Forse non è esatto, che i grandi avvenimenti lascino ricordi più nitidi. Direi anzi che l’emozione di quella domenica, nove di luglio del 1944 fu così intensa da impedire anche alle menti più ordinate di conservare una giusta sequenza degli episodi, cronologicamente disposti. Come un accavallarsi d immagini ma questo, fu prima, o fu dopo? o insieme? o non è affatto accaduto?

Non c’è riuscito neppure il Canonico Cavallini, il più attento registratore dei fatti, e per quanto ripetutamente io abbia scorso il suo prezioso «Diario», e giunto al fatidico nove di luglio abbia letto e riletto le due scarne pagine che ne costituiscono la chiusura, ho dovuto ammettere l’impossibilità di ricostruire al completo quell’arco di ventiquattr’ore, breve, se si vuole, nel tempo, ma per noi importante come e forse più della chiusura d’un evo di storia.

> Sommario, La seconda guerra mondiale nel volterrano

E il ricordo degli altri, di quelli che c’erano?

Peggio che andar di notte e senza lume.

Come detto in precedenza il servizio di Ordine Pubblico, con sede nei locali lasciati liberi dal Comando della Milizia, in Piazza, sopra la Cassa di Risparmio, aveva iniziato la sua attività fin dal mattino, sia pure con un po’ di confusione, ma aveva iniziato.

Contemporaneamente il C.L.N. si insediava in Comune nelle persone di Amedeo Meini, sindaco in luogo di Giulio Topi, inizialmente prescelto, ma impossibilitato a raggiungere Volterra perché trattenuto a Siena; Umberto Borgna, vice-sindaco e incaricato dei lavori pubblici, Mario Bartaloni; Giuseppe Bruci; Mario Giustarini; Giulio Nannini; Giulio Topi; Aldo Tozzi.

Che cosa avvenisse nell’ambito del Palazzo dei Priori, non saprei davvero, ché di confusione ne avevo abbastanza intorno a me, su al Comando, ma al primo momento di relativa calma, potranno essere state le nove, forse le dieci, mi nacque il sospetto che nessuno si fosse preoccupato di stabilire contatti con gli Alleati e di riferire in qualche modo quale fosse la reale situazione di Volterra, nei confronti dello stato di guerra.

Fu così che affidato per il momento ogni incarico ai miei aiutanti, discesi nella Piazza, e notato che sulla Torre non sventolava ancora le bandiera tricolore, come convenuto, salii su in Comune.

AI primo piano già si trovava parecchia gente e vi regnava orgasmo e comprensibile disordine. Mi rivolsi ai più vicini e chiesi come mai nessuno si fosse preso l’incarico d’innalzare la bandiera. Mi fu risposto che non era possibile trovarne senza i contrassegni della monarchia e qualcuno già proponeva con calore di sostituirla con una rossa.

L’idea non mi andava, non tanto perché mi pareva inopportuno dare un avvio politico a momenti già difficili per conto loro, quanto perché sapevo che americani e tedeschi, tutt’ora presenti, nutrivano scarsa simpatia per tali manifestazioni di parte.

A dissipare l’imbarazzo comparve quasi subito la ricercata bandiera, scovata non saprei dove, se in qualche ripostiglio del Palazzo o da qualche privato. Qualcuno si mosse per fissarla al parafulmine della Torre ed ora non mi restava che cercare Amedeo.

Aveva scelto ad ufficio la sala dei matrimoni, quella in fondo alla Sala del Consiglio e lì lo trovai, non ricordo se solo o con altri. Mi resi subito conto che neppure lui era immune dall’eccitazione che tutti ci aveva pervaso: impaziente, euforico, riempiva la stanza con la sua voce profonda, accentuando nel parlare quel suo caratteristico difetto di pronuncia. Appariva chiaro che aveva tante cose da dire, tante cose da fare e tutte urgenti, che s’accavallavano l’una sull’altra, non dandogli tempo nemmeno di finire i discorsi.

Quando alla mia domanda, se fosse stato provveduto ad informare della situazione gli Alleati, mi rispose che tanto sarebbe venuto su il Generale, mi resi conto che lui, frastornato da tanti altri problemi, con tutta probabilità non aveva afferrato completamente il senso delle mie parole. Per cui, dopo aver risposto che avrei provveduto io di persona, lo lasciai e me ne tornai su al Comando.

