La strage del colera asiatico

Come il Colera si distribuì in poco tempo da Pontedera a Ponsacco, e da Ponsacco, per importazione, a Montefoscoli, così da quel medesimo centro lo si vide poco dopo trasportato a Montecatini di Val di Cecina ed a Volterra. E’ quanto sappiamo facendomi riferimento alle parole del dott. Pietro Betti in un libricino specialistico sulle malattie della Toscana.

LA PREVENZIONE

A conti fatti, la città, sia per il domesticheto1 che la circondava, sia per essere dominata da tutti i venti, godeva di aria buona. Tuttavia questa grande ventilazione arrecava danno agli ammazzatoi situati in quella strada che oggi chiamiamo Vicolo dei Vecchi Ammazzatoi; essendo sterrati e con acqua scarsa in tutto l’anno, generava delle puzzolenti esalazioni di sostanze organiche in putrefazione, che per un buon tratto ammorbavano tutta quella parte dì città. Vedendosi minacciati dal Colera, dietro ripetuti reclami, gli ammazzatoi vennero quindi temporaneamente traslocati fuori Porta Fiorentina, non senza gravi difficoltà sostenute dai proprietari e dai macellai stessi. Lo sterro inzuppato di sostanze putride comunque continuò a emanare lo stesso fetore per molto tempo, al quale contribuirono le fogne delle vie pubbliche, scarsamente pulite. In alcuni momenti passando vicino alle tubature queste toglievano davvero il respiro.

Tale trasferimento avvenne pochi giorni prima dello sviluppo del Colera e fu una azione effettuata in via esclusivamente precauzionale. Infatti, le case di queste zone erano considerate malsane e sudicie come non ci si potrebbe mai immaginare e per i loro coinquilini, i più miserabili della popolazione di Volterra, si temeva davvero tanto. Fortuna che andò tutto per il meglio: in un resoconto fatto ai posteri, in questa parte di città, eccetto tre casi di mortalità rinvenuti nei primi tre giorni di epidemia, non si verificarono grosse problematiche

La sporcizia non era insita solo in questa contrada, ma anche in altre più facoltose. Certa gente che non disponeva di grandi proprietà viveva in tuguri umidi e sudici da non saper farci venire un’idea del come potevano viverci a lungo. La poca pulizia domestica, tra l’altro, era eccellenza di tre quarti della popolazione che pur guadagnando discretamente nella manifattura dell’alabastro, non se ne curava; piuttosto amava mangiare bene. Di fatto il primo pensiero della mattina era sempre quello raggiungere i mercanti di Piazza dei Priori per accaparrarsi il cibo più fresco.

Inizialmente, ciò che preoccupava di più era la difficoltà nel trovare case migliori per chi abitava in schifosi porcili e sopratutto la difficoltà nel trovare dei banalissimi letti a chi proprio non ne disponeva. E se in qualche modo provvedevano, la soluzione non era mai sufficiente per tutta la famiglia.

In quanto alle autorità sia governative che municipali, pur muovendosi in ritardo nelle disposizioni preventive sanitarie, all’avvicinarsi del pericolo, sorvegliarono affinché nelle strade e nelle case, per quanto fosse possibile, ci fosse pulizia e decoro. Una volta che furono invasi dal morbo, misero in pratica tutti i mezzi affinché il numero delle vittime fosse il meno possibile.

Con l’organizzazione messa in campo riuscirono ad affrontare a piede fermo il flagello, senza essere colti di sorpresa come era avvenuto in altri paesi. Furono in ritardo solo nel montare un ospedale provvisorio lontano da quello civile, che si sarebbe rivelato utile per evitare contagi anche tra pazienti non affetti dal virus, perciò inizialmente dovettero per forza ricoverare i primi casi nell’ospedale della città, usufruendo di stanze il più possibile isolate dalle altre. E se questa fu una decisione alquanto imprudente, ebbero la fortuna di non lamentare le conseguenze. Il rischio celermente arginato lo si dovette all’attenzione e all’indefesso monitoraggio del dottore Giuseppe Biscioni, il quale nei primi momenti subì molti attacchi e non pochi dispiaceri da parte delle malignità e dell’ignoranza della popolazione allarmista e preoccupata.

Le molte precauzioni usate resero il responso complessivo finale più che accettabile.


