La voragine delle Balze

Con il termine di Balze, che sembra originario di questa località a NW di Volterra, vengono indicate alcune pareti a picco di sabbie sormontate da calcari arenacei e sovrapposte alla potente formazione marina delle argille azzurre del Pliocene.

Le Balze costituiscono uno dei luoghi più affascinanti ed inquietanti del Volterrano, dalla sommità di questa enorme voragine possiamo ammirare un panorama eccezionale sullo sfondo del quale, nelle giornate più limpide, lo sguardo spazia fino al mare.

L’erosione continua che avviene nelle Balze mette in evidenza una bella sezione stratigrafica dalla quale è possibile vedere la successione delle rocce che compongono la collina di Volterra.

Essa è composta in sequenza dal basso verso l’alto di: argille azzurre, argille sabbiose, sabbie argillose con intercalazioni di argille, sabbie e calcare arenaceo. In corrispondenza dei vari strati la morfologia del fenomeno franoso cambia: i versanti dello strato di argille azzurre sono in genere poco ripidi, ma mostrano frequenti nicchie di distacco; dove troviamo le argille sabbiose i versanti sono invece un po’ più ripidi.

A partire dallo strato delle sabbie argillose le pareti sono verticali o ripidissime, anche le sabbie e i calcari arenacei hanno pareti a strapiombo. Ma come avviene questo spettacolare movimento franoso? Innanzi tutto va specificato che non si tratta né di una frana unica né di un movimento continuo, ma, come ci spiegano i geologi, si tratta di “un fenomeno misto che si svolge a partire principalmente dall’erosione accelerata in approfondimento delle testate delle aste fluviali in strati a reggi poggio nelle argille azzurre e argille sabbiose”

La frana è provocata quindi dall’azione erosiva delle acque meteoriche che penetrando attraverso lo strato sabbioso sommitale, che è permeabile, giungono ad asportare lo strato argilloso sottostante, che invece è impermeabile, provocando il crollo progressivo degli strati superiori.

Questo fenomeno geologico ha notevolmente sconvolto l’aspetto di questo versante della collina di Volterra. In origine al suo posto vi era un pendio lievemente ondulato che scendeva progressivamente fino al fondovalle.


UN TERRITORIO RICCO DI STORIA

Quest’area fu sfruttata come luogo di sepoltura già fino dal periodo villanoviano (X-IX sec. a. C.), in tale periodo le sepolture sono sia di inumati (dentro tombe a fossa), sia di cremati (in tombe a pozzetto). Nel secondo caso i resti combusti del defunto erano posti in ossuari di terracotta e seppelliti insieme al corredo funebre in un pozzetto scavato nel terreno e spesso foderato da lastre di pietra.

Nei pressi della Badia, il grande monastero costruito sul limite della frana, sono stati trovati i lembi superstiti dell’area sepolcrale più antica e più grande di Volterra (IX- VII sec. a. C.), i cui materiali sono conservati presso il museo Guarnacci e presso il Museo Archeologico di Firenze.

Sempre in quest’area si trovava anche la più grande necropoli cittadina di età ellenistica. Si doveva posizionare sui lati della strada che da Volterra conduceva verso la Valdera e il basso Valdarno e doveva occupare una vastissima area; sono arrivate fino a noi solo una parte delle tombe, quelle installate ai margini dell’area occupata dalle sepolture.

Le mura etrusche, costruite nel IV-III sec. a.c., erano ancora in piedi fino al secolo scorso e in questa zona, a poca distanza dall’ultima casa del borgo moderno, si trovava pure una porta. Questa porta, chiamata di S. Marco, era secondo gli studiosi volterrani del Settecento che hanno potuto esaminarla, di costruzione etrusca.

L’unico tratto di mura ancora oggi visibile è l’estremità Nord Ovest, quello che circonda il piano detto della Guerruccia; queste mura sono fra le più famose di Volterra, soprattutto perché si trovano a poca distanza dalle Balze, non certa mente per particolari caratteristiche di conservazione.

Probabilmente anche in età romana si continuò a seppellire in questa zona, ma non si è conservata nessuna tomba che ci possa documentare questo fatto. In compenso sappiamo che vi era un cimitero tardo antico costruito verosimilmente intorno alla antica chiesa di San Giusto. A testimonianza di ciò vi sarebbero due epigrafi sepolcrali rinvenute sul bordo delle Balze nel XVIII secolo e databili fra il V ed il VI sec. d.C. Successivamente la chiesa di San Giusto venne ricostruita dal gastaldo longobardo Alchis in un anno imprecisato durante il regno di Cuniperto (688-700).

Nei secoli successivi intorno alla chiesa si andò formando un popoloso borgo i cui abitanti, negli ultimi anni del XII secolo, si costituirono in contrada con il nome di contrada di San Giusto. Sappiamo che in questo secolo vi esistevano due chiese, quella di San Giusto definita al botro e quella dedicata al suo compagno: San Clemente.

L’INIZIO DELLE VORAGINI

È proprio quando questa chiesa venne lesionata dalle Balze, nel 1140, che la cronaca volterrana riporta per la prima volta la notizia di questo fenomeno; in quell’occasione l’urna con i resti del santo venne traslata nella vicina chiesa di San Giusto.

Dopo di allora non vi sono altre notizie di rilievo riguardanti crolli avvenuti in questa zona, probabilmente le case vennero distrutte una dopo l’altra, ma essendo proprietà private non fu attribuita una grande importanza a questo smottamento fino agli inizi del XVII secolo, quando la frana era arrivata molto vicina alla chiesa di San Giusto.

