La grande guerra e il San Girolamo

Tra il 1916 e il 1918, il numero dei ricoverati presso il frenocomio di San Girolamo subì un’autentica impennata1: a determinarla furono gli oltre 500 soldati che, tra i tantissimi impazziti sul fronte, vennero smistasti e indirizzati presso l’istituto volterrano. La direzione medica, ancora una volta, si attivò con successo per accaparrarsi porzioni significative di questo nuovo mercato che la guerra aveva messo in moto.

La recente storiografia ha illuminato sia gli aspetti psichiatrici sia quelli organizzativi di questo importante fenomeno relativo al primo conflitto mondiale2. Sappiamo infatti che l’emergenza fece sì che nei dintorni del fronte fossero edificati dei padiglioni simili a quelli dei manicomi: edifici spesso ad un piano, con all’interno aree destinate alle camere di isolamento. In talune zone di guerra si giunse alla creazione di veri e propri piccoli villaggi psichiatrici: delimitati da filo spinato e reti metalliche, chiusi da sbarre d’acciaio, spesso vicini a presidi di polizia militare, essi costituivano una tradizionale area protetta – fuori dalla vista degli altri soldati – al cui interno non mancavano corpetti di forza e bende di contenzione3. Ben presto, però, ci si rese conto dell’inadeguatezza del servizio psichiatrico da campo: divenne chiaro che tutti i manicomi avrebbero dovuto fare la propria parte in seno alla mobilitazione totale. Tra la fine del 1915 e l’inizio del 1916 furono infatti velocemente aperti, nonostante la precaria situazione economica, nuovi padiglioni e apposite sezioni speciali per “pazzi militari” all’interno dei maggiori manicomi pubblici italiani, riuscendo così a fronteggiare il progressivo aumento del numero dei ricoverati4. L’intero processo causò comunque la congestione dei manicomi civili, delle cliniche e dei reparti psichiatrici di osservazione: l’affollamento di tutti gli istituti e le difficoltà delle diagnosi preoccupavano le autorità, interessate essenzialmente ad una rapida ed energica terapia capace di rendere nuovamente abili i soldati per farli ritornare al fronte. Degenza breve, pratiche legali rapide, terapia solerte erano gli obiettivi (non raggiunti) che resero del tutto inefficace il servizio5.

L’applicazione di elettricità rappresentò la terapia più diffusa per classi di soldati che manifestavano forme patologiche anche molto diverse. D’altra parte il mancato rapporto tra diagnosi e terapia non era una novità nella pratica terapeutica psichiatrica, né un’urgenza dettata dalle emergenze della guerra. Si trattava in genere dell’applicazione di scosse elettriche, con un aumento progressivo di intensità alternata ai tradizionali comandi militari, noto come metodo Kaufman6. Il fine di queste pratiche così brutali era anche quello di rendere il trattamento terapeutico peggiore della partecipazione alla guerra in modo tale da snidare i simulatori, autentica ossessione nel corso del conflitto.

A parte l’aumento, dopo Caporetto, del numero delle strutture assistenziali poste dietro la linea del fronte, la vera novità fu, proprio nel gennaio del 1918, l’istituzione a Reggio Emilia del Centro di Prima Raccolta, che comprendeva circa 800 posti divisi tra l’ospedale di riserva della città, l’antico Collegio civico, un locale del seminario estivo di Albinea e Villa Corbelli7.

Si intensificò, inoltre, la stretta repressiva (maggiori controlli disciplinari, minori licenze) che portò ovviamente ad un aumento del numero dei malati; dato che acquistò presto tutti i connotati di un crollo generale degli uomini al fronte.

Nonostante lo scopo principale del Centro di Prima Raccolta fosse più l’osservazione e la formulazione delle diagnosi che non la messa in opera delle pratiche terapeutiche, si riprese l’antica tradizione del locale manicomio di limitare l’uso dei mezzi di contenzione e di praticare forme limitate di ergoterapia8. Il vero obiettivo del Centro era comunque quello di contenere l’esodo dei soldati dal fronte; qui, infatti, i soldati furono sottoposti a severa osservazione e, dopo la formulazione di una diagnosi, dichiarati abili e rispediti al fronte oppure riformati c trasferiti in altri istituti.