Subito esposi ai presenti la necessità di andare fino a Roncolla, dove erano in sosta le truppe Alleate e chiesi di due disposti ad accompagnarmi. Non fu difficile trovarli, ché anzi, per ovviare all’imbarazzo della scelta ci si dovette accordare su un rappresentante della Marina; e uno deIl’Aviazione.

Qui, per parecchi lustri e per circa un chilometro di spazio m’è rimasto nel capo un vuoto che mai son riuscito a colmare. Mi rivedo in mezzo a quei due, un bel po’ più alti di me; loro col moschetto a spalla, la baionetta inastata e legato un fazzoletto bianco; io con cinturone e pistola. Sopra, una cacciatora di velluto marrone; tutt’e tre con al braccio la fascia tricolore, la mia contrassegnata dalle lettere C. L. N.

Chi fossero quei due era sempre rimasto per me un mistero, quando, pochi mesi fa, sui Ponti, incontrai Arnaldo Giannelli con un signore. Due convenevoli e poi:

– Non si ricorda di me?
– Veramente… non saprei…
– Verzoni… non si ricorda? Che s’andò insieme a Roncolla dagli americani.

Allora, era lui, uno. E qui un mare di ricordi che collimavano e si completavano. Uscì fuori anche il nome dell’altro; ma io scioccamente non presi appunto, fidando nella memoria, e quando ci si lasciò, poiché lui doveva tornare a Livorno, sembrava facile rincontrarsi di nuovo e ricostruire con calma. Invece non è stato così e quando per interposta persona ho chiesto di nuovo il nome dell’altro, gli era sfuggito di mente, né più riusciva a tirarlo fuori.

Però Verzoni l’ho ritrovato nel mio elenco: si chiama Silvano ed il suo tesserino portava il n. 130. Forse era lui il rappresentante della Marina.

Se si fosse passati dai Ponti, si sarebbe dovuto attraversare la frana che le mine tedesche, nella nottata, avevano provocato alla curva, aprendo un canalone dalla Dogana fino alla Porta all’Arco. Fatto sta che ci si trovò ai cavalcavia del trenino, subito sotto San Lazzero. Se s’incontrò qualcuno, non ricordo; macerie di qua e di là, ci si fermò qualche minuto a guardare i fornelli da mina già scavati nelle spalle dei ponti. Li osservavo con occhio, per dir così, professionale, ché me ne intendevo. Erano praticati nel punto giusto, a giusta profondità e contenevano la mina, mi pare di quelle tonde, anticarro. Non saprei dire se collegate al cavetto dell’esploditore, ma sarei per il no. Comunque non erano state fatte brillare e se ne stavano lì inerti, ma pur minacciose.

Poco più giù un’occhiata al podere del Cancelletto, dove pochi giorni prima era stato ammazzato dai tedeschi uno sfollato, ed eccoci alla curva a sinistra, quella che c’è subito dopo il bivio per Papignano. La strada non c’era più, l’avevan minata e l’esplosione aveva aperto una voragine a imbuto, scoscesa e franosa.

Si preferì salire sul ciglio a monte sotto Papignano. Qui, improvviso qualcosa ci tenne fermi: presso un filare di viti, riversi per terra a poca distanza l’uno dall’altro, stavano due soldati tedeschi, morti, i visi tumefatti e bluastri che sotto la sferza del sole già cominciavano a decomporsi. Non mi dette nell’occhio che avessero armi, ma a nessuno di noi sfuggì che fra i due, per terra, si trovava un pane quasi intero, di quelli di loro, di forma rettangolare. E anche un barattolo di vetro, di quelli da conserve casalinghe, più che a metà di un qualcosa di rosso. Per me era marmellata di ciliege: Verzoni, invece sostiene ancora che erano ciliege sotto spirito.

Ma non ci si mise le mani, perché se la fame ci spingeva, il disgusto era troppo forte, e si preferì continuare. Di nuovo sulla strada, si fu a San Martino, per la rapida vittoria che sale in cima, e prima di giungervi, voltando a destra fra le propaggini del boschetto e il campo, s’incontrarono i primi americani.

Quello che mi colpì subito, fu l’assoluta tranquillità di quella gente: non un «altolà» al nostro indirizzo, non una sentinella, niente. Se ne stavano comodi nella rada macchia, quasi a merenda un lunedì di Pasqua, né il nostro apparire sembrava avesse suscitato il minimo interesse. Poi ci venne incontro uno; doveva essere oriundo italiano, forse meridionale, perché fu facile intendersi, poi pigramente qualche altro si alzò in piedi, ci venne attorno. Ci guardavano senza nessuna ostilità né diffidenza e poco dopo si conobbero le prime caramelle col buco, la cioccolata; le prime sigarette americane!

