Il feudalesimo, con i suoi costumi ferrei, spesso barbari e crudeli, non durò a lungo in Italia, perché sorsero i Comuni.
Con questa rinnovata struttura sociale si scoprì una realtà nuova, più ampia, una vita che apriva orizzonti diversi, ma che richiedeva anche ardimento, abnegazione e tutti quei rinnovati ideali che offrirono un maggiore sfogo alle arti, alla politica, alla religione che dettero luogo alla nascita di nuovi ceti sociali, fra i quali quello rappresentato dalla corporazione delle arti e dei mestieri.
Rispetto al feudalesimo, quindi, il cambiamento che portò l’avvento del Comune fu un grande passo in avanti per quasi tutte le classi; solo la bassa plebe rimase sempre alla mercé di interessi contrastanti, dovendo sopportare, come prima, i maggiori disagi delle iniziative che, in via di massima, venivano enunciate per il bene del popolo, ma che poi invece tornavano a vantaggio dei soli governanti e della cerchia dei loro accoliti. Pertanto, anche se col sorgere del Comune, la complessa impalcatura della piramide feudale decadde, la mentalità, che per tanto temuto era maturata nella massa, almeno in parte sopravvisse ancora e il popolo minuto, avendo constatato che i benefici, se meglio distribuiti, potevano portare qualche concreto miglioramento anche nei suoi confronti, fu invaso da un marcato malcontento, che si sfogò chiaramente in varie località, dove avvennero numerosi tumulti contro i ceti dominanti.
Anche in Volterra si verificarono vari moti di sollevazione popolare e quelli più importanti avvennero nel 1283 e nel 1299.
Nel luglio del 1283 si registrò in Volterra un tentativo di sollevazione istigate da Manfredi di Mirittino Bernarducci da Lucca, che in quel tempo era capitano del popolo. Di questo istigatore la storia ci ha tramandato poco o niente, perché le uniche notizie che lo riguardano si riferiscono a tale evento, in occasione del quale Manfredi si fece capo e guida della bassa plebe.
La sollevazione era rivolta contro la nobiltà, ceto dominante in Volterra, e contro gli altri che vivevano dei benefici che da essa gli derivavano e che, per questo, perpetuando ancora un rapporto di vassallaggio, lo sostenevano.
Manfredi arringò il popolo con vena, incitandolo anche aspramente, e per far intravedere una possibilità di riuscita, affermò più volte che il numero della plebe era di gran lunga superiore a quello dei governanti e dei loro accoliti, per cui era ridicolo che si continuasse a soggiacere alle volontà della nobiltà, la quale giornalmente gravava la popolazione di dazi, sottoponendola poi a continue reclutazioni per le guerre che, per capriccio di quei gentiluomini, venivano dichiarate. Pertanto, insisté Manfredi, era necessario che il popolo si scrollasse di dosso, in via definitiva, il giogo della servitù cui era sottoposto, che determinava in esso solamente tutti e privazioni d’ogni sorta, e che quindi era giunto il momento di partecipare anche al governo della città, in modo che le fatiche e gli onori, le contribuzioni e i salari, i pericoli e gli acquisti fossero ripartiti ugualmente da tutti.
Egli, infatti, sostenne che i nobili non erano composti di materia più delicata dei popolani, sì da godere di particolari privilegi che qualificavano essi i padroni e gli altri gli schiavi e che Dio ha dotato tutti della naturale prudenza e capacità di governare e che queste prerogative i nobili non dovevano averle pe nascita, ma conseguirle per merito. Con questi concetti Manfredi si rivolse al popolo, avvisandolo anche che, se non si fosse liberato da tante oppressioni, avrebbe dimostrato viltà e, quindi, sarebbe stato costretto a sopportare peggiori condizioni di vita.
Il popolo riconobbe la bontà dei propositi del suo capitano e, rendendosi conto della propria forza, si ribellò.