La situazione venne giudicata tanto grave che lo stesso granduca Cosimo II venne a Volterra per un sopralluogo e incaricò il suo ingegnere, Giulio Parigi, di studiare il fenomeno per cercare un rimedio. La situazione venne però giudicata irreparabile e non fu preso alcun provvedimento.

Il 12 settembre 1614 crollò il lato Est dell’edificio, il 16 settembre 1627 a mezzogiorno crollò anche il resto della chiesa, rimasero in piedi solo l’altare maggiore, alcune cappelle laterali, la sacrestia e la torre campanaria. Questi ultimi resti subirono la stessa sorte alle 22.30 del 24 marzo 1648.

Alcuni lacerti della decorazione architettonica vennero recuperati dai volterrani che li utilizzarono per decorare altri edifici sacri o li collocarono alla Badia. In questi stessi anni venne redatta la carta di Volterra di Domenico Vadorini che, per la prima volta, riproduce anche le Balze.

Un altro importante edificio che venne distrutto in questa frana fu la chiesa di S. Marco con l’annesso monastero femminile benedettino. Questo, consacrato nel 1548, venne abbandonato nel 1710 e nel 1778 ne fu ordinata la demolizione per recuperare i resti come materiale da costruzione. I ruderi crollarono agli inizi del secolo successivo. In quegli anni le Balze erano arrivate a lambire la strada che univa la città alla Badia costeggiando parte delle mura etrusche.

In conseguenza del terremoto che nel 1848 sconvolse tutta l’area delle colline livornesi e pisane, vi fu un arretramento considerevole del fronte franoso, tanto che i monaci camaldolesi, preoccupati per il suo avanzare, decisero di abbandonare la Badia nel 1861.

Pochi anni dopo venne abbandonata anche l’antica strada che portava a Pisa, che fu sostituita da una deviazione che girava intorno a Montebradoni secondo il tracciato che è rimasto ancora oggi alla Strada Provinciale Pisana.

TENTATIVI DI ARRESTAMENTO

Nel corso degli anni vennero intrapresi numerosi tentativi di fermare il minaccioso ampliarsi della voragine. La prima relazione che si conserva e che tentò di proporre un metodo per risolvere il problema è datata al 1588. In quell’anno il Consiglio Generale della città nominò una commissione che studiasse e trova – se rimedio alla frana che allora era quasi arrivata alla chiesa di San Giusto.

La commissione valutò tutte le possibilità e propose la realizzazione di pala fitte infisse nel terreno per trattenerlo e di alcune opere idrauliche per togliere l’acqua che, secondo gli esperti di allora, era la principale causa del cedimento. Non sappiamo se queste opere furono adottate, ma in ogni caso non hanno avuto esito positivo.

Il secondo a cimentarsi in quest’impresa fu l’ingegnere granducale Giulio Parigi che nel 1612 esaminò la frana giudicando impossibile la realizzazione di un’opera di contenimento.

Il 12 marzo del 1691 i magistrati cittadini vollero fare un altro tentativo di frenare l’avanzata delle Balze, che allora minacciavano il monastero di San Marco affidando la progettazione dei lavori all’ingegner Giulio Giaccheri. Costui progettò un muraglione da erigersi nel fondo della voragine, ma non venne realizzato. Successivamente vennero redatte altre relazioni da Benedetto Lisci e Francesco Maffei (12 settembre 1692) nelle quali si confermava in sostanza l’ipotesi di costruire un muraglione sul fondo. Ma ancora una volta i lavori non vennero affidati. Solamente nel 1767 fu iniziata la costruzione del muro che venne pagato con il denaro che il granduca aveva concesso alla città per far lavorare gli operai bisognosi; l’utilizzo di questo denaro venne proposto da mons. Mario Guarnacci, che aggiunse altri fondi da utilizzare nella realizzazione delle opere di contenimento.

Il muro comunque non sortì nessun risultato, tutti gli studi avevano sottolineato, a torto, che il movimento franoso era causato dall’acqua che filtrava fra i vari strati; pertanto le opere erano state concepite per incanalare e deviare l’acqua. In realtà la frana degli strati superiori distruggeva rapidamente questi muri; ogni volta la colpa era data alla cattiva realizzazione dei lavori, ma in nessun caso essi avrebbero potuto fermare il fenomeno geologico.

Per questo le relazioni si moltiplicarono nel corso degli anni: Manetti-Franchini (7 maggio 1828), Bardini (1833), Campani (1838), Mazzei (8 agosto 1838). Finalmente nel 1882 l’ingegner Forni propose di inerbare e rimboschire le superfici dei sedimenti argillosi del substrato. Questa strategia si dimostrò quella più adatta tanto che tutte le altre opere di consolidamento che sono state compiute nelle Balze dopo di allora hanno seguito il criterio del rimboschimento.

L’opera si rivelò efficace soprattutto nella parte centrale, ma non nel versante sottostante la Badia Camaldolese, che a partire dal Dopoguerra venne sfruttato come immondezzaio comunale.

L’uso di gettarvi la spazzatura e di darle fuoco rendeva vano qualsiasi tentativo di impianto della vegetazione; solamente negli ultimi anni, da quando non vengono più gettate spazzature nella voragine, la vegetazione ha potuto colonizzare anche quest’area, rallentando (ma non fermando) il movimento franoso.

© Pacini Editore S.P.A., ALESSANDRO FURIESI
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