Anche in Italia, dal secolo X in poi, si formarono i comuni, cioè le città-stato, più o meno autonome e generalmente in opposizione al sistema feudale.
La costituzione di questi particolari aggregati politici e territoriali fu facilitata dalla debolezza di governo dei vescovi-conti, dalla insufficienza dell’economia feudale e dalla decadenza del potere imperiale in lotta con il papato. Il fenomeno si sviluppò in quasi tutta l’Europa, e proprio per questo le cause che Io generarono possono essersi verificate, in tutto o in parte, in svariati luoghi ed in tempi diversi. Tale avvento, in sostanza, era connesso con la generale riorganizzazione di tutta la società europea, nella quale si andarono affermando classi politiche nuove contro ceti dirigenti ormai incapaci di esplicare la loro funzione governativa. Naturale, quindi, che si cercasse di ritornare alla originaria e più semplice forma di vita sociale della organizzazione statale, alla prima e fondamentale base dalla quale erano scaturite e maturate le grandi potenze imperiali. Pertanto fu proprio la progressiva disgregazione politica e territoriale di questi grandi nuclei sovrani che permise il nascere del comuni, l’affermarsi di una realtà storica essenzialmente di origine borghese o signorile. La città-stato ebbe un’autonomia pressoché completa, in quanto solo per un determinato periodo riconobbe l’autorità imperiale.
Anche in Toscana tale fenomeno ebbe una particolare diffusione e si formarono varie repubbliche in città come Firenze, Pisa, Arezzo, Siena, Lucca, Pistoia e Volterra, tanto per citare le più importanti, ed esse furono le artefici di una reale autonomia politica, in seno alla quale, al pari degli altri comuni d’Italia, si andò formando una dottrina laica dello Stato e, quindi. una potestà civile In contrapposizione a quella ecclesiastica esercitata dai vescovi.
La lotta, fra queste due potestà, che trovarono la loro massima espressione nei Guelfi, sostenitori del Papa, e nei Ghibellini, seguaci dell’amministrazione laica imperiale, nonché fra le loro fazioni interne, fra le quali un ruolo di primissimo piano ebbero i Guelfi Bianchi e quelli Neri, creò non solo difficoltà alla nascita prima, e allo sviluppo dopo dei liberi comuni, ma permise anche l’ascesa politica di ceti economicamente inferiori fino a causare spesso delle vere e proprie guerre civili che smembravano e impoverivano le città già travagliate dalle lotte di vicinato. Spesso infatti Ie rivalità fra comune e comune, nate sia per le ambizioni di espansione dei centri più grandi, sia per i condizionamenti politici che ancora avevano origine dal potere religioso e imperiale, sfociavano in guerre sanguinose e violente.
Questa situazione portò, in Toscana, ad una particolare supremazia del comune di Firenze, che mai nascose iI progetto di annettere alla sua signoria l’intera regione. Per cui fra gli altri comuni si alternarono varie intese e alleanze, chiamate anche “leghe” al fine di difendersi dalla prepotente potenza politica e militare della repubblica fiorentina.
Questa parte di storia, che segnò la fase caratteristica del medioevo, fu assai movimentata e, in parte, ci viene testimoniata da una inedita pergamena, rinvenuta presso l’Archivio di Stato di Siena.
Si tratta, senz’altro, di un documento molto importante, che si riferisce ad un patto di alleanza, intervenuto fra i comuni di Siena, Pisa, Pistoia e Poggibonsi contro la repubblica di Firenze, stipulato il 7 giugno 1223. L’incontro fra i potestà di dette città avvenne nella valle dell’Era “in domo Mansionis de Templo”, cioè presso la Magiona di Villamagna che, a quel tempo, era una mansione dell’ordine religioso e cavalleresco dei Templari.
Detto questo, ecco che, con la Magiona, saltano alla ribalta gli ordini cavallereschi, e con essi, il segno del Tau.
Fin dall’antico l’ospitalità era tenuta in particolare conto e l’avvento del cristianesimo la trasformò in una delle più vive e pie manifestazioni della vita religiosa. Pertanto la “hospitalia”, così fu chiamato inizialmente qualsiasi ricovero, iniziò la sua attività con una particolare organizzazione, accogliendo i viandanti, gli ammalati, i vecchi, le donne e i bambini. Il tutto sempre sotto il controllo del vescovo o di un suo rappresentante, detto “spedalingo”. Ma più tardi all’esercizio della hospitalia si dedicarono, oltre ai comuni, anche i laici, e la storia di Volterra ce ne indica molti, per cui si aprirono spedali privati, taluni detti anche “dei poveri”.
