Tutto è grazia «per coloro che amano Dio» e, in ossequio a questa frase attribuita a Sant’Agostino, la devozione popolare all’epoca di Cosimo II fu eclettica e ricca di espressioni. Grande considerazione ebbero pertanto il culto di santi e beati, la venerazione delle reliquie, le visite ai sepolcri, i pellegrinaggi e le processioni, la richiesta di grazie, le immagini di Madonne belle e taumaturghe, le elemosine e il dono di pregiati arredi, la musica e l’arte sacra, le opere o le liturgie delle confraternite. A ciò si aggiunse il lavoro e l’organizzazione del personale e delle parrocchie, dei monasteri, degli eremi o della gerarchia ecclesiale. D’altronde della religione cattolica si andava orgogliosi, mentre si compativa chi ad essa aveva rinunciato, come ricordava la beata Maria dell’Incarnazione, Madame Acarie, a Parigi giudicando il misero sermone cui i protestanti della città andavano in carrozza la domenica1.
Uno degli interpreti e narratori di tale ricchezza di devozione a Volterra fu un frate del convento di Sant’Agostino, il padre baccelliere Mario Giovannelli che lasciò alla città due opere di valore. Una, nella chiesa di Sant’Agostino, è la tavola di Ulisse Ciocchi detta la Madonna del Soccorso la cui iscrizione riporta il nome del finanziatore e la data 16142. L’altra è un libro intitolato Cronistoria dell’Antichità e nobiltà di Volterra, cominciando dalla sua edificazione infin ‘al giorno d’oggi…, terminato di scrivere nel 1610 e stampato a Pisa nel 16133.
L’idea e la realizzazione di un’opera d’arte hanno in sé un fine e un messaggio, riferiti in genere a un ambiente e a una mancanza alla quale rimediare. E a Volterra, nel primo decennio del Seicento, ciò che era carente, più che una consapevolezza, era una chiara manifestazione accessibile a tutti del rinnovamento compiuto dalla Chiesa in parte in funzione antiprotestante e in parte per interna necessità con una sua originalità e autonomia. Ancora nel 1612, sebbene ne fosse passata di acqua sotto i ponti dalla Riforma di Lutero e dal Concilio di Trento, il mondo cattolico soffriva lo scisma e temeva l’odio tra i principi e i loro partigiani, rinsaldato con la pace di Augusta (1555) da Carlo V e dalla sua cuius regio, eius religio (la religione dei sudditi sia la stessa del re). La preoccupazione non era infondata perché nel 1618 inizierà la devastante guerra dei Trent’anni4 che porterà la Germania alla frammentazione e allo spopolamento e in Europa ad un nuovo disegno dei territori e dei confini delle nazioni5.
I cattolici temevano anche la negligenza e l’ignoranza dei loro pastori.
Così la Madonna del Soccorso in Sant’Agostino dimostra quale speranza si nutrisse nei sant’uomini di Chiesa, raffigurando (ed elogiando) Carlo Borromeo (1538-1584). Il santo arcivescovo, canonizzato nel 1610, al suo arrivo nell’arcidiocesi di Milano (1566), pieno di sante intenzioni, aveva amaramente constatato che era «del tutto persa» dato che i suoi predecessori non vi risiedevano oramai da decenni. Paziente e pericolosa per la vita di lui era stata l’attività di ripristino.
Non fu coinvolta solo la diocesi di Milano. Nelle Memorie fiorentine di Francesco Settimanni (1681-1763) si ricorda che nell’aprile 1543 furono cresimate a Firenze più di diecimila persone, «come di donne e uomini eziandio vecchissimi», e ciò «perché per la negligenza degli arcivescovi fiorentini e d’altri prelati erano molti anni che non era stato amministrato il sagramento della Cresima»6.
Nel quadro della Madonna del Soccorso di Sant’Agostino si pone di fronte all’arcivescovo di Milano un altro personaggio: San Donnino, vestito da soldato, con accanto il mite cagnolino che secondo la tradizione era idrofobo e che fu da lui guarito. Il santo gli aveva dato da bere acqua e vino da lui benedetti: trasparente metafora, questa, della penitenza e dell’amore e quindi della grave e irreversibile malattia spirituale che avrebbe colto chi non poteva più attingere a tali fonti di grazia. San Donnino, patrono dei viandanti e dei pellegrini, di fronte a San Carlo indica anche la Chiesa itinerante della predicazione e del pellegrinaggio, contrapposta e complementare a quella residenziale dell’arcivescovo7.
Un secondo piano nella tela è raffigurata S. Lucia, prima titolare del romitorio agostiniano di Larniano di Montecatini Val di Cecina, protettrice della vista e invocata contro le carestie. Ha la dalmatica di matrona che riprende dall’arte bizantina. Il suo nome deriva dalla parola «luce» e ricorda la lampada splendente delle vergini sagge, che è una lampada spirituale.
Dalla parte opposta è dipinta Sant’ Agata (1251) con i seni tagliati e per questo protettrice dell’allattamento e nello stesso tempo figura del cibo spirituale8. Un diavolo scuro tenta di strappare un bambino dalla braccia di una giovane madre, ma la Madonna del Soccorso ha una randello in mano e prende provvedimenti. L’orazione del Breviario romano a lei dedicata dice: Sancta Maria, succurre miseris, iuva pusillanimes, refove flebiles, ora pro populo, interveni pro clero, intercede pro devoto femineo sexu; sentiant omnes tuum iuvamen quicumque celebrant tua m sanctam commemorationem (santa Maria, soccorri i miseri, aiuta i deboli, conforta gli afflitti, prega per il popolo, intervieni per il clero, intercedi per le donne devote; sentano la tua protezione tutti coloro che celebrano la tua santa commemorazione).
Poggiati per terra il libro e il crocifisso indicano la via della salvezza: la preghiera e la contemplazione della Passione del Signore, porte della Risurrezione.
La Cronistoria del p. Giovannelli è dedicata alla sua città con l’intenzione di metterne in evidenza i pregi. Infatti alle pagine 49, 50 scrive:
È adorna questa città di tanti Palagi, di torri, di campanili, di nobiltà, di ricchezze, di dottori, di cavalieri, di persone perite sì nell’arme sì anco nelle lettere, copiosa ed abbondante di formento, di vino, d’olio, di biade, di legumi, di carni, di bestiami, d’uccelli, di selvaggiumi, di pollami, di cacio, di castagne, di pomi, e frutti d’ogni sorte.
E prosegue con un’occhiata al contado e alle saline, alle cave di rame, di vetriolo, di alabastro.
La Cronistoria ricorda anche episodi e tradizioni della religiosità volterrana. Così a pagina 70:
«Et l’anno 1605, fabricando il signor Attilio Incontri nobile volterrano un palazzo in Volterra per sua habitatione un certo maestro Iacopo muratore lombardo, lavorando la festa di San Lino, fu ripreso da huomini saggi, e prudenti, e timorati ch’in tal giorno non lavorasse, ma egli quasi dispregiando i lor consigli per divina permissione cascò da un ponte, e fu portato a braccia in casa del detto signor Attilio con pericolo di morte. Al qual cadimento fu presente m. Francesco di Niccolò Incontri e Taviano e Giusto figliuoli di Domenico Boccega tutti di Volterra, della qual caduta in tal maniera si dolse, che doppo per spazio di duoi anni, o poco più che campò non fece niente»9.
Il muratore era lombardo o ticinese, e anche se il Giovannelli non lo dice, forse era un protestante che disprezzava le devozioni popolari cattoliche. Da notare che il muratore cade dal ponteggio per divina permissione: il che significa che Dio non è considerato senza potere di fronte al male, ma lo permette per fini suoi speciali che sul momento non si possono comprendere.
Un altissimo esempio di come era intesa la religiosità all’epoca è ricordato sempre dal Giovannelli quando da pagina 130 in poi scrive sugli uomini saggi, prudenti e timorati e in particolare sul beato Iacopo Guidi nativo di Certaldo ma di famiglia volterrana, portato all’eremo e vita solitaria… si dilettava oltre modo di leggere, e di meditare, per rendersi tuttavia migliore, e più accett’a Dio.
