scipione Maffei nel numero 5 de La Rassegna mensile del 1° settembre 1926:

E convien ricordarsi
che nel piegarsi a terra,
casca poi facilmente
la povere di marmo di Volterra.

Concludo queste brevi annotazioni sul periodo ricordando che era vescovo della città, nel periodo in cui Rosa fu a Volterra, monsignor Niccolò Sacchetti che aveva incrementato l’istruzione dei giovani che volevano diventare sacerdoti secondo i deliberati del Concilio di Trento, dando anche particolare impulso alla Cappella Corale in cui insegnava il grande Andrea Cesti. L’amicizia con il Cesti fu assai profonda. Nel 1650 in villeggiatura a Monterufoli, Salvatore scriveva a Giulio Maffei che si trovava a Firenze: «Se mai vi abbattete con quel Signor Cesti che una volta in Volterra era frate et al presente gloria e splendore delle scene secolari, fateli una raccomandazione da mia parte e diteli che studi nelle materie della Musica che si farà un grand’huomo. Con tutto però che lasci star l’Anna Maria, la qual donna dà canzoni e canzonette – Monterufoli 3 luglio 1650». Il Cesti più tardi insisté presso il Rosa perché lo seguisse ad Innsbruck, in Austria. Ma il Rosa, che non voleva tornar pittore cortigiano, rifiutò le offerte amichevoli. Il Cesti musicò anche opere del Rosa: La Strega e La corte di Roma.

I rapporti tra i due furono sempre intimi anche se il Rosa, forse non capì a fondo l’enorme importanza del Cesti nel rinnovare il dramma musicale. L’incontro col Cesti a Volterra affinò e spronò la naturale inclinazione del Rosa per la musica. Volterra anche nel ’600 fu un centro musicale importante. Ma di questo ci parlerà mons. Bocci nella sua storia della musica volterrana.


LA PERSONALITA’ DEL ROSA E LE SATIRE

Le opere del Rosa piacquero tanto, subito, in Inghilterra e contribuirono alla formazione del gusto, del mito preromantico delle rovine, del paesaggio. Le sue opere erano acquistate come souvenirs del bel paese italico. Rosa fu un grande divulgatore del macchiettismo alla Jacques Callot (1593-1635), famoso disegnatore ed incisore lorenese che lavorò molto a Roma dal 1611 al 1621 e che ebbe una grande influenza sull’ambiente artistico fiorentino nel lanciare la moda di Vedute con figurine caratterizzate da un movimento amaro e fantastico. Rosa lanciò il gusto dell’orrido.

Nella prima metà del ’600 nasce la figura del collezionista privato; tende a sparire quella del committente: il collezionista è un tipo dal gusto indipendente. Molti pittori si rifiutano di vivere a palazzo, alcuni arrivano a respingere il sistema della commissione tradizionale.

Rosa rifiutava le caparre per i suoi lavori e non concordava mai un prezzo in anticipo. Diceva che non era mai possibile prevedere come un quadro sarebbe venuto: non poteva dipingere se non si sentiva ispirato, negava ogni controllo del lavoro da parte del committente. Egli, come dice il Belloni, era un meridionale esuberante, eccessivo, sboccato, talvolta banale, ciarliero ma sincero quando scriveva che nella vita privata amava la solitudine: «Val più un forno situato in solitudine, che quante reggie si trovano, ed a me più fa pro una di quelle insalate ch’Ella mi descrive che quanti pasticci mai seppe inventare la più raffinata gola del pretismo» (Cesareo, Lettere al Ricciardi in “Giornale storico”, XXII, pag. 191).

Quest’amore per la solitudine insieme a quanto abbiamo detto prima rese popolarissimo il Rosa presso gli Inglesi. Il Walpole (Anedoctes sur la peinture, p. 178 del libro di Lady Morgan) dice che Harry Cook e Mister Althan andarono in Italia e studiarono sotto Salvator Rosa, Philip Pont nelle sue vedute seguì l’esempio del pittore napoletano, nel 1770 il dott. Burney a Roma comprava musiche manoscritte del Rosa (forse patacche) e poesie ed opere che ora si trovano nelle gallerie inglesi. Altri artisti inglesi hanno dichiarato di dover qualche cosa al Rosa. Oggi, a distanza di secoli, questo fascino dei luoghi rosaiani volterrani dura ancora. I signori Mac Henderson, Thompson ed altri hanno acquistato case coloniche, ridotte a ville, proprio nelle zone sotto Mazzolla, non lontane da Luppiano e Barbaiano, i luoghi ove il Rosa risiedette e lavorò. Fascino, conscio o inconscio che sia, esso dura ancora.

