Tutti conoscono gli stemmi gentilizi dipinti nel 1842 sulle pareti della navata centrale del Duomo, in sostituzione di quelli scolpiti in legno nei soffitti delle navate laterali, che appunto in quell’anno furono demoliti perché ormai in rovina.
Sono venti stemmi; sedici appartengono a famiglie nobili e patrizie volterrane (quello Incontri è ripetuto), uno, anch’esso ripetuto, alla Congregazione della «Fraternita» ed un altro, l’ottavo sul lato sinistro guardando l’altare maggiore, è di famiglia non volterrana: quello dei marchesi Malaspini o Malaspina dello «spino fiorito», non della famiglia del dantesco Morocello, che discendeva dal ramo dello «spino secco».
E’ spontaneo chiedersi il motivo per cui compare un arme gentilizia non volterrana, dal momento che sappiamo che tutte quelle intagliate nei soffitti delle navate laterali appartenevano alle famiglie od alle Congregazioni che avevano contribuito alla realizzazione dell’opera, progettata e portata a termine dall’architetto volterrano Francesco Capriani sul finire del Cinquecento.
I ricordi dei Malaspina nella nostra città si collegano con Gabriello e Spinetta suo fratello, del ramo di Fosdinovo, che si trovavano all’infausto assedio del 1472 sotto le bandiere di Federigo da Montefeltro, duca d’Urbino, ma non trovo in questa presenza una relazione con lo stemma della famiglia, scolpito prima e dipinto poi in Cattedrale.
Si può pensare a Zaffira, del ramo di Olivola, che nel 1545 era venuta sposa di Giulio Jacopo Maffei. Donna Zaffira, infatti, oltre all’erogazione del marito, poteva aver versato un contributo per la realizzazione dell’opera con i suoi beni dotali, in considerazione che la spesa complessiva del soffitto era ingente per qui tempi: circa quattordicimila scudi d’oro. Anche questa ipotesi, però, persuade poco perché nel Cinquecento, con il contratto matrimoniale, la donna assumeva il cognome del marito a tutti gli effetti giuridici, a meno che non rimanesse vedova, nel quale caso si trova sempre in tutti i rogiti, dopo il cognome da nubile, da dizione “moglie del fu…”. Poiché vedova non era ancora, o sarebbe stato ripetuto lo stemma Maffei, come per gli Incontri e la «Fraternita», o quantomeno lo stemma sarebbe stato partito, come quello Inghirami – Fei (il primo a sinistra della navata).
E’ da notare, e mi sembra notizia non trascurabile, che la famiglia di Zaffira, come si rileva da alcune lettere familiari del fratello Fabio, non risulta navigasse nell’oro.
In un documento del 1565, ora nel Fondo Pilastri dell’Accademia dei Sepolti, ritengo di aver trovata una spiegazione possibile.
Prima di procedere nella narrazione, però, non sarà inopportuno ricordare che la datazione è indicata secondo il calendario dello stile fiorentino, cioè “ab incarnatione”, secondo il quale l’anno aveva inizio il 25 marzo; perciò gli avvenimenti di cui trattiamo si svolgono nello spazio di cinque mesi dello stesso anno. Con atto del 4 agosto di quell’anno – rogato da Alessandro Cecchi ed esecutivo di una delibera del Maggior Consiglio del 12 e 13 marzo 1564 (cioè 1565), di mano del Cancelliere Ufficiale della Comunità, Paolo Brogi da San Gimignano – si trova che, con i testimoni di rito, fra cui il notissimo Belisario Vinta, i “sei deputati sopra il pagamento e riscossione dei debiti pubblici” e cioè Paolo Buonamici, Bartolomeo Babbi, Pierfrancesco Gotti e Persio Falconcini, assenti Luigi Inghirami e Cecino Cecini – confermano di ricevere per conto della Comunità di Volterra da Alessandro, fratello e procuratore di donna Marzia, figlia del marchese Leonardo Malaspina di Podenzana, vedova del conte Gherardo di Fazio della Gherardesca, un prestito di 1500 fiorini d’oro, del valore di lire 7 e soldi 10 ciascuno, all’interesse del 10%, da restituirsi in cinque anni.
E’ facile immaginare le difficoltà di cassa della Comunità, se per un prestito si ricorre a persone residenti in località così lontana, dal momento che in Firenze ed in Siena, molto più vicine, pullulavano i prestatori, a meno che questi non avessero fiducia nella solvibilità volterrana.