I genitori, che erano della contrada di S. Maria, tornavano annualmente a Volterra a pigliare la perdonanza10 e a visitare la chiesa dei SS. Giusto e Clemente e la Badia. Per questo Iacopo si decise a prendere l’abito camaldolese nel 1230. In seguito, oltre a condurre vita di penitenza e di preghiera, si occupò della cura della Badia – mostrando ai parrocchiani la via di Dio – e della sagrestia della chiesa dei SS. Giusto e Clemente. Eletto due volte abate, due volte rifiutò, costretto una terza volta ad accettare, lasciò l’incarico prima del tempo. Morì il 13 aprile 1292 e fu «seppellito con grand’honore nella chiesa di S. Giusto, là dove non molto dopo gli fu rizzato un altare, che è stato celeberrimo per gran devotione a tutte le genti, cioè all’anno 1579 del mese di dicembre. Nel qual tempo d’ordine d’un Visitatore appostolico (fatto levar quell’altare per migliore acconcio della chiesa) fu traslatato il santo corpo e posto sotto l’altare della Campane, non lungi all’altare di S. Giusto».
Di quasi tutti i miracoli del beato Iacopo si è perduta la memoria, ma quelli rimasti ricordano la sua misericordia verso i poveri e gli ammalati. Pietro in un viaggio incontrò gli assassini che gli uccisero il fratello lasciandolo ferito gravemente; così andò al suo sepolcro come meglio poté e pregò per la sua salvezza. Durante il sonno il beato gli apparve: «tutto vestito di bianco e gli dice: ‘Horsù Piero partiti, che sei salvo’, le quali parole udite, quasi destandosi da grave sonno, si vide essere del tutto sano, e rendé grazie a Dio».
Poi il beato guarì un uomo di S. Gimignano sordo da 40 anni che si era portato al suo sepolcro e che in seguito ogni anno per ringraziamento tornava a render visita e a lasciare un dono. Sanò anche una donna volterrana senza forza nel braccio destro da lei posto sempre sul sepolcro e una fanciulla «spiritata» condotta alla sua tomba, presente tutto il popolo.
Sono esempi, questi del p. Giovannelli, che ricordano al lettore l’importanza della venerazione dei santi e delle loro reliquie per affetto e per bisogno poiché, grazie alla loro protezione o intercessione, si poteva essere salvaguardati o sollevati da particolari difficoltà. Le quali erano frequenti se non inevitabili per una popolazione toscana poverissima, afflitta dalle malattie, dipendente dall’agricoltura e dalle buone o brutte stagioni, vittima dei cattivi commerci, delle guerre, delle tasse e della criminalità. Conforto e speranza ne erano i risultati e, confidando e praticando le pie tradizioni, essa si sentiva lealmente compattamente cattolica.
Alle devozioni non si sottraeva la parte più alta della società che, escludendo le malattie e i decessi che erano (e sono) democratici, conduceva tutt’altra vita, separata da quella del popolo come da una linea invisibile. I ricchi nobili, i gentiluomini e le gentildonne allora spendevano molto, indossavano abiti ricamati e gioielli, si divertivano, organizzavano balli e cacce memorabili, seguivano un proprio cerimoniale e frequentavano i loro pari stando attenti a non accostarsi agli inferiori. Dal ceto povero accettavano per lo più solo una particolare categoria di persone: gli artisti, i pittori, gli autori di teatro, che umilmente ringraziavano 11.
Al culmine della nobiltà di Toscana si trovava la regnante casa dei Medici una delle più importanti d’Europa, imparentata con le corti di Austria, Spagna e Francia. La sua grandezza e l’omaggio dovutole l’obbligava a essere generosa, se lo desiderava. E nel 1612 va dato atto al giovane e sensibile granduca Cosimo dell’intenzione di visitare il suo stato per rendersi conto di come le popolazioni vivessero e per omaggiare le loro tradizioni civili e religiose. In ogni città attraversata durante il viaggio ebbe cura di tenere l’udienza pubblica, di negotiare memoriali, come si scrive, e anche di inchinarsi alle sacre usanze popolari.
La visita di Cosimo a Volterra è ricordata dal Diario fiorentino di Cesare Tinghi suo aiutante di Camera 12.
«… A dì detto 12 volendo S.A. finire l’incominciato viaggio per la volta di Colle et di Volterra così udito la messa et desinato, partiro da Siena tutte l’ateze loro a compagniati perfino fuori della porta [ … ] poi doppo desinare loro A.S. partiro da Colle e andorno alogiare a Volterra dove vicino fumo rincontrati dalla soldatescha armata ghuidata dal colonello de’ Medici capitano et castellano della forteza poi alla porta fumo rincontrati dal cavaliere Micelagiolo Lotini gonfaloniere della cità con tutti e priori et magistrati della cità sendo loro ateze dua millia avanti stati rincontrati dalla nobiltà di Volterra et da monsignore Alamanni vescovo della cità e arivate l’ateze loro furno furno [sic] alogiate in casa il signore Atilio Incontri13.
Et a dì 13 di novembre seghue et la forteza fece salva l’artilieri et molti et la sera si fecero e fuochi et giran(do)li.
Et a dì 14 detto S.A. con e soliti signori andororno alla messa alla Ciesa del Duomo. Poi andorno a desinare a casa il signore Filippo Mafeii et poi si fece la rapresentatione del beato San Carissimo et Dolcissimo santi fransei poi l’atro giorno si fece la come dia detta la Turcha et v’endoro loro A.S. poi l’atro giorno loro A.S. andorno.
Et a detto S.A. andò con soliti signori alla messa al Duomo, ebbe la pace da l’arcidiacono vedebbe le reliquie dell’Innocenti di santo Ottaviano avocato della cità di san Cremente di san Vitorio S. Mario tutti avocati della cità con atre reliquie infinite poi andò la serenissima madama e l’arciduchessa poi lassiando alla sala della Signoria detta delle feste pubrice a vedere recitare la rapresentatione di san Carissimo e di san Dolcissimo fratelli fransesi mandati da san Piero a predicare a Volterra e uscì a ore una di notte vi era madama in luogho incognito.
Et a dì 15 detto loro alteze tornorono al Duomo alla messa poi andorono a desinare al palazzo del signore Pavolo et Ascanio Mafei a s(p)ese de’ detti Mafei poi si fece il festino del pallone in casa detti Maffei et fecero una bellissima colatione di confiture et d’altro poi S.A. tornò a casa a negotiare memoriali et fece molte gratie.
Et a dì 16 in venerdì andò alla messa.
Et a dì 16 di novembre S.A. andò alla messa alla Badia dei frati delli Agnioli detta di san Giusto lontano un millio dalla cità et madama et l’arciduchessa per vedere le reliquie de’ detti santi francesi de’ quali si fece la rapresentatione a devotione di Madama et S.A. andò a vedere le mura antiche della cità sendo la matina inanzi andato a vedere le saline dove si fa il sale la sera loro A.S. andorno con l’arciducessa alla comedia detta la Turcha composta dal reverendo signore Giovanni Villifranchi14 come anche la rapresentatione le quali fumo recitate da giovani nobili et la come dia fu fatta a devotione della serenissima arciduchessa la quale durò ore quatro et ogni sera si fecero e fuochi e giradole con somma alegria del popolo et tutta la cità fece luminarie alle finestre. S.A. andò a vedere la forteza et il generale Dal Monte fece mettere la guarnigione al palazo dove S.A. alogiava della soldatescha delluogho15.
Et a dì 17 detto sabato S.A. udì messa a san Michele poi con il medesimo ordine marciando andorno a desinare al convento di San Vivado de’ frati zocolanti dove videro le belle capelle e quel bel convento poi la sera venero alo giare a Castelfiorentino a casa di Giovanni Salvadori dove fu rincontrato dalla soldatescha con l’intervento de due generali».
Il 12 novembre 1612 dunque giunse a Volterra un nutrito corteo di carrozze, lettighe, gentiluomini e gentildonne, con scorta di soldati, cavalli e muli. Gli vennero incontro sulla strada da Colle la nobiltà e il vescovo della città, il fiorentino dottore in legge Luca Alamanni che era figlio di un noto personaggio, il senatore Vincenzo, commissario a Pisa e un tempo ambasciatore in Francia e in Spagna per conto di Cosimo I. Già vescovo di Macon in Borgogna e governatore di Assisi e di Ancona, era stato nominato alla cattedra di Volterra il 20 agosto 1598 come successore del volterrano mons. Guido Serguidi.
E, stando ai documenti che ne parlano, la sua figura appare quella di un buon vescovo: si adoperò per far applicare le norme del concilio di Trento, ordinando la residenza ai parroci, e ebbe premura per la salvezza dell’anima del suo popolo. Per questo invitò il venerabile Ippolito Galantini16 a venire a Volterra a istituire la Congregazione della Dottrina Cristiana per insegnare il catechismo ai fanciulli e alle persone delle classi sociali più modeste. Il 10 agosto 1599 ricostituì anche la compagnia del Santissimo Crocifisso fondata da Domenico Verani e poi consacrò le chiese di San Francesco dei conventuali (1601) e della prioria di S. Marco (1603). Nel 1617 rinunciò al vescovado e si ritirò a Firenze dove morì nel 162517 .