Come prima risoluzione tentò di occupare l’attuale Palazzo dei Priori, al fine di sostituire i nobili nell’ufficio degli anziani, amministratori della cosa pubblica, con diciotto loro rappresentanti. Frattanto il potestà Ridolfino Catenacci di Arezzo, insieme con gli anziani e un buon numero di cittadini ad essi fedeli, si erano posti a difesa del Palazzo, riuscendo a rintuzzare l’assalto dei popolari. Quest’ultimi, che contavano in una facile riuscita della loro sollevazione, tanto da pensare che, appena scesi in Piazza, gli avversari si sarebbero arresi, rimasero sorpresi di tanta resistenza e, veduto vano questo loro primo tentativo, restarono assai avviliti: cosicché piano piano, le loro fila diminuirono di numero, tanto che fu abbandonata l’impresa, perché quasi tutti ritornarono alle loro case.
Manfredi, rimasto per lo più solo, si rese conto di quanto fosse stata poco convinta e fedele quella partecipazione popolare e che contava poco o niente tanta moltitudine di uomini se male organizzata, anche se opposta a minori forze, ma adeguatamente preparate. I governanti della città, e per essi ser Galgano di Bonone, al fine di non irritare il popolo e, quindi, scongiurare il rischio di una ulteriore sollevazione, intesero salvare anche la reputazione del capitano del popolo, mettendo tutto a tacere. Ma al popolo importava solo di aver chiuso quella triste avventura e badava esclusivamente a non subirne eventuali conseguenze. Prova ne sia che, dopo pochi giorni, il povero Manfredi fu trovato morto e nessuno, sia da parte dei governanti che dei popolari, si preoccupò di accertare se il decesso fosse stato naturale o commesso. Per cui la vita in Volterra riprese l’andamento di prima, come se nulla fosse successo, sostituendo il Manfredi, nell’incarico di capitano del popolo, col fiorentino Forese Adimari.
Negli anni seguenti al narrato tentativo di sollevazione, salvo qualche scontro fra Guelfi e Ghibellini che si contendevano il governo della città, non si verificarono altri tumulti. Perché la cronaca registrasse un altro fatto simile, passarono sedici anni, in quanto nel 1299 si verificò un ulteriore tentativo di sollevazione popolare, ad opera di un certo Girolamo detto iI Ganuzza: questa volta la sommossa ebbe particolari sviluppi e apportò qualche cambiamento nel governo della città.
Parlare del personaggio del Ganuzza rimane un po’ difficile, perché le notizie che gli storici ci dànno nei suoi confronti non sono concordi nella sua descrizione. Comunque, in base alle ricerche fatte in merito, cercherò di trarne le conclusioni più appropriate, tramite le sole notizie che vengono confermate da tutti gli storici. Il Ganuzza proveniva da Firenze e da questa città era stato bandito per un reato commesso. E’ definito «un uomo di bassa lega» perché figlio di un intagliatore; molto robusto e di gran cuore, fazioso ma anche autore di cose nuove. Appare logico che con quest’ultima definizione ci si voglia riferire alle sue idee avanzate e alle sue iniziative che sfruttarono il particolare malcontento che serpeggiava nella bassa plebe, per le continue ingiustizie cui era sottoposta dai governanti della città.
Egli, infatti, in poco tempo aveva stretto numerose amicizie tra i popolari e tutte le sere si ritrovava con essi nelle osterie e, sfruttando la sua naturale facondia nonché l’ebbrezza del vino, incitava alla rivolta contro la nobiltà. Dalle parole poi vennero i fatti, perché il Ganuzza e i suoi compagni cominciarono a riversarsi tutte le sere nelle strade, e quanti nobili incontravano, li sottoponevano a bastonature, talvolta anche con non indifferenti danni fisici, o quantomeno recavano loro oltraggio.
Il ripetersi di tali fatti allarmò la nobiltà volterrana, per cui questa, persuasa da Neri Buonaguidi, armò una settantina di suoi accoliti e attese l’occasione per cogliere di sorpresa i rivoltosi.
Lo scontro non tardò ad avvenire, perché il Ganuzza con i suoi seguaci fu presto incontrato e subito incominciò una crudele battaglia. Fu suonata anche la campana, come avveniva in momenti gravi.
