Gli inquilini di Palazzo Solaini

Queste note mi è venuto l’uzzolo di buttarle giù dopo aver letto il brano del bravo Lorenzini «Palazzo Solaini: buoni e cattivi». Spesso le memorie del passato naufragano dentro di noi (altro che paesaggio lunare dell’Ariosto in cui va a finire, quel che si perde del terrestre mondo). Sembra che su di loro si addensi l’oblio, ma al primo sussulto emotivo, è come se quel fantasmi facciano ressa alla coscienza e chiedano di vivere ancora.

> Leggi, Palazzo Solaini: buoni e cattivi

La rievocazione del Lorenzini mi ha appunto richiamato alla mente tutto quello stuolo di persone che io conobbi nella prima infanzia, ancor prima di quanto lui abbia potuto fare, benché un po’ più provetto negli anni. Infatti mi ricordo, se pur vagamente, del palazzo Solaini non ancora animato della gaia nota di spensieratezza goliardica e sbarazzina che i due fratelli Lorenzini vi portarono. Vedo a ritroso in tempi lontani la sor Elvira consorte del farmacista Fidia Solaini proprietaria e abitante del quartiere poi affittato ai Lorenzini brava a cuocere nel forno della cucina economica biscotti casalinghi e croccanti che poi regalava anche all’Ermellina, zia di mia madre, cosicché anch’io potevo gustarne a sazietà. E prima ancora che nel quartiere più elevato venissero ad abitare i Taddei, ne ricordo molto vagamente i precedenti inquilini i sig. Nannini il cui capofamiglia Angiolino stimato capomastro, aveva in perpetua cura l’edificio stesso di cui rassettava continuamente le fatiscenti membra.

La famiglia che il Lorenzini non ha ben rammentato al primo piano era quella del Forzoni che non conobbi mai, la cui moglie però la sor Emma doveva essere legata ai Solaini da un legame di parentela, forse cugina; non era quello un quartiere molto tranquillo. Sentivo favoleggiare dai grandi di epiche baruffe tra la sor Emma e sua figlia, la povera Enrica, poi andata sposa a un pittore cittadino; il Montorzi i cui due figli, non da molto, sono scomparsi in circostanze tragiche. Poi vennero i Lorenzini, vennero i Taddei. Il Sig. Mario Taddei me lo ricordo spesso seduto sui due gradini del portone del palazzo col suo cappello a larga tesa e così pure rivedo la sor Emma sua moglie. A Orano, il figlio minore, io spesso davo fastidio per le scale invitando la lepre a correre, per giocare un po’.

Ma i Lorenzini, una volta insediati insieme ai numerosi gatti, furono quelli che animarono di più il severo edificio. A quei tempi Renzo e Pupi erano studenti di ginnasio o poco più, se ben rammento. La loro casa l’epicentro della gioventù scapigliata d’allora che vi faceva di tutto: dalle sedute spiritiche, al laboratorio d’Archimede, ai ritrovi, si sussurrava, un tantino galanti con le primizie del gentil sesso. La povera sor Aida, tra noi più spesso chiamata la maestra Verdiani, si strappava i capelli con quei rompicolli, si spassionava con la povera Ermellina che la tranquillizzava con le sue boutades popolane e faceva un po’ la missionaria con i coinquilini, cercando di catechizzare gli impenitenti. Fu anche mia maestra, mi presentò all’esame di ammissione alla seconda elementare, e organizzò la mia cresima nella cappella vescovile.

Ricordo il grande piano a coda nel salotto della buona maestra, sempre strimpellato dai due figli esagitati, i colori, il cavalletto e i bei quadri, da me ammirati che la signora continuamente dipingeva.

Sempre allo stesso piano dei Lorenzini abitavano, prima che vi prendessero stanza i Cappellini, i Tangassi; tutti figure quanto mai caratteristiche. La sor Antonietta, una donnina riccioluta. piccina piccina, ma tutta pepe, il sig. Lodovico capostazione pensionato e un figlio Gigi che, con indiscussa perseveranza, trasbordava, sotto il cappotto rigonfio, l’eterno fiasco di vino ed era per il resto un buon diavolo. C’era poi sua sorella la sor Ida, cugina e compagna inseparabile della signorina Bianca Dolfi. Tutte e due allevatrici di gatti che, come fregi decorativi, troneggiavano spesso sui cornicioni della chiostra. I signori Tangassi avevano nominanza, perché da una condizione più che agiata erano decaduti in una certa precarietà; si vociferava a causa della loro golosa intemperanza che subito si tradiva col profumo di qualche arrostino prelibato, allorché qualche saltuaria occasione offriva loro il destro di soddisfare il loro hobby gastronomico. Ma i gatti del palazzo erano favolosi; ne sbucavano da tutti i meandri più oscuri: neri, soriani, tigrati, bianchi; tanti non ne ebbe mai la cucina del castello di Fratta. Quando davano la stura alle loro serenate, le scale e i saloni divenivano una cassa… disarmonica di ronfi, gnauIii, risse feline e amori al chiaro di luna che filtrava dagli sconnessi ed ampi finestroni. Ricordo le ire di Don Dolfi che minacciava spesso di scaricare contro i perturbatori della quiete le carabine delle sue panoplie. Altri personaggi si potrebbero ancora ricordare: il maestro Dolfi noto a tanti scolari d’allora e che mi preparò all’esame di ammissione al Ginnasio di quei tempi.