I PRIMI SINTOMI

Mentre l’Italia soffriva l’epidemia, nel 1851 a Volterra si stava ancora bene. Qualche sintomo lieve non canonico del periodo si manifestava, ma tutto sommato ci si poteva accontentare. In quell’anno scomparvero le malattie a diatesi flogistica, ma di contro fece capolino la miliare, che nei primi giorni portò al creato alcuni malati. La miliare l’ebbero in complicanza in tutte le malattie fino al 1855.

Nel 1853 però i cittadini cominciarono ad osservare dei disturbi gastrici, che andarono a farsi più numerosi verso l’autunno, più rari in inverno, per poi ricomparire con più prepotenza nella primavera dell’anno successivo. Dopodiché si svilupparono frequenti eruzioni anomale, panarecci, antraci, flemoni tendenti alla cancrena, diarree biliose e vomiti che nell’estate e nell’autunno successivo si fecero così intensi da raggiungere non di rado la vera colerina, per la quale morirono alcuni bambini dal primo mese all’età di sette anni. Pochi furono quelli che andarono esenti da disturbi gastrici; nessuno che non sentisse una insolita lassezza o un insolito e marcatissimo sviluppo d’aria nel basso ventre.

I tempi stavano cambiando e i volterrani, presi dal panico, imputarono tutto quel malessere ai livornesi che quassù emigravano per sfuggire dal Colera. Non furono ben visti, tuttavia, mai mancarono ad ospitarli in casa così come facevano per i parenti e gli amici che abitavano in luoghi infetti dal morbo. Nonostante le malelingue nei loro confronti, in un’analisi fatta in seguito, possiamo affermare che nessuno di questi ospiti provvisori portò il morbo.

Nel 1955 i sintomi sparirono ovunque. Sembrò esserci una tregua che lasciò sperare in una risoluzione del morbo, ma nell’inverno dello stesso anno fecero di nuovo capolino le miliari, con febbre adinamiche e diarree. Speranza vana; nel circondario, nei paesi limitrofi, il morbo iniziò a imperversare ed iniziò la vera tragedia.

Bisogna precisare che a Volterra non si ebbe mai lo stadio finale di Colera asiatico, brutto e doloroso, ma si moriva ugualmente di colerina, ovvero di Colera al suo stadio iniziale. Nonostante la sua lievità, i sintomi erano comunque duri a sopportarsi e in certi casi si annoveravano anche da guariti. Il Colera arrivò per contagio per mano dei forestieri che via via si relazionavano economicamente con Volterra.


L’ARRIVO DEL COLERA

Il primi casi avvennero fuori dal centro storico. Nel 14 luglio 1855 si presentò il cosiddetto paziente zero alla Bacchettona. Francesco Grossi di Ponsacco, dove il Colera infieriva, si ammalò. Fu visitato dal dottor Grechi e curato in seguito da Pieruccetti medico-chirurgo in condotta a Montecatini; il paziente morì dieci giorni dopo in seguito a febbre tifoidea.

A quel tempo Montecatini era sotto giurisdizione di Volterra perciò non posso esimermi dal raccontare anche le vicissitudini di questo paese. Il secondo caso avvenne proprio là il 19 luglio. Per fortuna, undici giorni dopo, Giuseppe Matteucci di Ponsacco guarì, ma infettò altre dieci persone.

Il terzo caso fu la questione di Ferdinando Giani di Castel Fiorentino, dove il Colera mieteva parecchie vittime. Si ammalò in Borgo di San Lazzaro dove aveva preso una stanza; venne trasportato all’ospedale civile di Santa Maria Maddalena il 15 luglio e qui morì quattro giorni dopo. Borgo San Lazzero divenne ben presto un focolaio. Il 27 luglio si ammalò un certo Castroni fornaciaio nello stesso borgo e morì dopo otto giorni per febbre tifoidea; nel giorno di poi si ammalò anche la madre Elisabetta Castroni, guarendo, per fortuna, poco dopo. Sempre in quella contrada fu presa di mira Magherita Bulleri il 28 luglio. Fu portata anch’essa all’ospedale civile, poiché non era ancora pronto l’ospedale provvisorio, e morì la mattina seguente. Il 30 luglio invece si ammalò presso il podere Casa Bianca, dove era andata a far l’erba, Assunta Giovannini. Originaria di Borgo San Lazzaro, fu la prima a rinnovare l’ospedale provvisorio, guarendo.