In ogni caso, il regolamento militare prescriveva l’invio dei soldati riconosciuti malati di mente presso il manicomio di riferimento della propria provincia d’origine. Iniziava così “un processo a scendere accompagnato spesso da una frettolosa quanto inumana scrematura dei presunti simulatori?”, che non fu, però un processo né rapido, né automatico. È possibile, al contrario, parlare di lunghe odissee: i soldati prima di raggiungere il manicomio più vicino all’area di origine erano infatti spesso rimbalzati da un ospedale militare ad uno psichiatrico o viceversa, senza escludere percorsi più farraginosi.

Ad assumere la responsabilità del Centro fu Placido Consiglio, psichiatra militare che aveva già promosso, tra il 1906 ed il 1911, un servizio medico-psichiatrico capillarmente diffuso all’interno dell’esercito, servizio che avrebbe dovuto accuratamente vagliare le reclute e individuare gli inabili. Consiglio, inoltre, era già stato, come ho ampiamente ricordato, responsabile durante la guerra italo-turca di un ospedale da campo a Tripoli nel quale aveva lavorato anche il direttore Luigi Scabia9.

Il manicomio di Volterra si inserì in questo nuovo circuito, accogliendo molti soldati provenienti dal Centro di Prima Raccolta, dove spesso erano stati già riformati e sostavano in attesa di altre destinazioni. La direzione medica del San Girolamo aveva infatti stipulato diverse convenzioni con ospedali militari, manicomi ed amministrazioni provinciali interessati a trovare nuovi sbocchi per i “propri” soldati ammalati.10 Moltissime furono infatti le richieste di trasferimento di pazienti da parte di altri istituti: tra il 1916 e il 1917 furono avanzate diverse domande in questo senso dal manicomio di Colorno, presso Parma, da Vicenza, da Verona e così via11. La nomina, peraltro, del direttore Scabia a responsabile degli ospedali militari di Pisa (era anche direttore dell’ospedale cittadino di Santa Chiara) – compreso l’ospedale per prigionieri di guerra sistemato presso l’ex Certosa di Calci – facilitò certamente i trasferimenti. Il San Girolamo cominciò così ad espletare una febbrile attività già a partire dal 1915; attività che toccherà il suo apice tra il 1916 ed il 1917 per finire l’anno successivo in una autentica congestione causata dal sovraffollamento delle strutture volterrane. L’affollamento fu così grave che alcune richieste di ospitalità, segnatamente quella di Verona del 1917, dovranno essere respinte dallo stesso Scabia.

Nel complesso il frenocomio rappresentò un luogo di transito per i militari il cui ricovero a Volterra fu in genere assai breve (in media 7-8 mesi; per alcuni addirittura di poche settimane quando non addirittura di qualche giorno). Questo spiega anche la particolare approssimazione con cui vennero redatte le relative cartelle cliniche: vi si trovano, infatti, essenzialmente delle notizie sintetiche che riassumono le note dei precedenti ricoveri. I medici si limitavano a registrare la situazione dei pazienti al loro arrivo con una speciale attenzione alla ricerca di eredità morbose, di tare fisiche e di deficienze organiche che giustificassero l’insorgenza dei sintomi. La guerra è quasi ignorata nei racconti, succinti, di malattia e, in ogni caso, quasi si negava la causalità nell’insorgere delle sindromi psichiche coerentemente con quanto la letteratura psichiatrica aveva ipotizzato. Nonostante l’eccezionalità del momento, non venne meno – anzi appare del tutto rinnovato – il tradizionale ruolo delle famiglie volto ad abbreviare le pratiche di trasferimento per ottenere il ricovero del congiunto in un istituto loro più prossimo. Svelano la profondità dei legami familiari lettere come quella di un fratello di un soldato, che, dopo la richiesta di notizie generiche, reclama il trasferimento «perché è vivissimo desiderio mio e di un’altra sorella minorenne ch’egli ritorni in famiglia per le migliori cure»12.