C’era poi l’avvocato Solaini che viveva con la sua Perpetua, l’Ermellina mia parente. Era figura caratteristica della Volterra di quaranta anni fa. Laureato in legge, aveva dimostrato la più sovrana noncuranza per il lavorìo di alabastro messo su dal nonno Comingio e continuato dal padre Ottavio. Ma neppure il codice di Giustiniano l’aveva forse troppo appagato e la sua passione si era rivolta alla storia di Volterra antica e alle lettere in genere. Sembra che, da giovane, avesse lasciato sperare di far molto nel campo della ricerca storica locale. Aveva scritto la nota guida della città di Volterra, edita dall’ed. Vanzi per i tipi Carnieri nel 1927. Aveva intrapreso studi sugli statuti medievali del Comune di Volterra e altri lavori; aveva tradotto un libro dal tedesco sull’amministrazione pubblica romana e l’organizzazione dei domini romani di Joachin Marquard nel 1887; insomma c’era stato un momento che la sua figura era abbastanza nota in Volterra, tanto che fu chiamato a dirigere il locale Museo Etrusco Guarnacci. Aveva partecipato un poco alla vita politica della città, figurando, mi pare, nelle liste liberali. Ma in seguito un complesso di fattori psicologici come la solitudine che gravava su di lui privo di una famiglia propria, la tendenza ad adagiarsi in una routine di vita, direi puramente edonistica, l’avevano spinto a rallentare la sua attività e a vivere di ricordi in quell’ala forse la più fredda del Palazzo Solaini, il cui unico vantaggio era di potersi sbafare il palio di Vallebuona, quando c’era, talvolta anche graditi e allegri ospiti i fratelli Lorenzini e compagni.

Questo quartiere era per allora il mio mondo di favola: vi erravo come «Alice nel Paese delle Meraviglie». Se si pensa che fino al 1936 lì non vi fu impianto alcuno di luce elettrica, si spiega come vi passassi deliberatamente il maggior tempo della mia fanciullezza in cerca di qualcosa che mi attraeva. Errare al buio per quegli stanzoni, per quei corridoi nell’alone tremulo di un lume a petrolio o dietro alla fiammella fumosa di una bugia, era per me come perdermi in un mondo di favola.

L’avvocato e la zia Ermellina facevano parte di questo scenario e stavano al gioco: la zia con i suoi racconti ispirati a fiabe, novelle, cronache di briganti, come il Moriani, forse sentite narrare nel tempo che era stata donna di fattoria a Serra dai Conti Guidi di Firenze, l’avvocato con le sue continue letture di Dante che conosceva in gran parte a memoria, con la sua piccola e ingiallita «Divina Commedia», sempre aperta su uno dei cassettoni del suo camerone. Molto spesso leggeva e rileggeva il «Sommario della Storia d’Italia» di Cesare Balbo. Qualche volta canterellava brani di opere liriche, perché era molto intonato, aveva qualche dimestichezza col flauto, ed era stato indomito ballerino.

lo le mie prime letture le feci sui romanzi storici del Guerrazzi, del Grossi e del D’Azeglio. Roba oggi da far inorridire. Una mano, anzi due, il Solaini me le dava nei miei doveri scolastici. Allora non ero forse e non fui mai un capolavoro di continuità nello studio; studiavo a stratte, per saltuaria passione e del resto il Solaini non mi dette mai il consiglio di farmi insegnante e in ciò riconosco la prova della sua saggezza istintiva. Il periodo del Liceo fu quando approfittai dì più del suo aiuto. Egli aveva prestato la suo opero al tempo del Liceo che gli Scolopi di San Michele avevano gestito, come insegnante di Italiano, ed era in grado di aiutarmi abbastanza. Lo rivedo adagiato nella suo poltrona, con un monumentale scaldino di zinco tra le ginocchia e magari la lunga pipa tra i denti, mentre mi coadiuvava nei miei compiti scolastici

Il Lorenzini dice che era fascista tetragono, ma insieme gli attribuisce un Fascismo di sognatore. In parte credo che così fosse ma il fatto, secondo me, aveva anche un’altra dimensione. Il suo senso patriottico ottocentesco, la limitatezza della sua esperienza politica diretta, sebbene fosse un lettore accanito e nottambulo di ogni giornale alle Civiche Stanze, gli facevano apprezzare l’ordine, l’assetto legalitario; era profondamente scettico su ogni messaggio messianico e rivoluzionario.

Aveva visto la crisi e il caos dell’Italia post-bellica, dopo il 1918, già avanzato in età, aveva quindi optato, credo per stanchezza, per l’apparente tranquillità imposta dal Fascismo che lusingava il suo amor di patria.