Suo vicario generale fu per un certo periodo Carlo Macinghi nobil cherico e dottor fiorentino, protonotario apostolico, accademico della Crusca ed esperto in legge e in liturgia18 .
Altre notizie sulla diocesi volterrana del tempo si trovano nel sinodo del 1600 e nell’aggiunta del 1607, ricordati dal Giovannelli nella Cronistoria. Si nota come gli esaminatori qui citati appartenessero alle principali famiglie cittadine: ai Bardini, agli Inghirami, ai Minucci, ai Lisci, ai Bava, agli Incontri con mons. Girolamo già priore di San Pietro in Selci e vescovo di Sansepolcro. E non era infrequente allora che le famiglie si «tramandassero» le cariche, come si trova scritto: m. Benedetto Bardini l’anno 1610 rinunciò l’archidiaconato a m. Baldassari suo nipote19.
Ricevuti dunque gli omaggi del vescovo, Cosimo II entrò in città dove si trattenne fino al 17 novembre, adempiendo ai suoi doveri e partecipando alle feste organizzate in suo onore20.
Da buon cristiano tutti i giorni ascoltò la messa. Il 15 novembre dopo la funzione in Duomo ricevette la pace dall’arcidiacono e visitò le reliquie dei SS. Innocenti e dei patroni cittadini, cioè di coloro che intercedevano presso l’Altissimo per il bene comune. La pace ricevuta forse era l’indulgenza di Callisto II o più probabilmente, visto che la visita del granduca era solenne, il dovuto perdono delle offese contro la chiesa volterrana perpetrate dalle truppe fiorentine e da Francesco Ferrucci nel 1530.
Il Ferrucci aveva rubato gli ornamenti delle chiese, fatto distruggere i frontali degli altari d’argento, asportato calici e candelabri, depredato il Monte di Pietà con i suoi poveri pegni e messo all’asta in piazza i tabernacoli d’argento dei santi patroni Vittore e Ottaviano. I volterrani erano riusciti a salvare quello di San Vittore tramite offerte subito raccolte, mentre l’altro che – scrive il Giovannelli – aveva la barba d’oro, fu distrutto completamente. Solo qualche anno dopo, il 13 marzo 1534, verrà fatto rifondere dal Comune e donato alla Sagrestia21.
Ma proprio in quel luttuoso 1530 si era manifestata anche la protezione dei patroni, dapprima tramite quattro suore pro fesse di San Lino le quali: «vedevano giorno e notte nelle loro celle gli apparati della guerra imminente, udivano il suono delle trombe e di tamburi; si scuotevano allo strepito delle bombarde, e vedevano altresì i nostri santi tutelari Giusto, Clemente e Vittore con fiaccole accese alla mano far la ronda su le mura della città, e tenerne lontani i nenuci».
I volterrani, saputa la cosa, si erano cautelati spedendo un’ambasciata a papa Clemente VII, senza per questo riuscire ad impedire l’assedio del Maramaldo e di del Vasto sei mesi dopo la visione. Ma, aprendo la breccia nel muro presso la porta di Sant’Andrea e in quello del giardino delle suore, gli assalitori avevano visto i patroni far resistenza e risospingerli dall’assalto, e gli viddero ancora molti de’ suburbani. Si erano così ritirati22.
Nel 1612 il ricordo di questi fatti d’arme e del santo intervento doveva essere ancora vivo e di monito per i cittadini e per chiunque avesse «cattive intenzioni». In devoto ossequio, le reliquie dei patroni e le loro custodie si conservavano gelosamente nella Sagrestia del Duomo, da dove erano fatte uscire solo per le grandi solennità – si ponevano sull’altare maggiore – o per la loro festa – si portavano a processione lungo le vie.
Il busto di Ottaviano, si è detto, era stato risarcito dal Comune nel 1534, la testa reliquiario di Vittore23 era ancora quella antica, dono di papa Callisto II che, nel 1120 tornando dalla Francia, si era fermato a Vada e poi si era recato a Volterra invitato dal vescovo Ruggeri. Il papa, oltre a ciò, aveva consacrato la cattedrale (20 maggio) e la chiesa vecchia di San Piero a Selci. La testa e il reliquiario di Mario invece erano stati donati da Mario Maffei vescovo d’Aquino e Cavaillon (Vaucluse in Provenza) il 15 agosto 153524 e il reliquiario di Sant’U go era stato un regalo recente (31 dicembre 1607) del Monte di Pietà e di mons. Alamanni che vi aveva fatto collocare i resti del vescovo25.
Le agiografie di Sant’Ottaviano e Sant’Ugo inoltre avevano una loro singolarità e i cittadini degli inizi del Seicento dovevano sentirsene orgogliosi. Del primo, p. Giovannelli scrive con ammirazione che era originario dell’Africa e che, insieme a Giusto e Clemente, si era stabilito a Volterra. Volendo però praticare vita eremitica, si era ritirato in una selva di là dal fiume Era dove, in un luogo incognito, né saputo da alcuno, aveva scelto per casa un olmo vuoto e qui praticato la santa orazione. Un giorno però un giovane con lo sparviero, seguendo una colomba, la vide posarsi sull’olmo e scoprì l’eremita in preghiera. Il cacciatore meravigliato ascoltò da Ottaviano l’invito a volare come il suo sparviero, cioè ad alzarsi non con arroganza ma con l’ali del timore di Dio [ … ] fino in luogo assai più sublime al palazzo del cielo26.
Il Giovannelli con questa metafora dimostra come fosse bene a conoscenza della spiritualità dei suoi tempi in quanto cita una grande santa, morta una quarantina d’anni prima: Teresa di Avila (1515-1582) e il suo Castello dell’Anima (1577)27: «Mentre stava io pregando Nostro Signore affinchè egli parlasse con me … mi venne in mente quello che ora dirò… ed è il considerare l’anima nostra come un castello di diamante, o tersissimo cristallo formato, in cui sieno molte stanze, siccome in cielo sono molte le mansioni… quale dunque vi par ora che esser debba la stanza dove un Re tanto potente, tanto savio, tanto puro, e tanto ricco d’ogni bene si diletta? Non ritrovo io cosa a cui paragonare la gran bellezza d’un anima, né la sua gran capacità»28.
L’anima dunque, e grazie all’avventura di una piccola colomba, la fama dell’ eremita si diffuse in città. Dopo la sua morte (2 settembre) fu edificata presso la sepoltura una chiesetta che fu venerata per molti secoli a venire. Nell’822 il vescovo Andrea fece trasportare i resti del sant’uomo nel Duomo e gli intitolò la canonica.
Ugo invece fu vescovo di Volterra nel 1171 e anche predicatore, benefattore dei poveri e uomo di pace. Morì l’8 settembre 1184 e fu sepolto in cattedrale nella tomba del vescovo Goffredo presso quella che si chiamò poi proprio la porta di Sant’Ugo. Nel primo anniversario della morte fu veduto scaturire dal sepolcro un balsamo oleoso che era capace di curare tutte le infermità e che nel 1613 – ricorda il Giovannelli – era ancora presente, custodito nel suo reliquiario d’argento. Pochi decenni prima, e i volterrani dovevano ricordarlo bene, mons. Serguidi, restaurando il Duomo, aveva fatto traslare il corpo del santo nella cappella di Barbialla vecchia29.
Il 14 novembre 1612 la corte granducale ebbe modo di conoscere ancora di più l’anima religiosa di Volterra tramite la rappresentazione nel salone delle Feste Pubbliche de La Tragedia dei SS. Dolcissimo e Carissimo santi francesi scritta dal volterrano Giovanni Villifranchi e dedicata a madama Cristina di Lorena, madre di Cosimo30.
L’opera presenta come personaggi, oltre ai martiri, papa San Lino che recita il prologo, san Romolo, il lucumone tiranno, i sacerdoti di Marte e d’Ercole pagani, i nobili della città Aulo e Trebonio e i giovani fratelli cristiani Mauro e Plautilla. La scena si svolge a Volterra e non a Fiesole, dove avvenne il martirio secondo la comune tradizione.