Allo scontro partecipò quasi tutto il popolo, perché i nobili corsero a dar man forte al loro drappello e i popolari andarono ad accrescere la file dei rivoltosi. Quest’ultimi crebbero di gran lunga di numero rispetto agli avversari, e ben presto si volsero contro il Palazzo, cioè quello dei Priori, e quivi arrivati, con grandissimo furore, uccisero il capitano dei fanti Albizzo Buonvicini, che era sulla porta, e, entrando, ne scacciarono gli anziani. Dopo di che si volsero contro il Palazzo del potestà, cioè quello della Torre del Porcellino. Frattanto il potestà Vecchietta degli Arcarigi di Siena si era fortificato e provvisto di rinforzi, tanto che riuscì a difendersi e opporre viva resistenza ai rivoltosi. Allora i popolari assaltarono con maggior furore e forze, lasciando sguarnito il Palazzo del Comune, dando così la possibilità ai nobili di rientrarvi a insediare gli anziani.
La plebe, come si avvide di questo, dette fuoco al Palazzo del Podestà e abbandonò la Piazza.
L’incendio si sviluppò e costrinse il potestà a rifugiarsi insieme agli altri nel Palazzo deI Comune. Il fuoco fu appiccato anche all’archivio e si sparse con spaventosa celerità e, fra la confusione, nessuno, pensò di porvi: rimedio, per cui tante antiche memorie conservate fino allora con cura, andarono perdute.
Si salvò solo una cassa piena di scritture, ma anch’esse restarono tutte quante affumicate e guaste.
Tale archivio, che fu incendiato buttandovi il fuoco dai palazzi contigui, sembra si trovasse vicino a la Biblioteca dei Canonici, cioè nei pressi del Duomo, dove poi, nel 1472, iniziarono i lavori di trasformazione ed ampliamento per la costruzione del palazzo episcopale della curia. Appena la Piazza fu abbandonata dai popolari, i nobili barricarono tutte le strade che vi davano accesso, mentre i rivoltosi si fortificarono allo speciale di Santa Maria, già Palazzo Ginori – Lisci oggi Marchi, e sulla Piazzetta di Sant’Agnolo, barricando anch’essi le strade, in modo che la nobiltà fosse pressoché assediata.
Mosso da tanto disordine, l’abate della Badia di San Giusto, con i suoi monaci, venne in città per placare gli animi e quindi ristabilire la pace. Durante il tragitto rivolse parole conciliatrici ai rivoltosi e, giunto in Piazza, fece altrettanto con i nobili, già riuniti per esaminare la difficile situazione in cui si trovavano.
I pareri dei nobili erano vari e discordi, dettati più dalla passione che dal buon senso: alcuni volevano che si ricorresse nuovamente alle armi per sottomettere la plebe con la forza, mentre i più anziani erano favorevoli a trovare un accordo con il popolo e quindi ristabilire la pace.
Intervenne l’Abate asserendo, verso i più risoluti, che non vedeva facile, come a loro sembrava, domare con la forza la plebe tanto superiore di numero e che, fra l’altro, i popolari non avevano nulla da perdere perché non possedendo bene alcuno, avrebbero vissuto ovunque, e forse meglio che a Volterra, del loro consueto lavoro manuale.
Il fatto di essere poveri, rendeva i popolari gli uomini più liberi ed indipendenti del mondo, mentre altrettanto non poteva dirsi per i nobili, i quali se avesse prevalso la plebe, si sarebbero trovati a sopportare le ristrettezze dell’esilio e, quindi, a vedere tanti loro onorati vegliardi, le nobili matrone e le tante avvenenti e gentili fanciulle, abbandonare le loro agiate abitazioni per andarsene altrove a ramingare, avvilite dalla «men conosciuta miseria».
L’Abate, soggiunse in ultimo, che non era possibile poi cacciare la plebe, perché chiunque, anche se governante, non può sussistere senza il popolo, per il fatto che ambedue i ceti sono indispensabili per la vita della città e maggiormente i nobili non avrebbero potuto fare a meno dell’apporto del popolo.
