Nel 1427 a Firenze fu introdotto il Catasto, un sistema di tassazione basato sul censimento delle proprietà e dei redditi dei cittadini. Volterra, sottoposta a Firenze ne subì di lì a qualche anno le stesse sorti. Questa innovazione fiscale, voluta dalla classe dirigente fiorentina, mirava a rendere più equo il carico fiscale, dato che precedentemente le tasse erano imposte soprattutto sui consumi e penalizzavano le classi meno abbienti.
Il Catasto del 1427 era rivoluzionario per il suo tempo, perché cercava di colpire proporzionalmente i più ricchi. Tuttavia, l’implementazione del catasto non fu priva di opposizione. Ci furono scontenti tra le famiglie più ricche, che vedevano aumentare il loro carico fiscale. Questi malumori portarono a diverse tensioni sociali, e si possono trovare episodi di resistenza e ribellione contro il nuovo sistema.
Oggi uno dei grandi vantaggi dell’introduzione del Catasto è che ha prodotto una straordinaria quantità di documentazione. Grazie a questo sistema di registrazione, abbiamo oggi un quadro dettagliato della popolazione, delle proprietà e delle ricchezze dei fiorentini di quell’epoca. Il censimento registrava non solo i beni immobili e mobili, ma anche informazioni personali come la composizione delle famiglie e la professione dei cittadini. Era possibile tracciare la distribuzione della ricchezza tra i cittadini e capire chi possedeva cosa, fornendo un’immagine precisa della società.
> Sommario, Il quotidiano e i luoghi di Volterra nel catasto del 1429-30
Chi amasse la poesia delle cose due, tre, troppe volte e per sempre morte (scriveva don Maurizio Cavallini insigne storico volterrano), leggendo i fogli che nei registri del catasto annotano prosaicamente case e pezzi di terra e loro stime, potrà sentirsi come un viaggiatore che giunge a Volterra nel 1429.
Un foglio dopo l’altro, a poco a poco, scoprirà la città e i suoi abitanti: le case, le famiglie, il lavoro, l’istruzione, la religiosità, i viaggi, e così via … a trovare perfino il senso dell’onore del tempo messo per scritto su un foglio dato al notaio. Ma poiché indaga su un registro fiscale, e quindi poco ‘narrativo’, qualcosa alla sua ricerca sfuggirà. Gli mancherà di sapere sulla poesia, sul canto, sulla cronaca e il linguaggio comune, i pensieri e le preghiere della gente; non potrà documentarsi sulle amicizie, sugli svaghi di allora e altre cose che nei catasti non si trovano… Ma così è in generale la ricerca storica e questa che ora incominciamo, è così ricca di informazioni e di aspetti inediti sulla Volterra tardomedievale, che volentieri rimandiamo ad altri tempi lo scrivere di argomenti ora non rilevabili.
Dunque arriviamo a Volterra e per prima cosa ci fermiamo nel centro di S. Alessandro, in un albergo di proprietà di due bambine orfane di cognome Magagnini. Incomincia così la nostra ricerca di notizie. E per prima cosa sappiamo che l’albergo era affittato all’oste Leonardo di Giusto e da questi al collega Matteo di Giovanni da Firenze.
Matteo viveva con la moglie Maria in un casellino vicino e aveva debiti – per forniture – con il vinattiere Guaspare Cacciapensieri, con un barbiere che radeva o faceva salassi ai clienti, con un bastiere, un macellaio, e la lavandaia Agata vedova di Giovannino di Guido da Montecerboli. Dichiarava anche numerosi piccoli crediti da varie persone che non pagavano subito l’ospitalità, come un tal Piero da Montevarchi.
Il centro adiacente all’albergo: S. Alessandro, un tempo era chiamato contrada. Nel 1429 vi abitavano i lavoratori Ciaffarini, i figli di Luca di Lorenzo e Taviano di Mazzocchio che teneva qui al pascolo un gregge di pecore e un giovenco. Alcune terre appartenevano ai Minucci e agli Incontri, una conceria a Ramondo Baldinotti e ai canonici del Duomo, un’altra, detta a Fonte Nuova e Ripaia, alle eredi dello Spera.
La chiesa che dava nome al centro, S. Alessandro, era ricordata alla Costa all’Erta, circondata da case e vigne. Il prete rettore si chiamava ser Taddeo di Michele di Taviano. Due località vicine prendevano nome da altrettanti edifici religiosi abbandonati: S. Salvadore e S. Iacopo1.
Da S. Alessandro si potevano vedere parti delle mura che gli abitanti chiamavano muro della città o muro del Chomune oppure muro vecchio o muro della città vecchia (il giro etrusco abbandonato).