Il testo è in versi endecasillabi e presenta un buon numero di metafore, forse per arricchire la trama che di per sé è piuttosto generica. Come consuetudine, i pagani irridono il nuovo culto di un dio nato, un dio morto, un dio sepolto, Cristo adorato dalle insane genti e progettano l’uccisione dei santi. Romolo incontra i compagni e, intenerito da loro candore, li incoraggia; poi lascia Volterra. I due fratelli e Crescenzio sono catturati come Gesù nell’horto… Apunto lupi / parevan contro a tre smarriti agnelli. Radunato il popolo sulla piazza, si tenta di far loro rinnegare la religione cristiana. Carissimo consola alcune donne in lacrime: Figlie di Dio deh non piangete / la nostra morte, ma piangete pure / la vita di chi vive ingrato al Cielo … insieme poi ci rivedrem nel regno de le stelle.
Si compie il martirio e poco dopo la giovane Plautilla giunge sulla scena con in braccio una paniera piena delle membra dei santi che sono stati tagliati in pezzi con l’intenzione di seppellirli perché non siano mangiati da cani. Il lucumone si bagna le mani col loro sangue e si sente confuso. Nell’ultima scena avviene la generale conversione: i nobili e i sacerdoti pagani proclamano di voler lasciare gl’idoli nostri, humili e scalzi / con devota pietà servire a Christo, / tanto adorarlo, quanto habbianlo offeso. Bandiranno l’uso profano del tempio e vi metteranno la croce di Cristo. Trebonio, nella «licentia» della rappresentazione, invita a imitare i santi nostri / che pietosi nel cielo pregan per noi31.
Il dramma fu seguito dalla canzone di Emilio Fei che celebrava la storia di Volterra cristiana, la medicea prole e il sostegno da lei dato alla città. Ora che vede il grande Cosimo con due regine figlie da Austria e di Lorena, Volterra torna serena nell’età d’oro più che mai lieta e gloriosa.32
Il Villifranchi può essere giustificato se la Tragedia non ha una trama originale e ricca di colpi di scena. La stessa agiografia dei santi Dolcissimo e Carissimo è scarna di notizie e la loro iconografia poco diffusa33.
Tuttavia il fiorire del culto all’epoca di Cosimo II ha delle spiegazioni, una delle quali forse è da cercarsi nel successo dell’opera del padre camaldolese Agostino Fortunio Vita et miraculi sanctorum Christi confessorum fusti et Clementis (1568), grazie alla quale l’autore fu insignito della cittadinanza volterrana 34.
All’epoca inoltre si indagavano i resti nelle catacombe romane e per questo si desiderava avere maggiori informazioni sulle eroiche vicende dei primi martiri della città, oltre che vederne e toccarne le reliquie. In più, ad un devoto attento, la dimora dei santi in una «caverna» sul monte poteva far pensare a quella dei religiosi benedettini e camaldolesi che si erano stabiliti nel monastero di San Giusto tra XI e XII secolo e che avevano condiviso pacificamente la storia di Volterra per più di mezzo millennio. C’era stata solo un’interruzione – che gli abitanti del tempo di Cosimo II dovevano ancora ricordare -, quando l’abbazia era pervenuta nelle mani di abati commendatari. Nel 1561 i monaci vi erano ritornati35; dal 1579 poi era diventata una prestigiosa accademia, cioè uno studio, con lettori di logica, filosofia, teologia e sacra scrittura, come quelle di Carceri a Padova, di Classe a Ravenna e di Fonte Avellana nelle Marche36.
Nel 1619 – anno vicino a quello della visita granducale – ospitava circa una decina di monaci, dei quali cinque ordinariamente commoranti in detta abbatia a servire al culto a due chiese, cioè San Giusto e la Badia. Nella prima celebravano per obbligo una messa al giorno – ma se ne dice sempre di più per la devotione, e concorso del popolo volterrano. Il dì delle feste ce se ne dice sempre quatto o cinque. Vi si cantava anche il vespro la prima domenica del mese e la messa e il vespro in tutte le feste principali dell’anno. Un monaco infine era incaricato della cura delle anime (parrocchia).
Nella seconda, San Salvadore, chiesa di Badia, invece gli uffici liturgici erano a cura dei religiosi giorno e notte si come è il costume della religione camaldolense. L’abate aveva il privilegio di essere mitrato e di vestire gli abiti pontificali e di cantare la messa pontificale il giorno della festa37.
In primavera una cerimonia caratteristica e solenne avveniva nella chiesa di San Giusto, stabilita per contratto del 26 maggio 1577: il primo e il secondo giorno di Pentecoste e il 5 giugno festa del santo, i canonici, i magistrati, il clero e il popolo volterrano vi si recavano in processione e, qui giunti, legavano gli altari e le muraglie con spago incerato (l’Avvinta). Dalle cinque contrade di Monte Bradoni, San Giusto, San Marco, S. Stefano e le Ville si portavano dei ceri montati su castelli di legno e decorati con gli animali di cera lavorati a fiori. Al suono delle trombe i doni venivano appesi al palco della chiesa. Si poneva inoltre sull’altare la mitra, il pastorale, i guanti, i sandali e altre cose che – si diceva – si tramandavano dal tempo di San Giusto anco intatte. La fiera, il grande mercato adiacente, durava 15 giorni38.
In tempi più ordinari, scrive il p. Giovannelli, la devozione popolare trovava quotidiano conforto nella presenza a San Giusto di una: «colonna fatta in quadro a mattoni, ove è una Nunziata miracolosa, quale verso de’ fedeli opera grandissimi miracoli, come testimonio ne fanno i voti d’argento, e le tavolette che del continuo stanno appese si tiene per tradizione antica esservi anco di molti corpi e reliquie di santi e sante, quali per brevità tralascio»39.
In chiesa era venerata inoltre una tavola antica del santo dipinta in legno e un’immagine del SS. Crocifisso con accanto un monaco in habito. Entrambi, dopo la rovina della chiesa nel 1627 e un successivo ventenni o di esposizione alla pioggia e alle intemperie, tra 1649 e 1650, trovarono posto nella chiesa di Badia40.
In quest’ultima si trovavano da tempo immemorabile anche le reliquie delle sante Attinia e Greciniana, le cui teste, nel 1608 erano state sistemate in reliquiari d’argento fatti fare da Camilla Cecchi vedova Verani41.
Fu dunque in omaggio all’antichità e al prestigio del convento, che il 16 novembre 1612 Cosimo II andò a sentire la messa in San Salvadore e Cristina e Maria Maddalena andarono a visitare le reliquie dei SS. Dolcissimo e Carissimo in San Giusto. Era allora abate don Eutizio di Scipione Galgani nobile senese, l’anno prima al governo di S. Maria degli Angeli di Firenze42.
Il desiderio delle granduchesse era stato preceduto da dei contatti, a seguito dei quali, nel settembre 1612, aveva avuto luogo la ricognizione delle pie reliquie. Giunto poi il giorno della visita era stata aperta la cassa di noce e con sorpresa erano stati visti i resti confusi di quasi tre corpi43. Questa la relazione:
«Dico che ultimamente, cioè l’anno 1612 a dì 12 di settembre essendo abate don Eutizio Galgani da Siena si ricercarono sotto l’altare detto delle campane in San Giusto li corpi di San Dolcissimo et Carissimo per occasione delle serenissime altezze et patrone Christina dell’Orena et arciduchessa Maria Maddalena d’Austria. Quali signore con molto esempio di religione et devotione vennero a visitare la chiesa di san Giusto per vedere detti Corpi Santi e ritrovati nella detta cassa di noce, nella quale erano intagliati in lavero nomi in fronte: la quale aperta si ritrovomo le sante reliquie inconfuse, ma in tanta quantità quasi di tre corpi, sì come ancora si vedeva, se bene in più parti ossa di tre teste, fra le quali a una quasi intera se gli vedevano visibilmente i colpi delle percosse tocche in sul capo con l’ammaccature, sopra le quali quasi rosseggiante sangue. Nella quale occasione io don Tommaso Mini fiorentino, non solo mi trovai presente, ma per grati a del padre abate fui deputato di fare aprire e di mostrare dette sante reliquie alle suddette serenissime altezze et patrone.