Sembrò che tali savie parole avessero portato i nobili a più miti consigli, senonché prese la parola Inghiramo lnghirami e, giovane ed animoso com’era, definì il parlare dell’Abate più da pio religioso che da prudente politico e affermò che cedere alla plebe armata significava darle le redini del governo; che tutto quello che avessero concesso ad essa sarebbe stata testimonianza della loro debolezza e che li avrebbe messi alla mercé del popolo con leggi che parrà ad esso di imporre. Pertanto l’Inghirami esortò i nobili che non fosse accettata tanta vergogna, perché se, per la plebe stava il numero, per loro stava invece la virtù e la saviezza, per cui era necessario cominciare ad abbattere i rivoltosi, per poi acquietarli con qualche leggera concessione, e che – per ora – si dovesse trattare solo di punirli e di rintuzzarne l’audacia.
Così terminò di parlare l’inghirami fra gli applausi dei più di tale consesso. Altrettanto avveniva in mezzo alla plebe, dove il Ganuzza la confortava ed animava ad insistere nell’impresa perché la loro superiorità di forze avrebbe costretto la nobiltà a chiamare i rappresentanti del popolo a far parte del governo della città, cessando così di essere ad essa sottoposto e spogliato di ogni avere con le ricorrenti taglie, che poi andavano ad rimpinguare le già ricche tasche, per meglio poltrire nell’ozio ed alimentare brutte libidini.
L’esortazione continuò portando ad esempio il popolo di Firenze, che da sei anni si era impadronito del governo, dando prova di saper condurre «il timone».
Il Ganuzza terminò affermando che a lui poco importava di tutto, perché non era volterrana e che, quindi, ovunque avrebbe potuto guadagnarsi da vivere, ma si sentiva spinto a sostenere alla causa solo per giustizia e per il desiderio di vedere umiliati quei codardi dei nobili. Ciò detto, i rivoltosi si riunirono e si avviarono di nuovo verso la Piazza per riprendere la battaglia. Senonché, tutta questa folla, giunta nella Via degli Allegretti (sembra si tratti dell’ultimo tratto dell’attuale Via Matteotti, già Via Guidi), fu assalita dagli armati di Ugolino, Ildino e Fuccio dei nobili di Querceto, che erano entrati in Città dalla Porta all’Arco in soccorso dei loro aderenti e consorti.
Lo scontro avvenne al canto di via dei Marchesi e anche la nobiltà che stazionava in Piazza, appena accortasi dei rinforzi, attaccò sul dietro i rivoltosi (forse passando dall’attuale vicolo del Cai). Nella Via degli Allegretti, così stretta e piena di contendenti, non fu possibile nemmeno l’uso delle spade, per cui lo scontro avvenne a corpo a corpo, con l’impiego di pomi, di pugnali e di lotta vera e propria.
Il potestà e i governatori, vedendo una battaglia così accanita e temendo la rovina della città, dopo vari squilli di tromba per far cessare quel micidiale scontro, bandirono che, chiunque, dopo un’ora fosse trovato con le armi in pugno, sarebbe stato impiccato. A questa intimazione molti popolari desistettero dal combattere ma non fu così da parte della nobiltà perché, rendendosi conto di aver preso vantaggio, istigata dai Quercetani e dai Buonvicini, non voleva abbandonare il conflitto.
Il potestà e i governatori, insieme ad altri cittadini che avevano accolto l’intimazione, scortati da una buona squadra di soldati e forzata ogni resistenza, entrarono in mezzo ai contendenti, sedando il tumulto; ma il pericolo che la lotta si riaccendesse era evidente, perché i popolari non abbandonarono le posizioni e, tutti in massa e frementi di sdegno per il sangue già versato, erano disposti a riprendere la lotta.
Nel frattempo incominciarono ad arrivare in città altri uomini dai castelli vicini, accorsi in favore dell’aristocrazia, per cui la parte dei nobili divenne superiore e più forte, non tanto per il numero, quanto per la destrezza nel combattere dei nuovi arrivati.