Fino a quel momento non ci furono casi preoccupanti in centro città, lo diventarono quando Feliciano Federighi procaccia tornò a Volterra da Livorno, attraversando diversi luoghi infetti. Fu fulminante, subì malesseri il 29 luglio verso le sei del mattino e morì tre ore dopo. Da qui ebbe principio il Colera in centro città, poiché nella notte del giorno dopo cadde vittima Giuseppe Bruci ciabattino, uomo piuttosto impaccioso, che per semplice soddisfazione di curiosità era andato a vedere il suddetto Federighi. Fu trasportato all’ospedale provvisorio e qui morì sette giorni dopo. Nello stesso giorno si ammalò Tommaso Nardini arrotino, venendo trasportato al lazzeretto, dove morì due giorni dopo. Pure i suoi due figli furono presi dal Colera.

Dopodiché si ammalarono due militari della guarnigione cittadina, Petruccioli Domenico e Mazzini Giuseppe, i quali erano soliti andare nelle ore di libertà a far la passeggiata per San Lazzaro, focolaio ormai appurato.

Il diciassettesimo caso fu segnato da Giuseppe Lenzi, il quale, nei primi periodi di spavento generale, si offerse come servente all’ospedale provvisorio. Si ammalò l’8 agosto e morì il giorno successivo. Altre vittime sfortunate furono il muratore Francesco Masella e lo scarpellino Ottaviano Naldi che lavorando in una stanza per i colerosi vollero per mera curiosità e quasi increduli dell’esistenza del flagello, affacciarsi nella sala dove i colerosi erano raccolti. Morirono uno quattordici ore dopo, l’altro sedici ore dopo.

L’ospedale provvisorio fu eretto distante dalla città, nei pressi del Borgo di San Giusto, fuori della porta di San Francesco in un locale appartenente alle monache di Santa Chiara; siccome questo stabile era per la massima parte abitato, fu necessario evacuarlo. Rimasero nelle proprie case soltanto due famiglie, ma il motivo non è ancora chiaro; forse erano ritenute a debita distanza dall’ospedale. Purtroppo i criteri di prevenzione si rivelarono sbagliati, perché queste ebbero un coleroso ciascuno in Pietro Becorzi e in un certo Ranieri. Alché nacque il sospetto che questo lazzaretto fosse un focolaio non propriamente contingentato; nella zona Borgo San Giusto si ebbero, infatti, trentotto casi sospetti. Per tranquillizzare gli animi venne comunicato che la maggior parte di questi ammorbati erano popolani ed erano poveri, mal nutriti e sudici, per cui era normale si ammalassero, però si ebbero casi anche in famiglie benestanti e quindi qualche dubbio sulla veridicità dell’affermazione espressa rimaneva. Anche perché la povertà e sporcizia, come già accennato, non fu mai equazione diretta all’ammalarsi di Colera: il quartiere di Porta Fiorentina, il più povero di tutti, dimostrava ampiamente che non era vero. Lì, nonostante la situazione disperata in pulizia e decoro, tra i circa cinquemila anime che qui abitavano si ebbero solamente trentasei casi, cioè quattro più di Borgo di San Giusto, dove, a confronto, i poveri di qua potevano considerarsi più che benestanti.

Uno dei casi di San Giusto fu particolare e molto drammatico. Violante vedova Righi, rimaritata ad un certo Scarselli, d’anni 77, si ammalò il 9 settembre dopo esser guarita da febbre terzana doppia. Essendo la Scarselli curata a domicilio, era assistita da molti suoi congiunti, fra i quali la sua nuora Carolina moglie di Luigi Righi, gravida all’ottavo mese. La nuora volle prestare assistenza a Violante fino al suo ultimo respiro (morì tre giorni dopo), ammalandosi di conseguenza. La donna incinta fu trasportata subito al lazzeretto per procedere ad un tentativo di parto prematuro, per evitare che anche il bambino potesse infettarsi; ma al momento dell’operazione, la donna cominciò a percepire leggeri dolori uterini, che diventati gradatamente più intensi furono valevoli alla naturale espulsione del feto, rivelatosi poi morto. Una disgrazia, poi la madre lo seguì per congestione cerebrale sei giorni dopo.