L’apertura di tali spedali fu orientata verso località di maggior disagio, cioè dove a quei tempi se ne ravvisava una particolare necessità, come sui guadi dei fiumi, sulle vie battute, sulle cime delle colline, nei castelli e nei loro borghi, dove venivano accolti i pellegrini e i bisognosi. Tale Iniziativa dette così origine ai grandi ordini ospitalieri che si riconoscevano, per tale attività, sotto Il segno del Tau.
Parlare della provenienza di tale segno non è cosa molto facile, perché esso, da quanto si dice, ha avuto origine da simboli paleocristiani in Grecia e non va trascurato anche il fatto, che presso gli Ebrei, tale simbolo era in uso e se ne servivano per segnarsi la fronte.
Tali ospitalieri furono detti, anche se impropriamente “cavalieri del Tau” e dico impropriamente perché essi appartenevano a ordini religiosi e cavallereschi ben distinti fra loro, con statuti di fondazione propri e avevano in comune solo il fine della ospitalità.
Si riconobbero sotto il segno nel Tau gli ordini dei Giovanniti o Gerosolimitani, dei Templari, dei Teutonici, degli Antoniani, dei Frati di San Lazzero e del Santo Sepolcro e della regola dell’Altopascio: quest’ultima regola era Identica a quella dei Gerosolimitani, ma autonoma.
Ora viene da domandarci perché si riconoscevano sotto il segno del Tau e cosa rappresentasse questo simbolo. Il segno del Tau è una T greca ed era il simbolo della carità infinita, usato dagli ospitalieri, per indicare ai pellegrini e ai bisognosi che presso quel luogo si curava prima l’anima e poi il corpo. Quindi si trattava di ordini religiosi e cavallereschi che usavano tale segno per far comprendere al pellegrino o all’infermo che presso di loro poteva essere alloggiato e curato sia spiritualmente che fisicamente. E’ da precisare però che detto segno non era sempre riprodotto in modo uguale da tutti gli ordini, ma per lo più era rappresentato da una croce o dalla lettera T.
Non a caso poi in tale simbolo fu ravvisato un succhiello, o una trivella, o addirittura un martello o uno strumento qualsiasi di lavoro fabbrile. Tale ravvisamento, anche se può apparire improprio, una fondatezza pratica ce l’aveva perché il compito di tali religiosi, oltre all’ospitalità, era anche quello di rendere più agevole e più sicura la strada al viandante e al pellegrino con la costruzione o di ponti sui fiumi e sui torrenti, di barche per traghetti, di case in luoghi distanti dagli abitati. Poi la fantasia popolare vide in tale segno una cruccia, un bastone o una stampella, e ciò trovava riferimento nel compito di assistenza che si erano prefissi questi religiosi, con particolare intonazione all’ordine degli Antoniani.
Chiarito, anche se in modo succinto, l’origine di questi ordini religiosi e cavallereschi, rimane da precisare che alcuni di essi, come quello della regola dell’Altopascio, oltre ad ammettere nell’attività ospitaliera i frati, i laici, i chierici e cavalieri, impegnavano anche le donne, purché vergini, le quali erano adibite a lavori a loro confacenti come impastare il pane nell’arcile, sbattere il bucato e provvedere ai lavori di cucito. La castità, prima dei voti, in questi ordini promiscui metteva a dura prova tutti gli aderenti, per cui la regola li sottoponeva a prescrizioni severissime e i frati non dovevano andare mai soli per città e castelli, ma due a due o tre a tre, qualsiasi fosse il motivo che li portava fuori della casa, come ad esempio la predicazione, la questua, i pascoli, i lavori campestri, l’esercizio delle armi. Anche quando si trovavano nella casa e, perfino, nella chiesa, comunque dove vi fossero donne, era loro proibito qualsiasi contatto con esse. Anche per le uscite dall’ospizio, la scelta delle persone e del loro numero era rimessa al maestro che, per prudenza, accoppiava vecchi a giovani, muniti sempre di un lume acceso affinché “l’ombra soffice dei boschi e della notte non li richiamasse a pensieri lascivi”.
Alla donna aderente all’ordine, in qualsiasi evenienza, era perfino proibita di mostrare le braccia nude, per cui era controllatissima in ogni circostanza, affinché il suo abbigliamento e Il suo comportamento non destassero particolari attenzioni e non poteva mai allontanarsi dalle altre consorelle, ad eccezione di quando si chiudeva nella sua cella per dormire.