Le mura della città e le mura del Comune erano ricordate presso il Castello e quasi per ciascuna contrada, accanto a case, botteghe e orti, appoggio per pergole, casalini, casette da fieno o da legna, frantoi e concerie. Località prossime erano Fornelli, Penera, Fonte Marcoli, Borgo Nuovo, Tana Saracina, Macereto presso un chiasserello (una viuzza), Ripaia, Corso, Menseri, Grimaldringa, Poggio, S. Marco e Campanile, Guerruccia, S. Francesco Vecchio, S. Francesco, Piano (Porta a Selci).
Il muro vecchio invece era ricordato a S. Andrea, al Corso di Pratomarzio, al Docciarello, a Porta Fiorentina, a Conia e in un luogo detto proprio Muro. Muro Rotto, già esistente nel secolo XIII, nei nostri documenti era una zona di vigne o di incolto2.
Il fosso del Chomune (il fossato) limitava la parte debole delle mura: alla Porta all’Arco, a S. Andrea, a Fonte Marcoli, a Rivolte o Penera e presso l’ospedale di S. Stefano (fossi della terra).
Le porte e le torri delle mura erano pubbliche e avevano come custodi i famigli del capitano che era eletto dal governo fiorentino3.
Le torri interne in città invece appartenevano a privati cittadini. Erano la torraccia dei Credi in piazza dei Priori (già Belforti) e la torre di Francesca Mannucci-Cavalcanti (oggi Guidi).
Volgendo lo sguardo alle pendi ci, apparivano tra le colline, a seconda del punto di osservazione scelto, il torrione di Mone alla Villa, le torri di Lescaia, di Fibbiano, di Montese, di Ponsano, di Porcignano, le due torricelle di Palagetto sul torrente Capreggine e la toraza (torraccia) a Sorbi di Ragone, senza usci e solai e di proprietà dello spedale di S. Maria. Erano ricordati anche i toponimi Torri (a Gello di Corbano), Torricchi (a est), Torrione (verso Pinzano), Torricella (a Montebradoni)4.
Acquartierati nelle case disfatte del Castello, di Porta Balducci e Lische erano ben visibili alla popolazione i soldati del Comune di Firenze, giunti in seguito ad una sommossa i cui antefatti risalivano alle decennali contese tra le consorterie cittadine. Nel 1361 infatti i volterrani si erano liberati dalla tirannia di Bocchino Belforti grazie ai fiorentini ai quali avevano affidato la custodia del cassero e concesso un dominio blando sulla città. Da allora le famiglie, divise fra le fazioni belfortesche e antibelfortesche, erano state abilmente controllate dai «protettori» e si erano dedicate con tranquillità alle attività artigiane che avevano fatto prosperare l’economia cittadina.
Negli ultimi decenni del Trecento e nei primi del secolo successivo però Firenze aveva avuto più marcate mire espansionistiche, a causa sia della situazione internazionale e dei pericoli corsi contro i Visconti, sia della politica interna. Nel 1406 conquistò Pisa e nel 1427 ordinò la tassazione al contado e al dominio detta del catasto.
Il provvedimento riguardò anche i volterrani che, per sottrarsi all’estimo, più capillare e preciso dell’allibramento locale, e sperando in una trattativa, mandarono diciotto ambasciatori a Firenze. Questi furono messi in prigione e tenuti sotto chiave fino a quando, nel maggio del 1429, non presentarono la dichiarazione sui beni. In città però rimase il malcontento e in autunno scoppiò la ribellione. Ne prese la guida Giusto figlio di Antonio Landini e di Ughetta Baldinotti, coniuge di Lucia dello Spera (una nipote di Bocchino Belforti), commerciante di bestiame e legato a delle sartorie pisane. Firenze reagì alla rivolta con l’invio di soldati che si acquartierarono intorno a Volterra, in attesa delle decisioni dei cittadini ancora divisi tra loro. Durante la marcia nelle pendici rubarono e ghuastarono pecore, bruciarono la casa del podere di Castagneto di Francesco Alducci e predarono dei colombi a S. Cipriano. Alle mura a Selci rovinarono una possessione, devastarono una pergola a Fornelli e tagliarono il bosco di noccioli e carpini in Valle del notaio ser Vinta che ricordava: passerà più chatasti prima che dia frutto5.
La situazione fu risolta il 7 novembre 1429, quando Giusto venne ucciso in un agguato nel Palazzo dei Priori e i fiorentini ebbero di nuovo pieno potere sulla città. Il catasto ricorda alcuni lavori immediati fatti alle fortificazioni: al cassero e al ponte e i debiti relativi del Comune di Firenze verso il fabbro Taviano Vannini, il fornaciaio Pellegrini e il falegname Niccolaio Compagni. Il Comune di Certaldo invece dovette pagare Taviano di Bartolo detto Bossolo per legname fattogli trainare al cassero6.