LA VITA NEL LAZZARETTO

Il condannato nel lazzeretto stava in isolamento forzato, ma aveva vari mezzi di comunicazione con gli altri condannati ed era in continua relazione con le varie persone dello stabilimento e con persone esterne come i serventi, le guardie, spesso il Direttore e il di lui aiuto, i custodi, il medico, gli infermieri e i frati cappuccini, i quali dalla mattina alla sera facevano il giro di tutte le celle; non mancavano i visitatori raccomandati.

La lana, le vacchette, il cuoio, il ferro, la latta, la canapa, il lino e tanti altri materiali necessari venivano portati dall’esterno alle varie officine e pure i viveri erano provveduti da altrettanti fornitori.

In questo stabilimento, pur in quarantena, i reclusi non furono esenti da disturbi gastrici fino a raggiungere anche la vera colerina, tuttavia nessun caso di Colera asiatico, grazie forse alla fortunata condizione atmosferica, tipicamente ventosa, incapace di farla sviluppare. Per quanto riguarda lo stato sanitario e igienico venivano raccomandati pratiche precise come atti a distruggere, per quanto sia umanamente possibile, qualunque mefitica esalazione. Le cloriche fumigazioni erano fatte per tutto lo stabilimento due volte al giorno e si aveva cura che fosse rinnovato frequentemente l’ambiente atmosferico di ciascuna cella. Quando la situazione a Volterra divenne più critica le disposizioni delle autorità furono quelle di rendere minori i contatti tra le persone della città ed i reclusi, ma l’isolamento assoluto tra delle prime dai secondi, era per le istituzioni organiche del luogo impossibile. Sapendo quanto nocivi e deleteri erano i principi che si esalano dagli ordinari escrementi dal corpo, era necessario che per tre volte al giorno si effettuassero lo svuotamento dei vasi di ogni recluso.

Chi abitava nelle campagne non veniva trasportato in lazzeretto, ma tenuto in quarantena presso il proprio domicilio.

> Leggi, Un choleroso alla Burlanda


RESTRIZIONI DI CARCERE

Al tempo, come adesso, c’era un’altra reclusione, quella del penitenziario di massima sicurezza. Nei mesi di settembre e di agosto del 1855 quasi tutti i reclusi furono affetti da disturbi intestinali in gradi diversi d’intensità e di forma, con diarree biliose, e qualche volta sierose, con recidivi vomiti. Il relatore del Colera del penitenziario imputò con sospetto l’origine dei disturbi a quattro internati che erano stati trasferiti pochi mesi prima dal carcere delle Murate di Firenze, dove il morbo imperava di brutto. E ciò si fece ancor più sospettoso quando il primo ad avere il Colera fu proprio uno dei quattro.

Così per futura precauzione vennero dettate alcune regole interne per i nuovi arrivati. I nuovi condannati provenienti dalle Murate dovevano essere alloggiati in una stanza isolati, senza alcun contatto, per un massimo di tre giorni, al fine di valutarne il suo stato di salute. Se erano portatori di un fardello o di un qualsivoglia altro oggetto, questo veniva sequestrato e consegnato al magazziniere. Poi, passato il tempo predetto, il nuovo arrivato veniva spogliato dei propri vestiti, rasato di capelli e barba, sottoposto ad un bagno universale e quindi rivestito con i panni dello stabilimento. I vecchi vestiti sequestrati finivano insieme agli oggetti.


RESOCONTO FINALE

Di casi ce ne furono molti altri, ma non di grande interesse da dover essere riportati. Complessivamente fra Volterra, Montecatini, Pomarance e stabilimento penale i casi di Colera furono 181. 98 maschi di cui morti 64 e 83 femmine di cui morti 47. Il Colera attaccò progressivamente i più provetti, soprattutto chi aveva dai sessantanni ai novantanni.

© Marco Loretelli, MARCO LORETELLI
La strage del colera asiatico
FONTI
PROF. COMM. PIETRO BETTI, in “Seconda Appendice sul Colera Asiatico che contristò la Toscana nelli anni 1835 – 1836 – 1837 – 1849, comprendente la Invasione Colerica del 1855” , a. 1858, Tip. delle Murate
NOTE BIBLIOGRAFICHE
1 Terreno addomesticato dalla coltura, campi coltivati