Quindi il criterio generale era quello di una gestione secondo necessità e convenienza, per cui gli uomini erano serviti da uomini e le donne da donne.
Ma, a questo punto, passiamo agli ordini religiosi e cavallereschi che ci interessano più da vicino, perché operarono nella nostra antica diocesi.
Quest’ordine, detto anche dei “cavalieri di Rodi”, oggi si riconosce col nome dei “cavalieri di Malta”. Le sue origini risalgono ad un ospedale od un ospizio per pellegrini fondato in Gerusalemme da mercanti amalfitani verso il 1023. Tra il 1120 e il 1160 l’ordine cominciò ad assumere anche funzioni militari per la difesa di Gerusalemme e per la guerra contro i saraceni. Alla fine della dominazione cristiana in Siria (1291) la, sede fu trasferita provvisoriamente a Cipro, quindi a Rodi, dove per due secoli crebbe in prosperità e in potenza e ad esso si deve in gran parte il merito se fu ritardata la preponderanza navale turca nel Mediterraneo.
Nel 1480 Maometto II, che nel 1453 si era impadronito di Costantinopoli, organizzò una grande spedizione contro Rodi. L’assalto però venne respinto dal cavalieri comandati dal gran maestro Pietro d’Anbusson. Solimano II tornò alla carica nel 1522 e i cavalieri opposero una disperata resistenza sotto il gran maestro Filippo Villiers de l’Isle Adam; non soccorsi, i cavalieri dovettero infine capitolare. Il Villlers si ritirò provvisoriamente a Creta, finché nel 1530 ebbe in sede da Carlo V l’isola di Malta. I cavalieri parteciparono valorosamente nel 1571 alla battaglia di Lepanto, ma la loro decadenza era cominciata. Nel 1798 Napoleone Buonaparte ottenne la cessione dell’isola di Malta a titolo provvisorio, ma essa non ritornò più all’ordine, anzi nel 1800 se ne impadronirono gli inglesi. L’ordine, dopo le sedi transitorie di Catania e Ferrara, nel 1834 si stabilì a Roma, dove nei 1854 Pio IX ne approvò la nuova regola. L’attività dell’ordine, forse l’unico superstite, si esplica ora nel campo dell’assistenza ospitaliera e, in generale, della beneficenza.
Nella nostra città è attribuibile la presenza di tale ordine presso l’ospedale del borgo di San Lazzero e nella antica diocesi di Volterra in San Gimignano, Pomarance, Bibbona, Terricciola, Peccioli e Lajatico nel periodo che va dal 1200 fino al 1500 circa.
Quest’ordine religioso e militare, detto “Militiae Ternpli” cioè cavalieri del Tempio, fu fondato nel 1119 per proteggere i pellegrini a Gerusalemme. Ebbe come sede una parte del palazzo edificato sull’area del tempio di Salomone, dal quale derivò il nome di Ternplari.
La regola dell’ordine fu approvata da Papa Onorio nel 1127. Essi non potevano avere moglie, né figli e vivevano in grande austerità di vita. Valorosi in guerra, avevano per motto “Vincere o morire di morte santa ed onorata”. Caduto il dominio cristiano in Siria, la loro sede fu trasferita a Cipro. La loro sempre crescente potenza, destò pericolose invidie e la decadenza dei loro costumi, dopo l’affievolirsi dello stimolo ideale delle crociate, li mise al centro anche di una viva ostilità, per cui molte dicerie, forse calunniose, cominciarono a diffondersi sul loro conto. Si diceva perfino che nelle loro chiese si adorassero idoli sacrileghi, che essi fossero spesso autori di intrighi e anche di delitti oscuri e misteriosi. Tutte queste dicerie, giuste o false che fossero, furono riunite in ventisette capi di accusa in un processo voluto e presieduto da Filippo IV, re di Francia detto Il Bello. A seguito di questo processo, che si suppone indetto per mettere le mani sulle ricchezze dell’ordine, avvenne il loro scioglimento avallato con la condanna e l’abolizione dell’ordine da Papa Clemente V nel 1312; i loro beni passarono ai cavalieri di San Giovanni.
I Templari vestivano di bianco con una croce rossa a otto punte sul mantello e si sparsero per l’occidente, fondando migliaia di case, dette, mansioni, che divennero ricchissime. Pure in Toscana questo ricco ordine ebbe mansioni, case e possedimenti.