Tra i soldati Antonio di messer Polo da Pratovecchio è citato nelle scritte fatte al catasto come debitore del macellaio, dello speziale, del calzolaio, del lanaiolo, dei produttori di vino e di derrate alimentari; Domenico soldato di Arezzo risultava debitore del maniscalco e Piero soldato da Monterotondo del merciaio Minucci7.
Alla ribellione seguirono le rappresaglie sui cittadini considerati pericolosi, come il diciassettenne Michelangelo fratello di Giusto Landini, che venne obbligato a stare in prestanza (al domicilio coatto) a Firenze. Le figlie di Giusto, Vaggia e Felice di sette e due anni e mezzo, furono affidate alla nonna Ughetta che gestì la loro parte delle botteghe di Palazzo Baldinotti. Le bambine ereditarono anche le quote di due frantoi a Montebradoni, una casa nel castello di Pignano e le terre circostanti. L’allevamento di pecore e vario bestiame e l’arte della sartoria, forse fu rilevata (alloghare le prestazioni, si diceva allora) da Antonio della Baccia, che ebbe in deposito i libri di contabilità. Le piccole Landini ereditarono anche i debiti di famiglia: la restituzione della dote alla madre Lucia dello Spera (250 fiorini d’oro o 1000 lire), alla nonna Ughetta (300 lire) e a Selvaggia Cimini (90 lire), zia di Lucia. Vissero pertanto in povertà: calzolai, speziali e fornai consideravano i Landini debitori «cattivi» che non avrebbero mai pagato ciò che compravano.
Lucia tornò a vivere presso le sorelle in contrada di Piazza. Agli ufficiali del catasto dichiarò il credito dagli eredi di suo marito l. 1000 … non può domandare per di qui a uno anno per lo statuto di Volterra e la detta dote finito l’anno l’ha da piatire [andare in giudizio contro Landini e Baldinotti], è una faticha d’averla, perché v’è mal di che. Tempo dopo si sarebbe risposata con Mercatante Guidi, abile uomo d’affari8.
Furono costretti a stare a Firenze per rappresaglia anche Morellaccio (Antonio) Incontri, Piero della Bese, Bartolomeo di ser Giannello (uno degli ambasciatori già imprigionati nel 1429), Giovanni di Guaspare di Tomme, Andrea di Iacomuccio, forse Benedetto di Bartolomeo di Niccolaio di Cecco e Bartolomeo Paganellini.
Antonio di Pasquino, ser Iacopo di ser Marco, ser Antonio di Nanni, Lazzero di ser Lorenzo, Lorenzo di messer Piero, Lotto di Gadduccio, Francesco di ser Luca, Nanni di Simone Giudicetto, Antonio di Tome lanaiolo, il muratore Ambrogio da Fiesole, i fratelli Guidi vennero obbligati alla dimora a Firenze o parteciparono alla guerra contro Lucca, a quanto sembra di capire da una nota di Michele Incontri non dettagliata: non ha potuto fare ragione chon loro, chi è a Firenze, chi nel champo.
Erano questi artigiani e mercanti con un discreto giro d’affari e per questo motivo le loro dichiarazioni furono esaminate bene dagli ufficiali del catasto: soprattutto quella di Antonio Incontri che aveva un cospicuo patrimonio. D’acchordo chon Morellaccio, si trova scritto nella sua posta in data giugno 1430 a testimonianza di una lunga contrattazione sul valore degli immobili, dei crediti e dei debiti.
Antonio e soci non spiegarono i conti perché – dice un’altra nota – sono fugiti la pestilenza. L’epidemia fu avvisata nell’estate e giunse a Volterra alla fine del 14309.
Una delle cause della sommossa volterrana fu un’evidente crisi economica cittadina.
Si comprende bene leggendo un foglio del registro 271 del catasto, l’ultimo (941 v). Vi sono elencati gli incarichi (obblighi) del Comune, cioè i rimborsi dei prestiti contratti con i banchieri fiorentini o altri, poi riversati sulla popolazione. La prima nota è: Ridolfa Peruzi e chonpagni devono avere in a dì 27 giugno 1429 l. 994.6.7, acchattò [prese a prestito] dal detto Ridolfo pel detto Chomune ser Vinta di Michele e più debbe avere e chanbi e scritta per infino a dì ultimo di maggio 1430 …
Seguono altre quattro note sui prestiti dei Peruzzi da restituire dal luglio 1429 fino al 31 maggio 1430 (di 1118 lire, di 155 lire, di 213 lire e di 300 lire), una quinta nota su un debito di 3200 lire verso il Comune di Firenze per resto di terzarie e straordinario, e una sesta nota su 1200 lire più la providigione … a ragione del 12 per cento da rimborsare ad Andreozzo d’Antonio da Perugia con scadenza dal l novembre 1428 al 31 maggio 1430.