Ma noi si cercava qualche ufficiale del Comando. Lì non ce n’erano. Ci indicarono la villa di Roncolla e dopo aver ringraziato, e detto «okèi» e «gudbài»; le uniche parole che storpiavo in inglese, tagliando attraverso il campo, si scese di nuovo giù nella strada. Nessuno che ci accompagnasse, o che ci sorvegliasse, o che comunque s’occupasse di noi.

Proprio sotto la strada, in un piccolo avvallamento, c’era un altro morto tedesco, mi parve un graduato, supinamente appoggiato all’argine erboso. Accanto aveva ancora il fucile e non potei resistere alla tentazione di prenderlo. Così mentre gli altri due rimanevano sulla strada, scesi giù, lo raccolsi e rapidamente tornai, senza neppur guardare se c’erano cartucce.

Poco dopo, dal cancello spalancato, si fu nel cortile della Villa e ci venne incontro un Ufficiale. Ero poco pratico dei loro distintivi, ma, così ad occhio, non mi parve di grado molto elevato. Parlava francese ed ascoltò senza eccessivo interesse la mia relazione: – Si veniva da Volterra – In Città non c’erano più tedeschi – La nostra organizzazione del C. L. N. provvedeva già all’ordine pubblico – Regnava la calma – Mancavano i viveri – Volentieri si sarebbe accompagnato e fatto da guida alle Autorità militari per le opportune consegne – C’erano anche dei soldati tedeschi che avevano preferito darsi prigionieri.

In piedi, prendeva qualche appunto su un blocchetto di fogli mentre intorno non si vedeva nessuno, quasi che la Villa fosse completamente deserta. Quando ebbe terminato ci disse: – Va bene; i prigionieri portateceli qui. E abbozzato un cenno di saluto sparì in una porta, lasciandoci soli.

Non c’era che ritornare.

Con la scomparsa di quell’Ufficiale, si può dire, la nostra partecipazione diretta alla guerra ebbe fine. Il cannone continuava ancora a rumoreggiare, ma come un temporale che gradatamente si stava allontanando. Lo si udiva ancora in direzione di Villamagna, dove sembrava che i tedeschi opponessero resistenza. Ma più che altro di guadagnare tempo, poiché era evidente la loro impossibilità di arrestare gli Alleati che ora dilagavano e li sospingevano implacabilmente verso la vallata dell’Arno.

La fiumana di potenza bellica di cui disponeva la Quinta Armata, però, lambì soltanto le falde del nostro Poggio, che appariva non più importante di un Isolotto emergente fra i bracci di una piena. Il Maggiore Robinson, inglese, s’insediò Governatore in Comune senza tante cerimonie, e con procedura non diversa la M. P., la polizia militare di occupazione prese stanza nei locali della ex-milizia, già effimera sede del nostro Comando.

Il servizio di Ordine Pubblico, naturalmente passò ad altre mani, quelle del Capitano Farber, né ciò dispiacque troppo ai miei organizzati, liberi fra l’altro di potersi dedicare con maggiore facilità ai personali problemi, primo fra tutti quello di cercar da mangiare. Decadde anche per me ogni mansione a carattere militare: gli Alleati mostrarono subito di poterne fare a meno. Ebbi successivamente numerosi contatti con loro ma di altro genere, né potrei invero lamentare incomprensioni o rifiuti a quanto chiedevo, nel desiderio di essere utile alla rinascita (che proprio di rinascita si poteva parlare) della Città.

Qui può considerarsi conclusa la mia rievocazione e quanto ho esposto ho cercato onestamente fosse il più possibile vicino alla realtà, almeno quella che mi risultava esser tale. Penso non sia dispiaciuta, specialmente a chi quei momenti conobbe più da vicino e mi autorizzano a crederlo scritti e lusinghiere espressioni che mi sono state da più parti indirizzate. E se qualcuno di memoria migliore, o più addentro nelle cose, avrà rilevato inesattezze o lacune, consideri dovere civico pubblicamente rettificare o completare. Personalmente gli sarò grato e sarà un bene per i giovani, per quanti altri verranno dopo di noi.

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© Pro Volterra, LORENZO LORENZINI
“Fine dell’incubo”, in “Volterra”