Tra le tantissime, sorprende, per la pluralità dei codici adottati, la lettera del padre di un altro soldato imputato di diserzione. Il padre tenta, sia pur senza esito, la mediazione con l’autorità cittadine, poi esprime un punto di vista dissonante rispetto al figlio che gli chiede di scrivergli (ma al quale risponde con un sconfortante e apocalittico «che posso farti?»), poi ancora, adottando un altro registro, chiude la lettera con qualche scontato spiraglio di speranza.

Con le sue parole:

Caro Figlio,
mi consolo sentirti bene in salute, lo stesso ti assicuro di noi tutti. Riguardo al fatto che volevi essere mandato giù da cueste parti, sono andato a parlare col Sindaco e mi ha risposto che non può fare niente ne lui ne nessuno.

[…] Caro figlio sono dolente saperti senza un soldo, io la settimana entrante ti manderei cinque lire che più non posso. Caro figlio tu mi dici di scriverti più spesso, quando tu mi scrivi io ti rispondo che posso farti? Poi io sto soggetto a chi mi scrive e tu lo sai che io non so scrivere.

Ti raccomando a stare tranquillo e fare il soldato in santa pace che speriamo questa benedetta guerra finisca subbito così vi ritirate alla vostra casa […]13

Gli stessi ricoverati furono, come sempre, autori di una scrittura che gronda di esperienze di violenza, richieste formali di libertà, intensi codici affettivi. Un ricoverato che evidentemente è entrato in conflitto con il direttore Scabia, si rivolge direttamente al presidente della Congregazione Dello Sbarba e in una lettera, datata 24 dicembre del 1917, significativamente avanza richieste diverse:

A Lei che in molte occasioni ha dimostrato per me interessamento supcriore ai miei meriti, rivolgo in quest’ora decisiva della mia vita una calda preghiera e nutro fiducia che ancora una volta ella vorrà interporrc la sua grande autorità per cui io possa conseguire ciò che le verrò esponendo: sono stato riformato dal servizio militare; attualmente mi trovo internato qui nel manicomio ma è necessario che io esca perché dall’epoca della mia riforma (20 sett. scorso) la mia famiglia non ritirerà più il sussidio governativo. Fino ad oggi ho accettato che la mia famiglia venisse soccorsa dai sacrifici riuniti di mia madre e di mia sorella e degli altri dei miei che qualcosa potevano dare, ma oggi che la guerra va avanti ancora senza neppure una lontana speranza di vederla terminare, non posso più a lungo permettere questo stato di cose ed è mio dovere cercare una soluzione, che mi permette di assicurare la vita dei quattro miei bambini e della moglie.

Potrei farmi dimettere da qui e tornare al mio lavoro e questa sarcbbe la soluzione più semplice e adatta, ma disgraziatamente varie circostanze, qualcuna delle quali io credo gravi, mi consigliano a non sollecitare questa mia dimissione. Ella meglio di me sa i tempi che corrono: una volta a casa io non mi sento sicuro di potervi restare a lungo specialmente per l’opera di persone che per invidia o per essere pagate fanno la spia e tali persone oggi purtroppo pullulano. E siccome troppo ho sofferto nel tempo della mia vita militare, non mi sento assolutamente la forza di ricominciare. Su di un temperamento come il mio non può passare senza lasciarvi traccia profonda questa tragedia senza confini. Io ho visto rovinare intorno a me tutto quel poco che insieme alla mia famiglia ero riuscito a edificare, ho visto l’umanità correre alla disastrosa follia un giorno più dell’altro; sono stato strappato alle mie creature che hanno assolutamente bisogno di me e gettato nell’ignoto pauroso insieme a migliaia di vittime e mai ci si è fatto balenare un barlume di speranza. Ed allora dal troppo soffrire non so più quel che io abbia fatto. Certo non nego di avere esagerato il mio male, ma ciò fu nei giorni seguenti all’inizio e ciò per ottenere il più possibile. Questo è vero, ma ciò che mi fa ancora dolore è il sapere che il signor Direttore ha espresso in più occasioni la sua convinzione che io abbia voluto prendere in giro la società e la scienza dei medici, mentre da me fu ed è ben lontana tale idea, anzi ho sempre reso reverente omaggio alla scienza del sig. Direttore in specie, sia in pubblica che in privata occasione. È appunto il rimprovero che il sig. Direttore fece al dott. Landucci alle civiche stanze per avermi inviato quaggiù dicendo che non avevo niente che mi dà molto a temere, perché tali parole furono udite e in seguito anche a me riferite. Ora lei conosce bene come è Volterra e può comprendere che i miei timori non sono infondati. Così che, mi trovo in una situazione terribile: ho bisogno di tornare al lavoro e non posso. Sento anche oggi come dieci mesi or sono le stesse sofferenze e ho le stesse idee. Piuttosto che affrontare di nuovo quella vita mi sopprimerò insieme alle mie creature perché sento assolutamente che mi sarebbe impossibile allontanarmi dalla mia casa. Con certezza commetterei qualche atto di violenza contro chi si presenta per impormi tale cosa. Ma voglio lottare fino all’ultimo, voglio lottare non fosse altro per sottrarre al Manicomio o a sorte peggiore una mia bambina di sette anni che la sorte ha creato quasi infelice, ma che spero a costo di cure di ogni giorno e di ogni ora di salvare. Non voglio che cada in mano ad estranei: so purtroppo cosa vuol dire ciò! E se in ultimo soccomberò, allora eseguirò il mio proposito. E lo farò! Ma vi è una via di mezzo ed è tale proposito che levo verso di lei il grido di salvezza. Ecco di che si tratta!