Si trovò in detta cassa la lamina di piombo che conteneva l’ultima traslazione fatta, come poco fa si è detto, dal vescovo Guido Ser Guidi l’anno 1580. Si trovò ancora il bossoletto di terra, del quale di sopra si è fatto menzione, che vi ripose l’abbate don Giusto Buonvicini, con la memoria di essi santi. Il qual bossoletto ancor che fosse stato con grandissima diligenza et prudenza accomodato, perché era di sopra sigillato benissimo, sopra un piastra di piombo con cera forte, dentro la quale si trovò un rinvolto di drappo di più colori, sotto il quale una facciatura piana di piombo, sotto la qual piastra di piombo, una facciatura del medesimo drappo, di sopra entro la quale si trovò la detta memoria, scritta in carta pecora, la quale era talmente disfatta, che come si toccò si ridusse tutta in polvere dalla quale non si potette trarre niente, ma si rimesse nel medesimo bossoletto nella medesima cassa»44.
Don Tommaso Mini, citato nella relazione, era un personaggio di prestigio nel suo Ordine, competente storiografo, distintosi come autore de Le vite de’ santi, Giovanni, e Benedetto, discepoli del padre san Romualdo, e de’ loro compagni martiri, e non martiri (1605)45.
Viveva a San Giusto anche don Migliore (Niccolò) Biliotti, un monaco pittore non ancora trentenne che nel 1612, ma forse anche prima (i documenti non sono chiari), aveva donato a Cristina di Lorena una miniatura dei santi Dolcissimo e Carissimo da lui dipinta46. Questo padre aveva indossato l’abito dell’Ordine il 21 maggio 1606 ed emesso la professione il 10 giugno 1607 a S. Maria degli Angeli di Firenze47, convento in cui avrebbe vissuto almeno fino al 161048. Si sarebbe poi trasferito a Volterra e successivamente nel monastero di San Michele in Borgo di Pisa (documentato nel 1630 e 1639), sotto il governo di don Mauro Corsi, camaldolese molto noto che per due volte fu anche abate di San Giusto49. Era compreso nella famiglia religiosa del monastero pisano anche nel 1646 e nel 1647 quando celebrò delle messe in suffragio dei confratelli don Basilio e don Vincentio. Poco tempo dopo però sarebbe ritornato nell’abbazia volterrana, dove sarebbe deceduto il 28 settembre 165250.
Biliotti fu apprezzato come artista da Scipione Borghese e a Pisa ebbe uno scolaro, l’alfiere Giovanni Navaretti. Un suo dipinto si trovava nel 1669 anche nella villa granducale di Lappeggi ed è così descritto: Uno quadro in cartapecora miniato, entrovi l’adorazione di Magi con ornamento nero filettato e rabescato d’oro, lungo braccia 1 1/8 e alto 9/10, di mano di don Migliore Biliotti, monaco di Camaldoli, numero 151.
Ma di questa e delle altre sue pitture rimane oggi solo il ricordo documentario. Così il Teatro Storico del sacro eremo di Camaldoli52:
«Don Sebastiano di Francesco Boccardini cittadino fiorentino […] diede l’abito a don Migliore di Carlo Biliotti nobil fiorentino in età di anni 20 il dì 21 maggio 1606, e questo poi fu eccellente pittore, e miniatore. Ritrasse al vivo un San Romualdo che risguarda fisso una morte, che è di somma meraviglia de’ medesimi professori, e lo donò al cardinale Scipione Borghesi parente di Paolo V da Siena; poi fece i santi Dolcissimo e Carissimo martiri così al naturale, che furono molto stimati. Gli donò a Madama Cristina di Lorena, allora granduchessa di Toscana, consorte del Gran Duca Ferdinando I uno de’ primi principi del mondo, per virtù, prudenza e pietà. Dipinse nel monastero di San Michele in Borgo di Pisa il Cenacolo nel refettorio, ove è la sacra istoria di S. Romualdo quando si trova nell’eremo senza vitto, e ricorso alla s. orazione viene proveduto dal cielo, essendo abate don Mauro Corsi nobil fiorentino. Nelle camere del generale in Firenze ci è del Biliotti un quadro, ove è l’incendio di Troia, che è molto stimato; in un altro quadro ci è il Giudizio universale, ove egli si è dipinto con i pennelli, e vas etti in mano. Morì a Volterra il dì 28 di settembre dell’anno 1652, nella Badia di San Giusto e Clemente, ove fu sepolto».
Anche don Mauro Corsi parla di don Migliore e dei suoi dipinti nel giornale H di ricordi di San Michele in Borgo:
«Agosto 1640 pisano [1639 s.e.]. Ricordo come quest’anno e mese suddetto si è collocato nel Reffettorio di questo monasterio il quadro grande dove è dipinto il miracolo del padre San Romualdo opera e studio del p. don Migliore Biliotti fiorentino monaco di questo monasterio, il quale per più anni ha essercitato la miniatura, et ha fatte più e più opere molto degne e stimate; ma essendo di presente in età di sessant’anni, e naturalmente havendo sempre havuto pochissima vista, e molto impedita, molto più con gli anni è cresciuta l’infermità, sì che così a sorte si è messo a lavorare in grande e la sudetta è stata la prima opera a olio che lui habbia fatto, dove ha fatto il suo ritratto che è quella figura con gli occhiali; e vi sono due altri ritratti al naturale quello del padre don Mauro Corsi fiorentino abbate di questo monasterio che è quella figura che sta in ginocchioni con le braccia in croce; l’altra è ritratto di fra Piero converso della Badia Agnano, fattore per il monasterio degli Angeli alle Bocchette che è la figura prima tutta intiera, et in piede: e quali duoi ritratti son stati fatti dal sig. Alfiere Giovanni Navaretti gentil’huomo di Pisa, e già stato scolare del detto padre don Migliore. Il rimanente è tutto di capriccio e di mano del detto monaco. È fatto assettare dal detto padre abate con il credenzone di noce sotto, e finestre per ornamento del medesimo refettorio: essendosi tutto comprato e accomodato nuovamente.
[…] Per il refettorio e cucina. Si è comprato il credenzone di noce a due ordini di credenza di lunghezza circa braccia otto posto in faccia al refettorio, comprato per s. venti, che con la condotta et altro importa s. cento quaranta sette.
Si è fatto accomodare nel med. refettorio il quadro grande dove è dipinto per mano del p. don Migliore Biliotti fiorentino nostro monaco il miracolo del p. san Romualdo come si dice in questo a c. 3 et oltre alla spesa fatto del telaio et altro; quest’anno vi si è aggiunta spesa di molti ferramenti, e la tela azzurra che serve per serrare con detta la finestra e vetrata di detto refettorio sopra detto quadro, costò s. 10.1. 15 e fattura s. 10.15.47»53
Il monastero di San Michele in Borgo subì dei gravissimi danni durante l’ultimo conflitto mondiale e il dipinto citato dal p. Corsi è irreperibile54.
La sera dello stesso giorno in cui ebbe luogo la visita a San Giusto, Cosimo II e la corte assistettero alla commedia La Turca di Giovanni Villifranchi, dedicata a Maria Maddalena che era una Asburgo, cioè apparteneva a una casa regnante che assieme alla Repubblica di Venezia soffriva l’espansione ottomana sui propri territori.
L’impero bizantino di Costantinopoli, considerato l’unico e legittimo erede di quello romano, era stato conquistato il 29 maggio 1453 da Maometto II e tale impresa aveva dato luogo, oltre che a sgomento e indignazione in Occidente, a successive lunghe guerre di espansione musulmana a spese del mondo cristiano. Il 7 ottobre 1571 le forze ottomane erano state sconfitte a Lepanto dalla flotta della Lega che aveva riunito sotto le insegne pontificie Venezia, Spagna (con Napoli e Sicilia), Genova, Cavalieri di Malta, Ducato di Savoia, Ducato d’Urbino e Granducato di Toscana.
Al memorabile evento aveva partecipato anche il volterrano Mariotto Ricciarelli, capitano di una galera nel 1570 sotto Pompeo Colonna. Poi, tra 1571 e 1572, mentre Prospero Colonna stava sulla nave ammiraglia con don Giovanni d’Austria, il Ricciarelli era stato capitano di fanteria con 3000 fanti nell’isola di Santa Maura, zona a confine con i turchi.
In città invece l’impegno cattolico si era espresso nel 1588, al tempo del priore Piero Baglioni, con l’istituzione in San Michele della compagnia della Trinità per il riscatto dei poveri schiavi rapiti dagli ottomani. L’insegna presentava una croce rossa e turchina55.
E volterrano era l’ammiraglio della flotta toscana che aveva conseguito grandi successi nel Mediterraneo: Iacopo Inghirami, cui i granduchi e lo stato furono sempre riconoscenti per la ricchezza apportata con le sue conquiste, tra le quali quasi leggendaria era stata quella di Bona (Annaba in Algeria, 1607)56.