Mallevadori per il Comune, cioè gli obbligati che avevano acchattato dai Peruzzi, furono i volterrani Francesco di ser Luca, Bartolomeo del Bava, Mercatante Guidi, ser Lodovico Barzoni, ser Guido di Lorenzo, ser Attaviano Barlettani, ser Vinta di Michele e Antonio Broccardi. Alcuni di loro non riuscirono a liberarsi del debito che ritorna nelle poste catastali: il Barlettani (verso i Peruzzi), il Guidi (verso i Tempi e i figli di Gino Capponi che forse lo avevano rilevato) e il Barzoni (verso i Peruzzi, Palla di Nofri degli Strozzi, Niccolò d’Aldobrando dei conti d’Elci). Anche i Minucci dichiaravano un incharicho verso la tavola di Ridolfo Peruzzi, ma non sono citati al f. 941 v10.
E gli obbligati Broccardi e Barlettani, che dovevano dare di tasca loro quanto le tasse non riuscivano a coprire, durante la sollevazione, parlarono di moderazione forse perché ebbero i propri interessi mischiati a quelli dei due Comuni…
Francesco di Zanobi e compagni e con Alberto Tempi, acquirente di coma di bufalo; e l’animoso Francesco Contugi si era servito dagli armaioli fiorentini Antonio di Domenico e Bartolomeo di Francesco.
Ulteriori pendenze dei volterrani, delle quali purtroppo non è scritta la motivazione, interessarono gli Adimari e il fondaco in Calimala, i ritagliatori Bartoli, i Benizi-Guicciardini, il lanaiolo Giovanni di Iacopo Bini, Gentile di Bonsi Sigoli, Bartolomeo di Cristoforo Davanzati, Taddeo dell’Antella, Mariotto di Giovanni dello Steccuto, il merciaio Carlo del Toso, i ritagliatori Andrea Mancini e compagni, i Tempi, il choltriciaio Banco di Sandro, il chorreggiaio Luca di Cino…
Questi debiti sono solo la parte documentata di relazioni generali più ampie, legate alla politica e alle clientele. Ser Piero di Iacopo da Firenze era pievano di Fabbrica e messer Dino dei Pecori pievano di Pomarance. Più modestamente, lavoratori ed artigiani andavano e venivano da Firenze e dal suo contado, e qualche volta si stabilivano in città.
Nel catasto alcune società fiorentine erano dette fallite: quelle dei Serragli, di Biagio di ser Angelo Latini con il figlio che ne rifiutava l’eredità, e degli Spini prestatori al vescovo di Volterra11.
Scipione Ammirato in Dell’Historie (libro XIX), ricorda protagonisti della ribellione alcuni personaggi sui quali si trovano notizie inedite nel catasto. Questo è il testo:
[Nel 1429] la plebe… fatte ragunanze ne’ borghi della città, trovarono Giovanni Contugi, e lo pregarono a voler esser lor capo e guida a liberar la patria dalla tirannia dei fiorentini… Questi… propose loro per capo Giusto Landini molto confidente della plebe… uno de’ ritenuti in prigione.
I Priori di Volterra… mandarono a Giusto Michele Landini suo consorte e Antonio Broccardi per saper da lui quello che pretendeva… Il giorno dopo non quietandosi il popolo, andò alla badia di S. Giusto, dove trovandosi abate Bernardo della Rena fiorentino lo fece prigione.
Avea Giovanni Contugi… un consorte detto Ercolano cavaliere, uomo di autorità grande fra i nobili… ristrettosi co’ priori… si risolvettero di dargli la morte [a Giusto]… restò il governo di Volterra a’ priori; i quali mandarono il medesimo Ercolano Contugi, e Ottaviano Barlettani a’ commessarj dell’esercito fiorentino per dar loro conto del seguito, e invitarli andare a Volterra.
Uno dei volterrani citati è Ercolano di Piero Contugi (53 anni) detto messere, perché giudice e cittadino di prestigio. Abitava in contrada di Borgo (le adiacenze di via Ricciarelli) con la moglie madonna Piera, i figli e la famiglia del fratello Lorenzo. Il fratello Francesco era accatastato separatamente. Quest’ultimo dichiarava un debito verso gli armaioli citati sopra e un altro nei confronti del volterrano Buonafidanza di Buonafidanza, destinato a non essere saldato perché il Buonafidanza ricordava che lo minaccia quando gliegli chiede.