Nessun documento ci testimonia che i Templari avessero qualche mansione dentro le mura di Volterra, anche se si può supporlo, in conseguenza degli incompleti atti a noi tramandati che, pur nella loro non chiara esposizione, parlano di alcune proprietà dei Templari, che si trovavano nelle contrade di Sant’Agnolo e di Santa Maria, ci inducono a pensare che nella nostra città vi fosse un centro non trascurabile di irradiazione di detto ordine.
E’ certo però che essi abbiano operato nel territorio volterrano e, in quello dell’antica diocesi in modo particolare con tre mansioni: San Gimignano dal 1239, Montelopio di Fabbrica dal 1301 e Frosini in Val di Strove, nell’antica pievania di Monti dal 1356, nella quale rimane in buona parte il castello.
Ma la pergamena del 7 giugno 1228 ci testimonia la loro attività anche alla Magiona in Val d’Era, cioè a pochi chilometri di distanza da Volterra, ed altri documenti ci informano della loro presenza in tutta la Val d’Era, con particolare riferimento ad una parte del castello di Agnana, che sorgeva nei pressi della località denominata Spadaletto.
Quest’ordine, meglio conosciuto sotto la denominazione di “cavalieri di Sant’Antonio da Vienne”, fu fondato nel secolo XI nel Delfinato e approvato da Urbano II nel 1095. Si trattava di monaci ospitalieri dedicati alla cura dei malati di fuoco sacro o fuoco di Sant’Antonio, detto anche “ergotismo cancrenoso”, che colpiva in modo particolare gli arti inferiori. Ecco quindi il perché nel simbolo del Tau veniva ravvisata anche una cruccia, un bastone o una stampella, cioè un sostegno per gli affetti da questo male che li aiutasse a stare in piedi e a camminare.
Poiché questi monaci allevavano un gran numero di malati, col cui grasso facevano un rimedio per quel male, la Ieggenda e l’arte rappresentarono Sant’Antonio sempre con un suino ai piedi. L’ordine si spense verso la fine del secolo XVIII e in Volterra gli Antoniani risiedevano presso la chiesina di Sant’Antonio, in Piazza XX Settembre, dove è tuttora visibile la T sul muro esterno.
Quest’ordine è, forse, a noi più vicino non perché fondato in Altopascio, ma perché fu il più presente nella nostra zona. La più antica notizia relativa a quest’ordine è del 12 giugno 1079 e, come ho già detto in precedenza, la loro regola si identificava, sebbene autonomamente, in quella dei Gerosolomitani. Questi monaci erano già presenti nel volterrano nel 1167 con l’acquisto della chiesa dei Santi Ippolito e Cassiano e relativi casa dal nobili di Montignoso, che si trova a Sensano, e nel 1219 con l’acquisto della chiesa di San Giovanni in Sorbolatico, nonché con i pascoli che da Montaione andavano fino all’Era.
La loro presenza in Volterra è certa in Piazza dei Fornelli e precisamente nella vasta costruzione in pietra che si dice sia stata, al tempo degli Etruschi, la sede del Collegio degli Auguri e successivamente la casa di Cicerone. Sebbene queste due ultime notizie non possono essere date per certe, quella che questa costruzione sia stata invece di proprietà della regola dell’Altopascio è testimoniato dalla iscrizione in caratteri gotici, tuttora visibile ma poco decifrabile. Comunque detta iscrizione fortunatamente, è riportata su un quaderno passatomi da Monsignor dell’Omo, parroco di Sant’Agostino, documento questo copiato da un detenuto, a cura del Dott. Verdiani, nel giugno del 1903, da un manoscritto originale attribuibile approssimativamente dal 1820 al 1835.
Questo quaderno riporta tutte le iscrizioni esistenti in Volterra. Detta lapide è così decifrabile: “Hoc Opus factum fuit tempore Fratis Amandi de Hospitalis Sancti Jacopi de Altipascio sub anno Domini MCCLXXXXIX cuius operis fuit frater Nainuccius de Casanova”.
La presenza della regola dell’Altopascio sembra sia stata accertata anche lungo il fiume Cecina e precisamente da Cerreto fino a Pomarance.
Nel 1291, per causa di giurisdizione, ebbe una lite con quest’ordine anche li Comune di Volterra, poiché il rettore pretendeva di non essere sottoposto al foro del potestà e, sebbene la sentenza fosse stata favorevole a quest’ultimo, la controversia si prolungò fino al 1293 e fu di dispendio e fastidio non piccolo al Comune.