Anche alcune satire sono state scritte a Volterra. Secondo il Croce «le Satire sono prediche morali e insomma luoghi comuni, salvo qua e là dove l’autore parla di sé stesso o del proprio mestiere… Quello che non manca mai al Rosa è la foga, la violenza, la loquacità dell’indole sua».

Credete al vostro Rosa
che senza versi e quadri il mondo è bello,
e la più sana cosa,
in questi tempi, è il non aver cervello.
(Il lamento)

A Volterra compose quasi certamente La guerra, un’amara satira contro questo male tremendo:

e lo spopolato mondo ancor che oppresso
per sollevarsi un po’ spezza i patiboli.

Ma anche qui come nelle altre sei satire (esclusa forse la seconda, La Poesia) è troppo impaziente ed impulsivo per essere vero poeta. Nella satira su La Poesia ci sono alcuni spunti derivati dal poeta Persio Flacco. Nella prima parla de La Musica: è una composizione piena di elementi classici ed eruditi; è molto generica. Nella satira de La Pittura si scaglia contro la presunta ignoranza dei pittori. Il Rosa conobbe il volterrano Baldassarre Franceschini (prega in alcune lettere Giulio Maffei di salutarlo) ma non gli piacque molto: lo giudicava troppo aulico ed attaccato alla maniera di Pietro da Cortona. Nella sesta satira, La Babilonia, si scaglia contro i vizi di Roma: questo napoletano non legò mai con questa città ed i suoi abitanti. Con la settima, Tirreno, conclude questo ciclo satirico.

È il Rosa pittore quello veramente valido e grande; il suo interesse principale sembra essere l’uomo ed il suo rapporto con la natura: l’uomo ritrova sé stesso nella solitudine della natura. Non lasciò veri discepoli: un continuatore lo si può trovare forse nel Magnasco.


OPERE E SPUNTI VOLTERRANI

Sappiamo che a Barbaiano il Rosa ornò una cappa di camino con una fucina di Vulcano, dipinse amorini e figure di Vulcano e Venere sopra alcune porte, oltre alla stanza decorata che abbiamo ricordato prima. Allegro e vivace si divertiva anche a far restauri come quello del clavicembalo malandato e stonato che decorò con fiori, bordi, oggetti vari, paesaggini ed anche con una testa di morto.

Egli dipinse sicuramente nel Volterrano: Democrito (Monterufoli, estate 1650), Baccanale, dipinto a Volterra. Il gusto melanconico delle rovine, della vegetazione che nasce tra di esse, i giallo-marroni di cui era ricca Volterra, il mistero della natura, il fascino della solitudine furono arricchiti ed alimentati dalle stupende campagne volterrane: grosse rupi coronate da costruzioni, sfondi luminosi, biancheggiare di città fondono insieme ricordi d’infanzia con le Balze di Volterra. I quadri eseguiti a Firenze ricordano quasi tutti, nel tipico paesaggio vario, mosso ed imprevedibile con pianure, colline, foreste, castelli, rocce, dirupi il profilo delle nostre terre. Vorremmo che l’attenzione degli esperti approfondisse questo aspetto della pittura del Rosa. Occorre però una serie di rilievi, di persona e fotografici, nelle zone in cui visse il pittore napoletano insieme ad una profonda conoscenza delle opere rosaiane. Noi, da dilettanti, abbiamo fatto una serie di confronti con alcuni quadri, con quelli almeno (e sono moltissimi) di cui siamo riusciti a rintracciare riproduzioni fotografiche. Siamo sicuri che qualche traccia dovrebbe trovarsi ancora in qualche palazzo signorile di Volterra. In casa Inghirami esiste un quadro ripetizione di un soggetto del Rosa. Altri della scuola del Rosa si trovano in casa Amidei. I Maffei ebbero tanti quadri, disegni e copie, alcuni acquistati, altri regalati. Altri patrizi volterrani, conosciuti dal Rosa in quegli anni, ebbero, certamente, segni tangibili della sua simpatia o riconoscenza o amicizia. Ma tutto questo ora è andato distrutto o è emigrato chissà verso quali estranei lidi.