Altre notizie sulla famiglia rivelano una passata attività imprenditoriale e nel presente difficoltà economiche. Ercolano era stato un produttore di carta in società con il cartaio Antonio di Paolo da Colle Vald’Elsa e Michele da Poggibonsi. Possedeva due edifici a pile a Buti nel pisano presso il fiume di Rio, ma non trovavano affittuario. Assieme a Francesco aveva dei terreni a Ghizzano (podesteria di Peccioli) e a Villamagna.
Ed è leggendo proprio la dichiarazione sui terreni di Ghizzano (anteriore alla ribellione) che abbiamo le notizie sulle difficoltà familiari. Ercolano – chavalierj e dottore di leggie come padre e legiptimo aministratore di Pollonio mio figliuolo – scrive che era accecato, povero e padre di famiglia, e, anche facendo la tara alla lamentazione, sembra vivere in modo non invidiabile.
Conservava però molto rancore verso Selvaggia Cimini, figlia di Ottaviano e nipote di Bocchino Belforti, il tiranno decapitato nel 1361. Era creditore della donna per 29 lire che aveva domandato in giudizio. Il podestà gli aveva dato ragione, mettendolo in possesso di un terreno di Selvaggia a Pomarance. Al catasto il Contugi rivelava un accorgimento: doveva per forza valutare la terra 29 lire perché altrimenti sarebbe ritornata alla Cimini. Dichiarava anche di averle prestato una ciopa rosatta da donna (un’ampia sopravveste rosata), stimata 34 lire e mai restituita.
Ercolano ebbe relazioni poco amichevoli anche con i Baldinotti, forse rimarcate dal matrimonio di sua figlia Nofria con Pillo di Vannino di Pillo da Ponsano, lavoratore (una delle categorie sociali più basse) di Ughetta. Gli sposi avevano lasciato Volterra e vivevano a Pisa familiarmente; la casa nella contrada di S. Angelo, dote della sposa, era rimasta al consuocero, Vannino.
Una politica matrimoniale, anche se un po’ sfortunata, infatti aveva visto i Contugi imparentarsi con famiglie di rilievo. Polissena, figlia di ser Taviano di Francesco aveva sposato Giusto di Piero della Bese, ricco mercante, portando in dote la metà del pascolo di famiglia di Miemo, alla quale era stata aggiunta la parte dello zio Lodovico. Ginevra di 30 anni, sorella di Lodovico e di Cipriano di Lotto era la moglie di messer Ranieri Gambacorti di Pisa. Le erano state date 200 lire di dote, ma non era mai andata a marito, e i fratelli la tenevano tristemente in casa.
Anche Nanni di Attaviano Contugi però non aveva fatto un matrimonio conveniente. La moglie Barbara era figlia di Gabriello di Maccione da Radicondoli e dopo 18 anni doveva ancora avere il resto della dote, 400 lire. Non aveva eredi maschi e una delle sue tre figlie portava l’inconsueto nome di Maccabea.
Nelle Historie di Scipione Ammirato si trova citato Giovanni Contugi come capo della plebe. Forse corrisponde al Nanni di Attaviano di sopra o forse a Giovanni d’Antonio di Puccino di 26 anni che viveva da celibe con la madre vedova nella contrada di S. Angelo e quindi era coetaneo, vicino di casa e forse amico del Landini. Uomo accorto, anche nei riguardi del catasto, Nanni dichiarava che mezzo podere nella corte di Acquaviva era stato occhupato da altri, ma lo ricordava lo stesso per non perdere le sue ragioni (cioè per mettere sulla carta i suoi diritti). Forse condivise con il resto dei Contugi l’improvvisa povertà di mezzi, che incise non poco sulle vicende del 142912.
Invece Michele Landini, il parente di Giusto citato come ambasciatore dei Priori, fu il barbiere Michele di Landino53 abitante in contrada di Piazza, affittuario di una bottega di proprietà della suocera di Roberto Minucci. La vicinanza e la dipendenza da questa famiglia influente, ci fa capire come fosse stato inviato proprio da Roberto, forse per sapere se ci si poteva fidare di Giusto e dei suoi progetti.
Il secondo ambasciatore ricordato nelle Historie fu il lanaiolo sessantenne Antonio di Pasquino di Guido Broccardi, uno degli ultimi cittadini a dichiarare i beni al catasto, forse a causa della ribellione o per la loro consistenza. Era infatti uno degli uomini più ricchi di Volterra per i poderi, le case e le numerose mandrie di bestiame di proprietà. Parte dei beni però erano non divisi con ser Filippo Bindi, nipote della moglie Angela, figlia del suo ex socio Piero Fantozzi. Antonio era stato anche uno dei mallevadori del Comune e dichiarava qualche pendenza verso alcuni fiorentini, come Matteo Rondinelli, Luigi Bartoli e Sandro di Giovanni.