Da circa quattro mesi sto lavorando insieme ad un operaio della Congregazione di carità per costruire le finestre in tufo della cucina nuova del manicomio. Il mio mestiere è affine al mio antico talché ho fatto in questo tempo prendere una certa pratica di tale lavoro e senza tema di esagerare posso disimpegnarmi discretamente. Tal cosa può provare l’operaio suddetto, in ogni modo sono pronto a dare anche una prova di ciò che posso fare! La volontà di lavorare non mi manca, anzi non chiedo di meglio e considerato che per condurre a termine tale lavoro qualche altro operaio occorre, credo che sarebbe possibile senza dimettermi concedermi una piccola ricompensa che mi consentisse senza tanto aggravare i miei assicurare almeno il pane ai figli. Ella vede che io chiedo solo di essere aiutato a superare questa crisi in modo onesto e conveniente, dato anche la tenuità di ciò che io domanderei. In tal modo si potrebbe anche fare di me un uomo utile a qual cosa; in contrario sento che con i miei mezzi non potrò mai e poi mai rientrare nel turbine della vita attuale! Onorevole! Ella può concorrere ad una opera buona e utile. […] spero che vorrà aiutarmi per i miei bambini. Questa mia è per lei in via confidenziale; come vede le ho detto senza veli tutto di me. Presso il Direttore può se vuole cercare di togliere quella specie di ostilità che verso di me per la ragione che le ho detto sopra […] Mi sono rivolto al suo buon cuore e ho fiducia che per quanto sta in lei i miei voti si compiranno. Obbligatissimo G. S. 14

Come molti altri luoghi, il manicomio si sforzò, nei primi anni del conflitto, di mantenere gli stessi standard di gestione: la documentazione relativa al 1915-1916 registra il regolare acquisto di materie prime; si avanzano progetti per costruire nuovi padiglioni e per ultimare gli ultimi edificati; si registrano gli avvenuti compensi ai ricoverati per i lavori svolti a testimonianza di una continuità nel governo consuetudinario dell’istituto15, ma ben presto l’istituto dovette fronteggiare una serie di emergenze: innanzi tutto molti degli 86 infermieri (maschi) in organico furono richiamati sotto le armi e dunque si ricorse alle assunzioni di avventizi. Tra il personale medico, invece, oltre al Direttore Scabia, erano in organico due medici primari e tre assistenti dei quali solo uno, Antonio Natoli, fu richiamato. In questo contesto, il corso di insegnamento per gli infermieri, raccomandato dalle precedenti commissioni di vigilanza, sarà avviato con buon esito, ma le difficoltà create dalla guerra impedirono al personale di poter sostenere gli esami; successivamente esso sarà infatti del tutto sospeso16.