Riteniamo, però, che i Malaspina esercitassero il prestito a condizioni più vantaggiose di quelle offerte dai Fiorentini o dai Senesi e che avessero in città qualche intermediario molto influente.
L’interesse, per I tempi, può sembrare abbastanza favorevole a prima vista, anche perché corrisponde al tasso ufficiale previsto dalle leggi vigenti, ma leggendo, attentamente l’atto mi sembra che in realtà anche se non si tratta di interesse usurario vero e proprio, sconfini dai limiti imposti dalla legge.
«Gli utili», come si diceva allora, o sconto come si dice oggi, debbono essere pagati ogni anno anticipatamente e quindi il Camarlingo o Depositario dei «Sei» sopra citati, Francesco Incontri, nel ricevere i 1500 fiorini, ne restituisce subito 150 quale interesse del primo anno, somma di cui viene rilasciata regolare quietanza dal fratello e procuratore di donna Marzia.
Il rogito prosegue affermando che il versamento della quota annua anticipata di 150 fiorini è solo a titolo di interesse e non in conto capitale, perché il debito non viene scalato negli anni intermedi ed alla fine del quinto anno deve essere rimborsato in unica soluzione di 1500 fiorini; gli interessi, come il capitale, debbono sempre essere versati in moneta d’oro e non in altra moneta o, in via del tutto eccezionale, ma sempre con il benestare della predetta marchesa o del suo procuratore, in moneta d’argento.
Dal contesto, dunque, è provato che l’interesse non è scalare perché rimane fisso in 150 fiorini annui anticipati ed allora – alla luce della legislazione dell’epoca – si tratta di interesse «usuraio».
La Comunità, infatti, riceve solo 1350 fiorini, ma corrisponde l’interesse fisso su 1500 e poiché questo viene corrisposto anticipatamente sale dal 10 all’11,11%.
In conclusione in cinque anni la Comunità restituisce il capitale ricevuto, senza deroghe o dilazione alcuna, e 750 fiorini d’interesse.
Donna Marzia – o chi per lei – anche rifacendoci al tasso stabilito dai «Nove conservatori» dello Stato fiorentino, così abilmente aggirato, non riceve soltanto 750 fiorini d’interesse, ma 833,25, nella convinzione che gli interessi maturati vengono di nuovo investiti al tasso ufficiale e tenendo conto di quell’1,11% che deriva dalla restituzione anticipata.
Naturalmente non possono mancare le garanzie. I firmatari dell’atto si obbligano con i beni personali, con i beni, con i proventi della comunità, presenti e futuri e con i diritti impositivi previsti dagli Statuti del Comune. Non viene richiesto – e di ciò bisogna prenderne atto perché era normale prassi dei prestiti – il pegno anticipato dei beni, la pena del doppio in caso di insolvenza, forse perché la Comunità di Volterra, con le moie del sale, dava sicuro affidamento.
Per chiudere sull’argomento interessi dobbiamo notare che il pagamento anticipato dei medesimi aumenta «l’utile» annuo dei medesimi nel quinquennio e quindi abbiamo non il 10 ma il 14,285 dei medesimi ed ecco perché ho parlato di interesse «usurario».
Nel fare questa digressione sugli interessi e sulle cifre, più o meno approssimative, ci siamo allontanati dalla tesi che ha dato spunto a questo articolo, ma torniamo subito in argomento.
Fin dal medioevo, ma direi fino dai tempi evangelici, la Chiesa ha sempre condannato l’usura in modo rigido – almeno in dottrina – e valga per tutti l’esempio della condanna infernale descritta da Dante; ricorderemo soltanto che molto spesso « i prestatori”, presi dal rimorso della trasgressione, per poter essere sepolti in luogo sacro («gli usurai» ne erano esclusi), facevano elargizioni a chiese, monasteri, conventi e confraternite.
Non è da escludere, quindi, che donna Marzia, in riparazione delle usure esercitate direttamente o con i suoi beni dotali, «in riparazione del maltolto», abbia voluto contribuire con atto munifico alla realizzazione del soffitto ligneo della Cattedrale della città in cui aveva esercitato il «presto» e forse così può spiegarsi la collocazione dello stemma gentilizio dei marchesi Malaspina dello spino fiorito.·