Il Broccardi era anche un uomo generoso: molti lavoratori e pastori dipendevano dalle sue fattorie e vivevano del suo salario; Bernardo di Paolo da Firenze e Pietro di Iacopo da Civitella, poverissime persone, abitavano in un suo podere di Montecerboli per amor di Dio (gratuitamente, per carità cristiana); una donna senza sostentamento dimorava in famiglia per compagnia, ed era vestita, calzata e spesata. Antonio però viveva modestamente. Per chavalcare usava una muletta di poco valore, al posto del cavallo che il rango e la ricchezza avrebbero voluto.
Una disgrazia per la famiglia era stata la morte del figlio Girolamo, forse proprio a causa della ribellione. Scriveva l’Ammirato infatti che quando ci fu l’agguato nel palazzo dei Priori, Giusto Landini pose mano alla spada che avea a lato, e con quella coraggiosamente difendendosi ferì mortalmente due delli assalitori. Chi fossero questi due morti non è detto, ma a noi sembra che uno di essi possa essere stato Girolamo che, al momento della dichiarazione del padre (dopo il maggio 1430), risultava deceduto e padre di una bimba di tre mesi. Era stata chiamata Girolama, cioè con il nome del genitore scomparso; secondo l’uso, viveva con i Broccardi, mentre la madre, la quattordicenne Tarsia Bindi, era stata rimandata a casa dei parenti. Girolamo era ricordato in vita anche in alcune poste precedenti alla ribellione: si era interessato alla sorte di una vedova, Piera di Maso di Vito e, per farle restituire 200 lire, aveva imposto due promesse agli ex soci del marito ser Piero Cafferecci e a Antonio della Baccia recalcitranti. Antonio ricordava nella dichiarazione le promesse13.
Tornando ai personaggi citati dall’Ammirato, è da ricordare anche il notaio ser Attaviano di Giovanni di ser Biagio Barlettani. Era uno degli obbligati al rimborso del prestito fatto dai fiorentini al Comune. Alla somma di cui era debitore, si aggiungevano, sempre per le mallevadorie verso il Comune, 1800 lire da rimborsare agli eredi di Michele Fei. Forse fu la pressione dei debiti a farlo diventare un uomo di pace e della fazione dei fiorentini, ma a noi sembra che avesse anche un certo realismo politico aggiunto alla generosità. Teneva un podere di Villamagna, perché il lavoratore Salvi di Giusto avesse di fichi e dell’uva per mangiare (sic); in famiglia ospitava la madre Angela di 85 anni inferma, e il nipote Benedetto di 42 anni infermo ed epilettico. Il figlio, Romeo di 12 anni, detto in seguito libero ingegno, verrà ucciso dai concittadini nel 1472 assieme al genero Iacopo Inghirami, a causa della cruenta controversia sulle allumiere del Sasso …
Sempre facendo riferimento alle Historie, troviamo anche il fiorentino don Bernardo del Terrena abate camaldolese di S. Giusto con qualche ricordo nel catasto. In un debito della Badia di non si sa quale importo (ma corretto da 20 a 210 lire) è riportato: A Niccholò Seragli e c(ompagni) … lire venti (sic) i quali stanno a chosto, e detti danari pagharono per le bolle e ispese quando fu fatto abate [quando venne nominato abate], cioè 1.210 (sic).
Forse messer Bernardo non piacque ai volterrani perché amministrò in modo poco generoso le vaste proprietà del monastero che davano lavoro a gran parte della popolazione del «terziere inferiore». Infatti una sola carità è citata dal catasto: l’usufrutto di una casa in contrada di S. Giusto concesso alla settantenne e poverissima Antonia vedova di Cristoforo, madre di Paolo, trentenne e muto.
Anche altri monaci della Badia erano di Firenze o del contado: don Andrea, don Leonardo di Paolo da Montespertoli, don Angelo di Niccolò da Poggibonsi …14.
I Landini e gli associati costituirono la fazione dei belforteschi. Ne fecero parte anche i consorti Lottini, lanaioli della contrada di S. Angelo. Capofamiglia era Lotto di Iacopo di Manetto52, socio di quel Bartolomeo Picchinesi, costretto a stare a Firenze in prestanza per due volte e che indomito parteciperà alla congiura del 1432.
Lotto aveva sposato in prime nozze Margherita sorella di Ughetta Baldinotti e zia di Giusto Landini, e pertanto, come erede della moglie, dichiarava diverse proprietà in comune con la donna, come la casa e le botteghe di palazzo Baldinotti.