Coscienti dunque di aver dato – e di dare – il loro contributo alla guerra, la sera del 16 novembre i cittadini di Volterra manifestarono il loro impegno anche dal punto di vista artistico con la rappresentazione de La Turca, una piacevole commedia che potrebbe essere tranquillamente messa in scena con successo anche ai nostri giorni. La vicenda si svolge a Volterra ed è costruita su amori infelici, travestimenti e mancati delitti di onore, il tutto filtrato dall’ironia e dalla leggerezza di un racconto scritto secondo il miglior stile del tempo. I personaggi sono la turca Rafia in abiti maschili sotto il nome di Ernesto, Armidoro Allegretti suo fidanzato, la bella vedova Ottavia Baldinotti, Elidio suo innamorato, la balia Lavinia, Landolfo vecchio avaro e zio di Ottavi a, i servitori Granello, Leonello e Arrighetto, il vanaglorioso capitano Acheronte, il parassita sempre affamato Digiuno, il pedante Falisco che pretenziosamente parla in latino, Alemme levantino e Ubertino Ruini gentiluomo bolognese.
Hanno, tutti i personaggi, dei nomi speciali che ne arricchiscono la storia: Armidoro Allegretti innamorato e un po’ ingenuo, è il tipo di giovane che poteva piacere all’alta società del tempo; Ottavi a Baldinotti una signora onesta e buona, che non ha timore di praticare la carità segreta. Porta il cognome di una casata ormai estinta ma sempre presente alla memoria dei volterrani. I servitori sono chiamati con il diminutivo, mentre il capitano Acheronte assassino evoca per assonanza il nome di un diavolo (Caronte) e il suo compagno ha l’appellativo infausto e ironico di Digiuno.
Un breve prologo illustra l’antichità della città e rende omaggio alla generosità di casa Medici. Nella prima scena è spiegato al pubblico in che modo sia scoppiato uno scandalo vero e proprio a Volterra: il giovane straniero Ernesto è ospitato in modo sconveniente in casa della vedova Ottavia, che per lui sembra abbia «perduto il cervello, e l ‘honore».
In realtà le cose stanno diversamente da come appaiono: Ernesto si chiama Rafia ed è una ragazza nata a Costantinopoli da famiglia abbiente, catturata a 12 anni «per uno strano accidente» e ridotta in schiavitù. Nel 1602, dopo la «presa di Alba Reale» (Szekesfehervar in Ungheria), era stata condotta da un mercante a Graz in Austria, dove nel 1608 aveva conosciuto e si era innamorata di Armidoro, un giovane al seguito degli organizzatori del matrimonio di Maria Maddalena con Cosimo de’ Medici. Ricambiata, e volendo sposarsi, si era preparata al battesimo cristiano e anche alla prossima libertà perché il padre stava inviando il denaro del riscatto. Paolo Giordano Orsini però era giunto a «dare l’anello» per procura a Maria Maddalena e i due fidanzati erano stati costretti alla separazione. Senza perdersi d’animo, avevano concordato la loro riunione alle poste di Firenze e che, durante il viaggio verso l’Italia, la ragazza dovesse indossare abiti maschili, dichiarare di chiamarsi Ernesto e stare in compagnia di Arrighetto. Sfortunatamente, finite le feste delle nozze nella capitale del granducato, Armidoro non si era visto e Rafia, sempre in abiti maschili, si era trasferita in una casetta a Volterra, mentre il servitore era tornato a Graz a cercarlo.
Quattro anni erano trascorsi. Ottavia per caso era venuta a conoscenza dell’identità di Rafia-Ernesto e l’aveva voluta come ospite in casa sua. Da qui lo scandalo, a causa del quale Elidio, innamorato della bella vedova e deluso, si era ritirato campagna, e il pedante Falisco, altro suo spasimante, ma in incognito, per gelosia aveva fatto venire da Bologna dei sicari per ucciderla: il capitano Acheronte e Digiuno. Tra le battute divertenti dei personaggi di genere e i prevedibili equivoci, la storia prosegue con il ritorno di Arrighetto da un inutile viaggio a Graz e con la disperazione di Rafia che vorrebbe rinchiudersi in convento. Prima che si compia l’irreparabile, giunge a Volterra Armidoro travestito da orientale e in compagnia di Alemme, inviato dal padre della ragazza. Il giovane spiega che non ha potuto onorare la promessa di matrimonio perché a Graz un barone boemo l’aveva costretto a battersi in duello. Dopo la morte di costui era stato arrestato e messo in una prigione da cui era evaso fortunosamente.
Intanto a Volterra Elidio, preoccupato per l’incolumità di Ottavia, ritorna dalla campagna per difenderla e trova alleati nello zio di lei Landolfo, nei servitori della commedia e nell’ultimo personaggio che appare sulla scena, prima dello scontro con Acheronte e Digiuno: Ubertino Ruini bolognese, compagno di prigionia di Armidoro, liberato prima della sua evasione e latore di una sua lettera e del suo testamento.
I sicari sono resi inoffensivi e catturati. Finalmente Armidoro può incontrare la sua «fida turca» e tutto si conclude felicemente. Si progettano le doppie nozze e si perdona ai malvagi: al pedante Falisco, che però viene cacciato, al capitano e a Digiuno che sono invitati a portare rispettivamente la guerra e la carestia altrove.
Chiude la commedia un monologo scritto nello stile del tempo, con la personificazione ironica di alcuni vizi umani:
Or che dite della nostra commedia, voi Affannoni? Quante volte havete storto il grugno, alzate le voci, e sputato tondo? So che la vostra compagnia sarà arricchita di fratelli, e i fratelli di Tormentoni. I Finimondoni havranno spalancato le gole, come se rovinasse il cielo di qualche forno. Voi altri signori risguardate a gl’ingegni nostri poco elevati e alla scarsezza del tempo. E voi serenissime altezze, rimirate più i cuori che i volti, che noi nel resto lasceremo gridare gl’Affannoni e i Finimondoni57.
Nel testo della commedia sono presenti alcuni interessanti accenni alla vita volterrana del tempo: si parla della città su quest’ultimo confino ove per quanto posso conoscere, non ci capitano mai forestieri, se non ci vengono a posta (atto III, pago 73). Oppure si commenta: È forza che a Vada sia sbarcato una navata d’ebrei… (atto III, pago 104), vedendo giungere un paio di persone in abito orientale. D’altronde, i delitti – d’onore o per altri motivi – non erano infrequenti e conveniva usare prudenza con gli stranieri e, se necessario, difendersi con tutti i mezzi possibili.
Rafia disperata poi si vuole fare monaca nel convento di San Dalmazio di cui ha sentito parlare bene; ed infatti in quello stesso 1612 il monastero, che era benedettino cistercense fu aggregato alla congregazione cassinense. Si intuisce, tramite la protagonista della commedia, come dovessero mancarvi le giovani vocazioni58.
Nel 1994 è stato scritto in merito ad una visita di Cosimo e di Maria Maddalena al monastero francescano di San Lino59. Il Tinghi però non ne parla e, a parere mio, esiste un equivoco che forse potrà essere più o meno chiarito da un confronto con delle Memorie settecentesche di un certo fra Glicerio, conservate presso le francescane di San Casciano Val di Pesa60.
San Lino, è opportuno notarlo, all’epoca era venerato pubblicamente e con solennità dai cittadini. Già nel 1605 – come ricorda il Giovannelli – ci si asteneva dal lavoro il giorno della sua festa (vedi sopra).
Anche il monastero femminile, che portava il suo nome, era noto per le devozioni praticate con sentimento: le suore della seconda metà del Cinquecento conservavano tra le reliquie «una parte del velo nel quale fu involto il corpo di Christo, et due particelle del legno della Santissima Croce»61. E veneravano, forse fin dalla fondazione, una Vergine miracolosa, una statua genuflessa in avanti vestita di verde con manto turchino, ingioiellata e con degli anelli, davanti alla quale facevano ardere una lampada, ceri e candele e sistemavano dei fiori. Il Bambino che era con lei era da abbracciare e venerare soprattutto la notte di Natale e fino all’Epifania62. Noto era l’episodio di suor Cecilia Gotti che nel Natale del 1524 ebbe nelle braccia il Bambino di Bettelemme, che teneva scolpito continuamente nel cuore63. Un documento del 1785 chiama l’immagine Vergine del Presepio e la ricorda accompagnata anche da un San Giuseppe.