Una seconda emergenza è rappresentata dagli spazi: l’intera cittadina fu coinvolta dalle conseguenze dell’arrivo dei nuovi ricoverati. Con qualche soddisfazione, Luigi Scabia ha potuto scrivere:

Ottenni anche le scuole comunali dove collocai le alienate croniche e potei così ospitare nel Manicomio fino a Mille alienati di guerra17.

I nuovi ricoverati occuparono inoltre i tradizionali spazi pubblici della cittadina: l’amministrazione degli asili infantili nel giugno del 1916 deliberò la cessione temporanea alla Congrcgazione dei propri locali per accogliervi i malati provenienti dal manicomio di Vicenza, sgombrato a causa della guerra, dietro pagamento di un canone. Lo stesso accadde ai locali della scuola elementare di San Lino18.

L’emergenza più temibile fu rappresentata dalla diffusione all’interno dell’ospedale di un’epidemia di paratifo, infezione confermata dal sottoprefetto nel dicembre del 1916. Probabilmente taciuta da parte di Scabia per evitare allarmi eccessivi, l’epidemia sembra superata nel giugno del 1917, ma costituì fonte di preoccupazione da più parti: l’avvocato Antonio Lattes (per l’amministrazione provinciale di Livorno) si rammarica «in via amichevole e riservata» con Scabia per il «completo silenzio» tenuto dalla Direzione medica; la deputazione provinciale di Livorno, nel marzo del 1917, alla notizia dell’epidemia invia due medici, all’uopo delegati, per una visita dei mentecatti appartenenti alla propria provincia; la stampa, ed in particolare il «Corazziere», interviene sul tema sollecitando un’ispezione che vedrà anche la presenza del noto igienista romano Cavina, oltre a medici locali e al presidente della Congregazione Dello Sbarba19. Naturalmente si procede al controllo dell’acqua; i risultati delle analisi confermano l’infezione e le autorità provvederanno all’apposito siero. Scabia esplicitamente nel dicembre del 1916 parla di epidemia dissenterica portata dagli infermi militari provenienti dalle zone di guerra; nel frattempo la sottoprefettura tranquillizza e contiene l’allarme scrivendo che si trattava di «semplice forma dissenterica assai comune in soggetti predisposti come gli alienati», e che pertanto ha potuto assumere «un’estensione ed intensità che non si sarebbero verificate in individui normali». Una predisposizione davvero straripante quindi, è il caso di chiosare. Il prefetto, invece, rimprovera il personale medico ed in particolare il medico direttore per il silenzio. La querelle è chiusa nell’agosto del 1917 da una strenua difesa di Scabia firmata dal presidente della Congregazione in cui si ricorda che il Direttore

pur ricoprendo un incarico assai importante presso l’Ospedale Santa Chiara in Pisa, esplicò sempre nella direzione di questo Manicomio lode e così continua e molteplice attività che […] può dirsi addirittura fantastica, dacché non conobbe orari mai, e si sostituì a tutti i servizi mancanti e passò gran parte delle proprie notti in vigilanza intelligente ed efficace dell’Istituto.

Il documento si conclude con la prevedibile richiesta di altro personale medico che però nell’immediato non viene accolta20. Per Scabia seguirà un’altra emergenza da affrontare: un’epidemia di vaiolo scoppiata nel 1918 a Lègoli, nei pressi di Palaja, per la quale il prefetto lo incarica di organizzare le apposite misure sanitarie.

Il frenocomio di Volterra visse un’altra grande emergenza legata all’evento bellico: quella dei profughi. In questo contesto si affermò, infatti, un’attenzione per i bambini deficienti, orfani di guerra e profughi, che porterà successivamente alla fondazione di specifiche sezioni per i minori all’interno del San Girolamo. Nel dicembre del 1917 la Congregazione di Carità mise a disposizione un piccolo padiglione per accogliere il primo nucleo di bambini deficienti orfani di guerra. Questa sezione, sia pur nata sulla spinta di una emergenza, rappresenterà una sorta di primo nucleo di un futuro reparto sottoposto agli stessi statuti del San Girolamo, ma differente per il metodo di cura: ai ragazzi sarà infatti riservato un progetto di ortofrenia organizzato da medici psicologi e da maestri, mentre «le attitudini di questi bambini saranno utilizzate anche nei nostri opifici e nei lavori di campagna nelle colonie agricole». Sorto con circa venti presenze, il presidente Dello Sbarba ha in progetto di costruire due padiglioni in due mesi, come richiesto dalla prefettura di Pisa. Nell’immediato, però, s’impone la disponibilità di un reparto separato per il quale si organizza la colonia di Pruneto; dal 1920 sarà, invece, adibita ad asilo per deficienti Villa Giardino, già presa in affitto dal febbraio del 1916 per ricoverare i soldati in esubero dalle strutture del fronte, ossia segnatamente per i degenti inviati dalle autorità militari dalla provincia di Udine e da altre aree limitrofe21.