Suo figlio primogenito si chiamava Antonio. Aveva sposato Albiera, figlia di Gherardo di Giovanni dello Spera, sorella di Lucia moglie del Landini. Era rimasto vedovo da poco perché la donna era morta lasciando un bambino di un anno e sette mesi, battezzato con il nome di Giusto. Antonio e la famiglia erano eredi, in nome del piccino, del resto della dote e di un lascito 25 lire della vedova di Giovanni dello Spera, Margherita Mannucci.
La seconda moglie di Lotto era la quarantenne Diana, figlia di Ottaviano di Bocchino Belforti (sorella di Selvaggia Cimini), già sposata in prime nozze a Gherardo dello Spera (e dunque madre di Lucia e di Albiera) e in seconde a Lorenzo Cicini. Quest’ultimo aveva avuto da un precedente matrimonio i figli Giusto e Paolo, che al tempo del catasto, avevano un frantoio a Montebradoni in comune proprio con Giusto Landini.
Invece la famiglia ‘belfortesca’ dello Spera aveva rinunciato ad avere qualsiasi parte attiva nella politica e nell’economia cittadine e sembrava vivere dei bei ricordi del passato. La frequente ripetizione nel catasto sui beni che erano degli eredi del maestro Giovanni († 1420), trascurando di ricordarne il nome, fa capire l’importanza in città del vecchio medico, suocero di una Belforti, sopravvissuto ai figli, e deluso di avere delle nipoti femmine, alcune dal fisico infelice: Lucia (moglie del Landini), Arcangela, ghuasta della persona e atratta, entrambe di 25 anni, Betta zenbuta (gobba) e nana di 16, e Albiera, la più giovane, moglie di Antonio Lottini, deceduta dopo la maternità.
Per questa ragione il maestro aveva nominato erede universale lo spedale di S. Maria e disposto vitto, vestito, casa per tutta la vita a Betta e Arcangela, salvo che si facessero monache, e la dote alle altre. Non aveva però previsto la crisi, la ribellione e le conseguenze per le nipoti, incapaci di difendersi o di trattare affari (le due sorelle nubili dichiaravano rassegnate che devono rischuotere circha l. 300 sechondo certi libri … abbiamo poche speranze e si mettono perduti).
Per contro gli obblighi delle due sorelle erano pesanti. Dovevano pagare il resto della dote (132 lire) ai Lottini, eredi di Albiera e i lasciti testamentari della nonna Margherita (50 lire per ciascuna nipote, 80 lire al prete ser Benedetto Mannucci, 40 lire a Maria Paganellini e 40 lire a Conte di Puccione, un Mannucci immiserito). Le loro rendite derivavano da alcuni poderi, dalla conceria del nonno a Fontenuova, e dall’affitto della bottega di spezieria sotto la casa. Lucia, come abbiamo visto, viveva con le sorelle, aspettando la restituzione della dote dai Landini … o di risposarsi15.
Una terza famiglia ‘belfortesca’ importante nelle vicende del tempo fu quella dei Gherardi, che dimoravano nelle case oggi dette Palazzo Guidi, e che furono legati dall’amicizia e dagli affari al maestro Giovanni dello Spera. Tali relazioni sono documentate indirettamente dal catasto quando ricorda l’abitazione di Betta e Arcangela vicina ad un casalino di Francesco di Gherardo55 e soprattutto dall’onomastica e dalle parentele comuni. Il fratello di Francesco si chiamava Niccolaio44, un suo figlio, Giovanni; il figlio prediletto del maestro Giovanni aveva avuto nome Gherardo, mentre la moglie di Niccolaio era la diciannovenne Albiera di Nanni di Taviano Belforti. I Gherardi erano conciatori come lo era stato il dello Spera.
La famiglia possedeva diverse terre nel contado, bufali, pecore, altri animali e … cinque mule per loro chavalchare stimate ben 220 lire. Teneva una bottega con scarpette e mercanzia varia per un valore di 1346 lire e spiccioli e dichiarava numerosi crediti da calzolai, bastieri, mercanti di vacche, da gente del contado volterrano e fiorentino, dalla dogana del sale e dalla moia (salina) di Buriano. Ma anche i debiti erano rilevanti: dovevano più di 6000 lire ai Fei (anch’essi conciatori), e altre somme notevoli a famiglie pisane, fiorentine, di Piombino, dell’Isola d’Elba, di Massa, ai Comuni di Libbiano, Montegemoli, Querceto, alla Compagnia dei Battuti del Duomo (nella cui sede era sepolto Giovanni dello Spera) e all’Opera del Duomo per l’affitto della conceria. Insomma i Gherardi avevano sì un bel giro d’affari, ma attraversavano anche una forte crisi finanziaria che ricadeva su molti soci e creditori16.
Anche i Fei appartennero alla consorteria belfortesca. Michele di Salvestro aveva sposato Antonia, la sorella di Giovanni dello Spera ed era stato uno dei più abili e ricchi uomini d’affari della città, sopravvissuto ai figli fin quasi al tempo del catasto.