Seguendo le lettere al Ricciardi ed ai Maffei e facendo confronti ci sembra di trovar ispirazioni da paesaggi volterrani nelle seguenti opere:
Marina delle torri
(Galleria Pitti di Firenze);
Veduta di un golfo (Galleria Estense di Modena);
Paesaggio con viaggiatori che chiedono la strada
(Collezione Denis di Londra);
Grotta con cascata d’acqua
(Galleria Pitti di Firenze);
La selva dei Filosofi
(Galleria Pitti di Firenze);
Agar e l’angelo
(Collezione Walter di New York);
Erminia incide il nome di Tancredi
(Galleria Estense di Modena);
Paesaggio
(Collezione Lord Methuen – Corsham);
Alcune battaglie (per lo sfondo, il paesaggio o particolari) e molti altri quadri su cui torneremo prossimamente.


CONCLUSIONE

Giunto a questo punto mi accorgo che ci sono ancora molte cose da scrivere su Salvator Rosa e Volterra. Ritornerò su questo argomento se la pazienza e la fortuna mi assisteranno.

Giungono da varie parti d’Italia richieste di notizie sui luoghi rosaiani di Volterra da parte di molti autori che stanno preparando monografie, articoli, libri sul grande pittore. Ciò è un segno buono: vuol dire che il III centenario della morte del pittore, che cadrà nel 1973, sarà degnamente celebrato. Indubbiamente sarà emessa anche una serie di francobolli commemorativi (“Volterra” la chiederà). Non ci dispiacerebbe, come volterrani, che fosse riprodotto qualcuno dei quadri in cui più chiaro è il ricordo delle nostre campagne.

Pittori di ogni paese sono sempre stati presi dal fascino di questo nostro “magnifico paese”, come lo definì il grande pittore francese Corot, dopo un mese di permanenza tra noi che gli fruttò impressioni profonde trasfuse in opere assai importanti. Ma, forse, il Rosa fu il pittore che più di ogni altro si trovò a suo agio nella solitudine delle campagne del Volterrano. In esse trovò un soggetto ideale, il luogo in cui poté coltivare il suo estro, il suo desiderio anticonformista di libertà, la sua innata malinconia. Volterra era veramente degna di un grande genio innamorato del pittoresco, di un uomo innamorato della natura sotto tutti i suoi aspetti. Il Passeri (citiamo dal libro di lady Morgan, questa romantica e testarda irlandese innamorata del Rosa) scrive che il Rosa «fu di taglia media, aggraziato, agile nei movimenti. Il colore della sua pelle era assai bruno, di quel bruno, di quel certo color moresco che non è affatto sgradevole. I suoi occhi erano di un blu sereno ed ardente, i suoi capelli neri e fitti cadevano sulle sue spalle in boccoli ondeggianti. Vestiva elegantemente ma non da cortigiano: non portava né merletti d’oro né altri ornamenti. Era ardito nel parlare, impetuoso ed impulsivo, tanto da intimidire chi lo volesse contraddire». Chiudiamo per un momento gli occhi: così lo vogliamo ricordare nelle nostre campagne, a passeggiare o fermo in un crocchio di amici all’angolo di qualche via cittadina.

© Pro Volterra, SILVANO BERTINI
Sulle orme di Salvator Rosa, in “Volterra”, gennaio 1972; in “Scritti Volterrani” curata da Gianna Bertini, Enrico e Fabrizio Rosticci, Pisa, Pacini, 2004, pp. 346-354.
Salerno, Salvator Rosa, Barbera Editore, 1965.
Rinaldis (a cura di), Lettere inedite di Salvator Rosa a G.B. Ricciardi, Palombi Editori, 1939.
Balducci, Notizie dei Professori di Disegno da Cimabue in qua, Firenze, 1847.
Belloni, Il Seicento, Editore Vallardi, 1929.
Croce, Storia dell’età barocca in Italia Laterza.
Salvator Rosa, Satire, liriche, lettere, Editrice Sonzogno, 1892.
Cattaneo, Salvator Rosa, Edizioni Alpes, 1929.
Lady Sidney Morgan, Memoires sur la vie e le siecle de Salvator Rosa, Paris, 1824, vol. I e II.
Festa, I lunghi amichevoli rapporti tra Salvator Rosa ed i Maffei, “Volterra”, n. 12, 1963.
Maffei, Sui boschi di Tatti e Berignone, Volterra, 1868.
Biblioteca Guarnacci, Genealogie Maffei.
Costantini, La pittura italiana del ‘600, Editrice Ceschina, vol. I e II.
Bertini, Il vero Salvator Rosa si rivelò nella quiete di Volterra, “Volterra”, n. 11, 1967.