I nobili presidiarono i più importanti punti della città, accrescendo così ancor più la loro forza per le particolari posizioni occupate a guardia della Rocca, di ogni canto di strada, delle porte e delle mura. Tutta la notte fu trascorsa dalle due fazioni in allarme, ma fortunatamente la tregua, imposta dal potestà, non fu violata.
La mattina seguente, il podestà fece chiamare il Ganuzza a parlamentare. Questi si presentò con duecento armati e, alla domanda della causa di tale sollevazione, rispose che il popolo si era ribellato perché continuamente offeso e oppresso, dai nobili e che non intendeva soggiacere ulteriormente a tale oppressione e voleva partecipare al governo della città.
A seguito di tale risposta, fu riunito il Consiglio, il quale decise di dare al popolo qualche soddisfazione e che perciò fossero riformate le leggi che regolavano il governo della città, affinché la plebe non avesse più a dolersene. Dopo tali decisioni intervenne nuovamente l’Inghirami, replicando che si facessero delle concessioni giacché lo si credeva necessario, ma che era indispensabile anche castigare coloro che avevano istigato la plebe a tumultuare e che, prima di tutti, fosse tolto di mezzo il Ganuzza, quale principale agitatore della moltitudine, altrimenti, con lui libero, ci sarebbe stato sempre il pericolo di nuove sollevazioni.
Così fu deciso e il Ganuzza fu invitato con sette dei più influenti della plebe a partecipare al Consiglio, per dare inizio, insieme ad altrettanti rappresentanti della nobiltà, a riordinare amichevolmente e, quindi, di comune soddisfazione, il governo della città.
Il Ganuzza accolse volentieri l’invito e, scelti sette dei suoi fra i più capaci e devoti, entrò nel palazzo dove, purtroppo, appena salite le scale, furono circondati, sopraffatti e cacciati nelle prigioni del Palazzo stesso. Fatto questo; si convenne di trattare direttamente con la plebe, che fu invitata per la mattina seguente.
Per timore di qualche nuovo inganno, quelli della plebe intervennero in buon numero e bene armati. La riunione fu tenuta in Piazza e il governo della città fu così riformato. I dodici governatori, prima eletti metà fra gli iscritti nel libro bianco (famiglie nobili) e l’altra metà nel libro rosso (famiglie del ceto mezzano), da allora in poi dovevano essere quattro di ogni terziere, cioè – oltre ai suddetti nobili e mezzani – vi si comprendesse anche quelli della plebe; che i quindici addetti alle porte dovevano essere parte dei mezzani e parte dei popolari; che per ogni contrada si facesse un capitano e un gonfaloniere, scelti indistintamente fra il ceto grande, mezzano o plebeo; che il consiglio dei cento fosse ridotto a trentasei componenti con la denominazione di consiglio nuovo e che di tutto il popolo si facesse un consiglio di seicento elementi con il pieno dominio, in cui risiedesse la suprema autorità e che le riunioni, per deficienza di locali, fossero tenute nella Chiesa Cattedrale di Santa Maria.
Ad istanza del popolo furono esiliati, per dieci anni con diecimila lire di ammenda, Neri Buonaguidi e i nobili di Querceto, per essere stati quelli che avevano attaccato la battaglia contro la plebe, mentre dei popolari, che insieme al Ganuzza si trovavano in prigione, non ne fu nemmeno parlato.
Questa sollevazione, come si è visto, portò particolari travagli e lutti per la città, rischiando anche di ridurla alla rovina. Ma cosa che più meraviglia, come avvenne anche nel caso di Manfredi di Mirittino Barnarducci, fu una ulteriore prova dell’incostanza del favor della plebe, la quale, saziata nelle sue aspirazioni, si dimenticò dei suoi miserabili compagni, abbandonandoli senza che alcuno ne avesse pietà e che, quindi, si prendesse pensiero della particolare condizione in cui si trovavano. Infatti il Ganuzza e gli altri rimasero a lungo carcerati e perirono di stenti e di disagi nelle celle in cui erano stati rinchiusi.