I suoi eredi erano i tre nipoti bambini nati dal figlio Bartolomeo e il quarto, Cristiano, dell’altro figlio Iacopo. Vivevano con la vedova di Bartolomeo, Masina di ser Antonio Contugi e dichiaravano una conceria a Vallebuona, due fornaci di laterizi, un commercio di vetriolo (importante per la tintura della pelle e della lana) assieme ai Guaschi, e una società di spezieria con Riccobaldo di ser Biagio.
Avevano anche alcuni poderi di valore (come quello di Buriano in comune con Iacopo Incontri) e molti crediti tra i quali quello enorme di 6290 lire, da riscuotere dai Gherardi (deono dare in 4 anni chominciando a chalendi di giennaio passato 1429, dando ogni anno il 1/4), e un altro dal Comune, di 1890 lire.
Insomma, i beni e il giro d’affari erano così grandi, che gli ufficiali del catasto si fidarono poco circa l’esatto ammontare della dichiarazione. Così si accordarono con Mercatante, uno dei manovaldi, per le eventuali rettifiche sull’ammontare dei crediti, da notificare a chi di dovere, entro 15 giorni e sotto la consueta pena …
Infine nella fazione dei belforteschi è da ricordare l’erede più significativa dei Belforti, forse la più odiata dalla fazione avversa (vedi Ercolano Contugi): Selvaggia vedova Cimini (Ximenes), figlia di Ottaviano di Bocchino, abitante in contrada di S. Angelo con i figli minorenni (uno le era morto), in miseria, e piena di debiti verso i lanaioli e altri (sono fanciulli poveri, dichiarava un fornaio). Viveva della rendita di un podere a Casale non diviso con il figlio emancipato Attaviano, dell’affitto di un obitoro (abituro) sotto la casa e dichiarava un credito per il lascito di un’altra Selvaggia, la Buonaguidi, nonna di Giusto Landini.
Anche la cognata Fiammetta, la quarantenne vedova di Nanni Belforti, madre di quattro figli, faceva vita povera come Selvaggia. La sua casa era ipotecata a Giovanni Gaetani di Pisa che, con il fratello Benedetto – erano i figli – eredi di messer Piero – possedeva pascoli e terre a Cedderi (Cedri) e a Calaceticco in Vald’Era, vicini a quelli dei Contugi. Giovanni era proprietario anche della quarta parte non divisa con il Comune di Volterra dei boschi e della corte di Agnano: se ne trae legna per la città. Ciò vuoI dire che se i pubblici uffici o i cittadini alimentavano le caldaie per le concerie, i focolari o altro, era dovuto in parte questa famiglia di Pisa.
Gaetano di messer Bartolomeo Gaetani invece si era imparentato, tramite la figlia Guiduccia, con il merciaio Tommaso Buonamici che doveva riscuotere ancora 372 lire e spiccioli della dote della moglie17.
Da queste relazioni si può capire come la grave crisi economica nella quale si trovarono la città, i Gherardi e in generale la fazione belfortesca, incidesse molto sulle vicende della ribellione, che, sperando di porvi rimedio, volle ridefinire i rapporti di potere interni al Comune e verso l’esterno. Giusto Landini tuttavia ebbe il torto di considerare poco l’evoluzione della politica in Toscana e di soprastimare le parentele della sua famiglia e le possibilità degli (ambigui) aderenti alla sua fazione. Le nobili ascendenze e la floridezza economica, i traffici di Giovanni dello Spera e di Michele Fei, come tante altre cose, appartenevano ad un’epoca perduta per sempre, idealizzata nei ricordi e nei rimpianti delle vedove o degli eredi dei grandi vecchi del passato. Inoltre, dato che dall’inizio del secolo la politica toscana aveva mutato rotta e la crisi era generale, avrebbe dovuto lucidamente calcolare se davvero la città lontana dall’Arno, dal mare e dalle grandi vie di comunicazione, potesse permettersi una costosa guerra, un’espansione commerciale o una dura trattativa con i Comuni meno isolati e più organizzati.
Tuttavia il prestigio e la risolutezza del Landini erano grandi e l’uomo era sorretto dalla popolazione scontenta. Ma era solo e la gloria del passato e le illusioni sul futuro non costituivano difesa o oggetto di scambio. Per questo venne ucciso il 7 novembre 1429 e dopo l’occupazione della città, i volterrani si sottomisero ai fiorentini con realismo. Si rassegnarono anche ad essere accatastati. Scrisse Piero Verani agli ufficiali: più o meno chome a voi piace; e il bottaio Piero di Giunta: per ubbidire.18