Mi aduggia un po’ sentir dire «Alabastraio Volterrano» perché è un nome che non vuole aggettivi. Gli Etruschi dicendo «urne di alabastro», pensavano a Volterra e così penseranno i posteri per la nostra Città.
E chi ha la fortuna di venire a visitare la nostra bella cittadina, che si è accavallata ed amalgamata bene nei secoli e che dei secoli porta i ricordi e la patina, ne avverte la presenza da lontano; non tanto per la sua posizione dominante quanto perché in alcune zone affiora il magma tra fili d’erba brulla, come per dire: «Volete l’alabastro? Venitelo a pigliare!».
Nei secoli l’alabastro s’è formato in solfato di calcio idrato; il suo colore (tendente al bianco) è striato quasi sempre da venature di colori diversi. L’alabastraio se lo lavora con passione di artista, nella caratteristica bottega a piano-terra.
E’ una bottega che si riconosce a distanza per la soffice incrostazione di polvere bianca sul muro esterno; la porta d’ingresso è mantenuta generalmente chiusa da un ritaglio di alabastro che scorre appeso a due carrucole; la finestra invece è mantenuta costantemente aperta ed è facile affacciarsi di fuori per guardare dentro o per parlare con gli alabastrai che lavorano.
Di queste botteghe però ne sono rimaste poche da quando è arrivato il motore a fare anche più polvere. In queste botteghe è possibile ancora trovarci sedie senza spalliera per non batterci il gomito nei movimenti di ritorno; al banco sono imbullettate tavolette sporgenti, rese sbertucciate dal logorio degli arnesi; sulle pareti stonacate non mancano stampe di donne scollacciate: in terra non c’è impiantito o non si vede.
In queste botteghe, dicevo, in queste condizioni hanno lavorato gli Alabastrai, intercalando una romanza a una discussione, una scommessa a una questua, una barzelletta a un bicchiere di vino.
E così il carattere dell’alabastraio s’è formato, mantenendosi generalmente brillante nella buona e nella cattiva sorte.
Si dice che l’alabastraio segua l’andazzo dell’alabastro che percepisce tutte le oscillazioni: se la borsa si inquieta, se la pace è minacciata, se il commercio si turba, l’alabastro lo avverte subito e subito l’alabastraio ne subisce i contraccolpi.
Ecco perché la vita dell’alabastraio corre con la giornata, largheggiando nella dovizia, risparmiando nella carestia, in una vita che sembrerebbe spensierata ma che non lo è.
Oggi le cose sono un po’ cambiate per l’evoluzione dei tempi. Nuovi locali, più spaziosi, più moderni, più igienici sono stati creati alla periferia della città, ma poche sono le figure caratteristiche di vecchi alabastrai che sopravvivono. Tuttavia il ricordo ancora fresco ce li rende ancora brillanti ed il raccontino che segue mette in evidenza il carattere e lo spirito dell’Alabastraio in periodo di magra:
Si preparava una nottata d’inferno. Le nubi, già basse all’orizzonte, stavano mettendo il «cappello a Montecatini» ma i Volterrani non ci facevano più caso. Poi i nuvoli cominciarono a tuonare fra loro e nell’urto tutto si illuminava di una luce violenta. E poi i nembi cominciarono a cozzarsi con la terra e ne uscivano fulmini e saette che fendevano l’aria a grossi zig-zag; ma gli alabastrai erano tranquilli ugualmente. Lavoravano a finestra aperta e canticchiavano motivi della «Cavalleria leggera», per meglio mantenere il ritmo del lavoro. A un tratto una saetta si abbatté secca su Volterra; la luce elettrica mancò e nel buio una voce si levò stridula:
«Porca miseria!».
Un passante riconobbe la voce. A tastoni si avvicinò alla finestra e a vanvera domandò:
«O che c’è Acciughina?».
Acciughina prese al volo l’antifona; impostò la voce a falsetto e veloce rispose:
«E’ uscito!».
In quel mentre la luce tornò forte, mentre i goccioloni si schiantavano sul selciato.
I due si trovarono di fronte, esterrefatti e puntati come galletti. Furono attimi spasmodici, poi Acciughina prese a dire:
«Senta: se è venuto per quella cosa, sono cose che tratto a casa».
Poi pensò che a casa poteva ritrovarcelo e così si riprese:
«E poi, senta, queste non sono stagioni per andare in giro di notte, secondo me».