Ne riporta invece i miracoli un Memoriale manoscritto conservato nella Biblioteca Guarnacci. Vi si trova riportata la visita granducale:
Essendo venuta qua su la corte el serenissimo gran Duca con l’altezza sua serenissima e l’serenissimo e l’madama et entrando nel monastero per visitar la miracolosa inmagine stando S.A.S. genuflessa da raccomandandogli lo inperadore suo fratello per negozi e cause di guerre assai importante e molto perigliose per tutto il cristianesimo del che gli addomandò la pace e gli fu concessa et esaudita la su’ fede, che ‘l giorno proprio che chiese la detta gratia el dì stesso fecen’ pace. Così raccolsero per la nuova e lettera a llei, et in Firenze con gran festa et trionfo per tutto.
Ringraziando S.D.M. che per li meriti della sua dolcissima Madre aver liberato el suo populo, atteso che non mancò lei mostrar segnio de la gratia ricevuta che li mandò un dono et bellissimo regalo un presepio fatto di filo d’argento battuto, di valuta di scudi trecento et una veste escarnata vergata d’argento, del che il detto miracolo fu divulgato per Firenze, e venne all’orecchie del signor Gaspar Marchi del ch’era lungo tempo iaceva in letto di mal di febbre aggravato, e gli si raccomandò e mirabilmente ebbe la gratia e fu liberato da la febbre, e scrisse qua a sue parente una lettera tanto devota sopra la beata Vergine di questa santta inmagine che chi la sentiva movea a lagrimare, in particulare diceva come qualmente gli era apparsa, et in veste verde, e sopra turchino, e così piacque a Dio gli si dimostrasse questa di San Lino che pure in Firenze ve ne sia di molte miracolose, et gli riconoscendo tal benefizio fece un legato e lasciò parte della sua robba di beni stabili per sua carità per l’amor di Dio et di Maria Vergine64.
La memoria del miracolo non riporta i nomi degli illustri visitatori. Secondo quanto scritto nel 1994, questi furono Cosimo II e Maria Maddalena d’Austria che «implorò grazia per il fratello Mattia intento alla restaurazione dell’autorità imperiale sotto la supremazia asburgica».
Tuttavia, leggendo un semplice elenco di imperatori austriaci, appare evidente come in realtà Mattia non fosse il fratello di Maria Maddalena ma il cugino. Era figlio di Massimiliano II figlio di Ferdinando mentre Maria Maddalena era figlia di Carlo di Ferdinando. Il fratello di Maria Maddalena, anch’egli battezzato con il nome di Ferdinando, sarebbe stato imperatore solo nel 1619, dopo la morte del cugino che non ebbe eredi.
Cercando allora in un’altra direzione e in anni diversi, è possibile trovare una sola granduchessa di Toscana – Giovanna d’Austria – che fu sorella di un imperatore – Massimiliano II. Sposa di Francesco I, in occasione delle nozze aveva ricevuto dalla Comunità volterrana il pregiatissimo dono di due vasi d’argento65. Insieme al granduca, fu in visita in città dal 3 a 15 settembre 1570. Il primo giorno ne volle visitare proprio i monasteri, come ricorda una lettera scritta il 3 settembre da Bartolomeo Concini, primo segretario di stato, al genero Antonio Serguidi:
«Questa mattina solennemente s’è passato in chiesa la messa cantata dove intervennero li signori, collegi, gentilhomini et il fiore di queste gentildonne, le quali doppo magnare hanno dansato tutto ‘l giorno, lor’Altezze son’ite per tutta la città et la Principessa ha visitato et donato tutti questi monasterii …66.
I granduchi provenivano da San Miniato e dopo Volterra avrebbero proseguito per Siena, Radicofani, Montepulciano, Cortona, Castiglion fiorentino, Sansepolcro. Due lettere del Concini del 10 agosto 1570 e del 2 settembre (quest’ultima da San Miniato) spiegano i pensieri che affliggevano Giovanna, poiché in esse si parla di una lega catholica tra Sua Maestà Cristianissima il papa et venetiani67.
Forse furono proprio questi i problemi che nel Memoriale di San Lino sono detti i negozi e cause di guerre assai importante e molto perigliose per tutto il cristianesimo68. Il loro buon esito avrebbe facilitato la ratifica della Lega Santa e la vittoria a Lepanto del 157169.
Tornando al convento di S. Agostino ricordato all’inizio di questa ricerca, al tempo della visita di Cosimo II appare brillante per iniziative devote, cultura e gusto artistico. Ne era priore fra Guglielmo Bava, uno dei primi fondatori dell’Accademia dei Sepolti70. Ma non solo il convento aveva nel più alto livello della gerarchia un frate di prestigio: grazie all’affetto dei fedeli, beneficiava anche di molti lasciti e teneva dal 1486 la chiave del luogo dove erano le polizze per l’elezione degli ufficiali del Comune, riscuotendo per questo e per assistere ogni volta lire 22 l’anno. E celebrava solennemente la cultura il 25 novembre, per S. Caterina d’Alessandria o delle Ruote, con «apparati», orazioni in lode della santa, processioni di scolari e l’offerta di cera alla chiesa71.
Nel gusto artistico, i frati e i benefattori, consapevoli del valore catechetico dell’arte sacra – ut pictura sermo, come si diceva allora -, avevano intrapreso dei lavori di decorazione della chiesa. Oltre alla Madonna del Soccorso (1614) di Ulisse Ciocchi, di cui abbiamo parlato, il pittore Francesco Curradi72, su commissione di Francesco Falconcini, aveva dipinto nel 1611 I Dolenti, ovvero una Crocifissione con Santi, che è un manifesto iconografico e devoto. Osservandolo si nota infatti ai piedi della croce il teschio del progenitore Adamo, sopra la cui sepoltura questa fu innalzata per la redenzione del genere umano, secondo una pia tradizione. Il vescovo Agostino presenta il manto riccamente ornato, chiuso in alto dall’abito agostiniano, e sta di fronte al Poverello con il saio francescano. Entrambi sono fondatori di ordini religiosi. Dietro si trovano Maria e San Giovanni Battista, parenti e «precursori» di Gesù, l’una è la donna di meditazione – ma qui sembra quasi l’Addolorata il cui culto avrà fortuna quasi fino ai giorni nostri -, l’altro il predicatore penitente con la croce e il cartiglio Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi (ecco l’Agnello di Dio che prende su di sé i peccati del mondo), l’indice rivolto al cielo. Abbraccia la croce sant’ Antonio abate, padre dei monaci, a significare la comune ascendenza e l’universalità dei religiosi regolari nonché a proporre una successiva destinazione della tela dopo la cappella Falconcini: il coro del convento per rammentare ai frati radunati le loro origini e finalità, l’azione e la preghiera comune73.
È opportuno ricordare presso la chiesa di Sant’Agostino, proprio al tempo della visita granducale, anche la presenza di una compagnia laicale maschile e femminile dal titolo di San Barnaba divisa in due sezioni: una detta «di giorno» e l’altra «di notte».
Di queste, la prima era ricordata fino dal 25 aprile 1474 quando ottenne il sito dai Padri e poi il 20 luglio 1520 allorché si impegnò a corrispondere loro annualmente una libbra di cera lavorata per la festa di S. Agostino o, come si scrive, per recognitione e livello del sito di detta compagnia74.
La seconda sezione, che si chiamava «di notte» perché si riuniva la sera dopo il vespro della beata Vergine o compieta, era invece documentata fino dal 20 marzo 1575, quando era governatore Carlo Bava. Molto numerosa, tra gli associati di inizio Seicento annoverava personalità religiose di spicco: i dottori in legge e canonici Alessandro e Mariotto Lisci, il dottore teologo Ottaviano Lisci, Giovanni Battista Bimbi pievano di Lustignano, Giusto Truglini pievano di Orciatico, Ambrogio Lisci segretario del cardinale Sfondrato (Paolo Emilio), Nicola Salvestrini pievano di Castelnuovo, Lorenzo Tavianozzi pievano di Fosini e poi proposto di Travale, fra Gugliemo Bava maestro in teologia di Sant’Agostino, fra Andrea da Prato, frate Ottaviano Lisci cavaliere di Malta… per citarne alcuni, oltre a Bastiano Villifranchi, fratello del commediografo Giovanni e al nostro p. Mario Giovannelli che era uno dei confratelli più attivi. Ne fu infatti maestro dei novizi nel 1596, governatore nel 1616 e 1617 (quando ricoprì anche l’incarico di priore del convento), consigliere nel 1622, di nuovo governatore nel 1624, 1626, 1631 e correttore nel 1633. La sua costante presenza in Compagnia è documentata almeno fino al 5 dicembre 1637.