Non era poi il solo e si potrebbero citare ben altri e grandi intellettuali che abboccarono alla stessa esca, alcuni forse per lo stesso disincantato pessimismo come Pirandello ad esempio. Però era un fascista tutto ideale; non lo vidi mai mescolato ai gerarchetti e ai gatti stivalati locali, ma piuttosto, in qualche momento di euforia, fantasticava sul Cinquecento dieci e cinque di dantesca memoria. Aveva un concetto della vita aperto e leale e disinteressato. Ogni volta che, in qualche modo, aveva prestato la sua opera, si faceva vanto di non aver preteso alcuna mercede; ricordo le sue ire, ad alcuni incomprensibili, quando una persona, per ricompensarlo di una felice raccomandazione, avrebbe voluto offrirgli non so che.

Si arrabbiava anche con coloro che insieme al Fascismo denigravano l’Italia; sarà stato provincialismo, ma era sincero. Poi il precipitare della seconda guerra mondiale, le vicende di questa, prima speranzose, quindi sempre più problematiche, a me che lo osservavo, sembravano progressivamente fargli temere l’ultimo crollo delle sue illusioni relative al Fascismo. Ascoltava la radio per sentire quello che succedeva nel mondo, come lui diceva e, sempre di più, non riusciva a nascondere la sua perplessità.

Si costatò poi che la radio non l’aveva comprata per una ragione che fu chiara a posteriori, avendo lasciato tali risparmi equivalenti a poche giornate di lavoro di un attuale medio statale. Prima però aveva dato tutto tutto alle sue opinioni: gli oggetti di rame della famiglia, i rottami di ferro, i pochi fiaschi d’olio del suo poderetto, la fede no perché era celibe e forse preferì portarla con sé. Morì una notte di Febbraio del 1943 e, proprio in quella notte, se non erro, nella casa contigua del bravo Lorenzini, nasceva il suo secondo figlio a significare il perenne fluire e rinnovarsi del flusso della vita. Col suo legato della propria parte del palazzo al capo del Governo, si rendeva possibile l’attuale, se pur lenta redenzione di questo gioiello artistico. Fu bene forse così perché spesso gli eventi ci sorpassano troppo ed è bene sparire in tempo.

Di un altro personaggio che abitò nel palazzo Solaini parla l’amico Renzo; del Canonico Dolfi. Anch’io fui tra gli ospiti bene accetti delle sue serate o veglie, che dir si voglia, e ricordo bene due sedi successive in cui avevano luogo i serali raduni. In un primo tempo in un salone tra quelli poi adibiti a biblioteca comunale; in un secondo tempo nella grande sala restaurata che si apriva sul salone al primo piano. Mi sovviene dell’allegro fuoco del caminetto, dei cialdoni di fine anno o del Carnevale, confezionati sulla complice fiamma, del cicaleggio degli ospiti che erano quasi tutti quelli che il Lorenzini rammenta, salvo qualche omissione. Vidi e parlai col Canonico Dolfi che stimavo appunto per il suo fare un po’ sbrigativo di prete-uomo, un’ultima volta, quando mi era giunto l’ordine di presentarmi al servizio della repubblica sociale. Ebbi con lui quell’ultimo colloquio per uno scambio d’idee che fu quello che fu. Ma neppure in un tale momento egli venne meno a quella sua leale e paterna franchezza. Poco dopo io, temporaneamente, scomparivo e Don Dolfi seguiva il suo destino, compiutosi nell’infausto ritorno a Volterra e nel suo successivo decesso, tant’è vero che ogni rivolgimento violento vuole bene o male le sue vittime, giuste o sbagliate che siano. Io son sempre rimasto col segreto rimorso di non essermi più presentato a lui quando fu prossimo a lasciare il mondo; temetti che, inasprito dalla sventura, non mi avrebbe ben visto. Oggi anch’io, come il Lorenzini assolvo un mio nascosto rammarico.

Ho scritto queste righe, non perché volessi far meglio o ripetere quanto già detto dall’ottimo Renzo, ma spinto da uno spontaneo impulso.

Tanto più che altre volte mi era venuta la tentazione di rievocare qualche memoria del genere. In realtà mi son sempre schermito di parlare di persone e a me note e tanto più quanto a me più vicine.

Credo per il segreto pudore di riportare cose a pochi interessanti. E per il dubbio di non aver conosciuto bene quegli uomini e di non aver diritto a disturbarne il ricordo. Perché l’idea che altri si fa di noi e che ci appiccicano è spesso un’alienazione. Comunque è tempo di licenziare questa misera chiacchierata per quel che vale.

L’unica cosa che non condivido dello scritto del caro Renzo è il titolo; nella mia ingenuità non ho mai avvertito nell’atmosfera di Palazzo Solaini, almeno in quella lontana prospettiva, la divisione manichea tra buoni e cattivi. Posso aver sbagliato; del resto anch’io, allora, mi trovavo nel Limbo!

© Pro Volterra, MINO DEL COLOMBO
Gli inquilini di Palazzo Solaini, in “Volterra”