Nel 1612, al tempo della visita di Cosimo II, il governatore Benedetto di Carlo Bava si stava impegnando nella redazione dei capitoli vecchi (accomodati) e nuovi che di lì a poco sarebbero stati approvati dal vicario del vescovo Carlo Macingi e pubblicati il 30 novembre 1614 proprio dal p. Giovannelli. Scritti con un’elegante calligrafia minuta, riportano varie e importanti disposizioni. Per gli ufficiali si stabiliva l’elezione due volte l’anno: per la festa della Concezione (8 dicembre) e la sera della festa di San Barnaba (11 giugno). Il primo ufficiale era il governatore, che restava in carica per un semestre. Gli altri erano i due consiglieri, il correttore, il camarlingo, i due sagrestani, i due maestri dei novizi, i due sindaci, i due infermieri per visitare i malati, il camarlingo per le doti per una o più ragazze povere e il camarlingo per l’elemosina per i fratelli defunti. Il correttore celebrava la messa a tutte le tornate e i sagrestani avevano cura dell’oratorio e dei suo i arredi e curavano di aprirlo e chiuderlo secondo la necessità.
I capitoli stabilivano inoltre le devozioni giornaliere, che erano frequenti e impegnative, le tornate fissate tutte le domeniche dell’anno, per Pasqua, per le solennità di Gesù Cristo, della Madonna, degli apostoli, le Quattro Tempora, le vigilie della SS. Concezione, di San Barnaba, di Sant’Agostino e S. Monica e dei patroni cittadini. Obbligatorie da farsi di mattina erano le «tornate» di Natale e dell’Assunzione, così come lo erano sei processioni l’anno con il Cristo o stendardo dell’Oratorio, le quali avevano luogo: la mattina dell’Assunzione della Vergine il 15 agosto, per accompagnare le sacre reliquie della cattedrale e della chiesa di San Pietro in Selci che si portano quella mattina per la città; la mattina della festa del Corpus Domini a giugno quando il Santissimo veniva portato dal vescovo per tutta la città; la mattina delle due feste che si fanno infra l’ottava dell’istessa festa del Corpo di Cristo nella chiesa di San Pietro in Selci, et di San Michele per accompagnare parimente et honorare l’istesso, che in tali mattine è portato processionalmente per le parrocchie delle dette chiese; la mattina della festa delle SS. Attinia e Greciniana nostre avvocate e protettrici per visitare nel modo detto le loro sacre reliquie nella chiesa dell ‘abbazia di San Giusto fuori delle porte; la mattina della festa della traslazione di sant’Ottaviano nostro avvocato e protettore per visitare la chiesa in honor suo edificata lontano dal fiume Era un miglio incirca.
Infine si andava a processione tutte le quarte domeniche del mese dopo il vespro, celebrato nella chiesa di Sant’Agostino, per accompagnare le sacre reliquie in honore di santa Monica madre nostra et avvocata.
Il giorno della domenica di Passione (delle Palme) si consegnava una dote di 30 lire a una ragazza povera di quindici-sedici anni.
Per quanto riguarda le opere d’arte di proprietà della Compagnia, nel 1624 e nel 1634 era ricordata una croce di reliquie donata da p. fra Ottaviano Mannucci che doveva essere esposta sull’altare il giorno della S. Croce di maggio a compiacimento di m. Giusto e di fra Mario Giovannelli. In un inventario del 19 dicembre 1729 si segnavano anche:
«il quadro dell’ altare maggiore dipintovi l’Immaculata Concezione et altri santi con adornamento turchino dorato, tenda turchina e suo ferro 000 altra croce con crocifisso dorato e croce ripiena di reliquie o 00 quadri tre, che uno grande lacero, che è in mano del sig. Ippolito Cigna senza cornice che rappresenta da una parte una parte una Vergine SS. col Figlio in braccio, e lateralmente due santi, ciò è San Pietro e Paolo, dall’altra parte un crocifisso e similmente due santi; gl’altri due quadri rappresentano sant’Agostino, l’altro santa Monaca… quello in cui è dipinta santa Monaca è sfondato»75.
Nell’inventario è citato anche un coperto io rosso che è delle SS. Spine, sulle quali p. Giovannelli nel 1613 scriveva, senza riportarne il numero:
«nella chiesa delli RR. Padri dell’ordine Eremitano di Santo Agostino ritrovansi al presente spine, co’ le quali fu trafitto il capo di nostro Signore, quali si conservano con grandissima venerazione in un bucciolo dorato»76.
Un Memoriale manoscritto di oltre un secolo dopo ricorda che il 23 ottobre 1279 queste sante reliquie dai nostri frati romiti furono portate con solennità e venerazione dall’eremo di Santa Lucia di Larniano in città77. La devozione di S. Agostino quindi era da considerare quasi contemporanea a quella tradizionale francese che ebbe origine nel 1238, dopo la IV crociata, quando l’intera preziosa Corona fu trasferita da Costantinopoli a Venezia e da qui a Parigi nella Sainte Chapelle, costruita appositamente78.
A seguito di questo fatto, nei secoli successivi, la reliquia fu particolarmente prediletta dai sovrani per il voluto contrasto con la loro preziosa corona e quindi come simbolo di una superiore umiltà. In un modo particolare, anche a Volterra la presenza delle Spine si si associò ai desideri una regnante, proprio al tempo della visita di Cosimo II. Il Memoriale infatti continua:
«Si vede che essendo prima queste ss. Spine in numero di cinque, coll’occasione che venne la serenissima granduchessa da di Toscana Madama Cristina di Lorena in Volterra, dai nostri frati gli furono regalate due delle medesime, le quali portate a Firenze un anno nella sera del giovedì santo nel fare orazione avanti le medesime, osservò con grand’ammirazione, che queste di secche che erano diventavano verdi e vedde che nelle medesime in giù e su scorreva il preziosissimo sangue del nostro Signore Gesù Cristo e data questa relazione ai nostri religiosi mandò insieme un ostensorio d’argento, acciò le altre tre qui restate in questo si collocassero con maggiore decenza»79.
Certamente nel 1612 il culto popolare delle Spine non aveva raggiunto la diffusione e l’ampiezza che si sarebbe riscontrata alla metà del secolo e forse per questo gli agostiniani avevano potuto liberamente regalarne due a Cristina di Lorena, che di certo aveva in mente quelle venerate durante la sua infanzia nella Sainte Chapelle80.
Invece il rinverdimento avvenuto la sera del giovedì santo mentre la granduchessa pregava, fa parte di una pia tradizione che provocò una certa attesa in Italia nel 1932 e che anche oggi ha un certo seguito. Questa vuole che il giorno in cui venerdì santo cade per la festa dell’Annunciazione, il 25 marzo, le Spine della corona si arrossino, diventino verdi o fioriscano81. Il rinverdimento visto da Cristina il giovedì inoltre dovette avvenire quando dovevano ess
ere passati i primi vespri del venerdì santo. Date probabili per l’avvenimento – cercando nei calendari perpetui gli anni in cui il venerdì santo cadeva il 25 marzo e la Pasqua il 27 – sono il 1622 quando, secondo il Diario del Tinghi, anche il granduca minorenne Ferdinando II andò nella chiesa della Spina sull’Arno a Pisa a fare le sue devozioni e il 1633. Cristina di Lorena sarebbe deceduta nel 163782.
Anni dopo a Volterra si verificò di nuovo il rinverdimento delle Spine:
«Da monsignor Niccolò Sacchetti vescovo di questa città furono vedute queste tre ss. Spine qui restate nel giovedì santo verso le 5 o 6 ore della sera, produrre parimenti gl’istessi effetti che produssero avanti la granduchessa sopracitata e non solo alla presenza di lui ma ancora in presenza di altri testimoni»83.
Per il vescovo Sacchetti (1634-1650) la data dovrebbe essere il 1644. Anche qui si parla delle 5-6 ore della sera del giovedì, quando si celebravano o erano appena passati i primi vespri del venerdì santo.
Si potrà verificare questa pia tradizione nel 2016 allorché il venerdì santo sarà di nuovo il giorno dell’Annunciazione del Signore.
Una delle Spine di Cristina di Lorena forse è oggi rintracciabile a Firenze nel Tesoro di San Lorenzo al quale sarebbe pervenuta nel 1785 al tempo del riordinamento degli oggetti devoti della cappella reale di Palazzo Pitti voluto dal granduca Pietro Leopoldo. È conservata nel «reliquiario della spina» che è considerato uno degli oggetti più belli e preziosi dell’intera collezione84.