Anche per ultimare questa «costruzione di grandissima necessità», destinata per l’appunto ad accogliere gli orfani di guerra, dal gennaio del 1917 vennero accolti presso il manicomio un certo numero di prigionieri di guerra. In realtà la pratica era già stata avviata l’anno precedente e regolata da una normale scrittura tra la Congregazione ed il Ministero della Guerra: il frenocomio necessitava di manodopera specializzata per l’esecuzione di «lavori di pubblica beneficenza» e pertanto si fece ricorso a prigionieri di guerra per impiegarli come falegnami, fabbri, calzolai, muratori. Ciascuna categoria ricevette un salario concordato e fu regolarmente guidata e vigilata. Nel marzo del 1917 giunsero, inoltre, 30 prigionieri per l’impiego nei lavori agricoli, 15 per la costruzione dell’acquedotto all’interno del frenocomio e 10 muratori per il completamento dell’Istituto di Santa Chiara destinato a ricovero di mendicità. Nel settembre del 1919, quando è certa la notizia del rimpatrio di tutti i prigionieri di guerra che il Ministero aveva accordato per l’esecuzione dei suddetti lavori, il manicomio chiese alla Divisione militare di Livorno ancora nuove forze sostitutive22.

Oltre ai prigionieri, l’ospedale di Volterra aveva impiegato anche alcuni profughi provenienti dalle aree del fronte23. Attraverso l’amministrazione del frenocomio vennero assegnati, inoltre, anche i sussidi, stanziati dall’alto patronato dei profughi, per i familiari dei militari dementi appartenenti alle terre invase.24

La gestione dell’alto numero di militari ricoverati presso il manicomio volterrano fece lievitare, ovviamente, l’approccio burocratico nella gestione degli internamenti che ho già evidenziato come tratto squisitamente novecentesco della gestione degli internamenti. In questo frangente, e per questa specifica tipologia di ricoverati, ovviamente la logica dello smistamento di classi di soggetti omogenei, tra rimpatri, trasferimenti e licenze, fu fermamente perseguita25. Anzi questa ebbe un’accelerazione nuova: nel corso dell’ultimo anno di guerra, dal momento che il frenocomio raggiunse la congestione, le procedure burocratiche divennero sempre più sbrigative.

Non è irrilevante notare, tuttavia, come la responsabilità e la scelta di riformare, trasferire, concedere le licenze di convalescenza ricadessero prevalentemente sulla direzione dell’ospedale militare che lasciava quindi in secondo piano il ruolo – nonché le valutazioni – degli psichiatri del manicomio. Oltre al Centro di Prima Raccolta furono gli ospedali militari a decidere se riformare i soggetti alienati o concedere loro delle convalescenze: in sostanza i soldati ricoverati restavano sottoposti alle autorità militari secondo gli appositi regolamenti, nonostante la loro temporanea collocazione presso i civili manicomi, Nel caso di molti ricoverati a Volterra, fu molto spesso l’ospedale militare di Livorno a decidere sulle licenze e sulle riforme, decisione successivamente accolta dalla direzione medica che esplicitamente annotava: «è stata accordata una licenza di convalescenza con deliberazione della direzione militare di Livorno»26

Qui si dispiega un evidente paradosso: se per un verso, gli interrogativi mossi dai traumi dei soldati al fronte coinvolse pienamente l’autorità scientifica della corporazione psichiatrica, conferendole rinnovata autorevolezza e un nuovo ruolo sociale, per un altro quest’ultima fu immediatamente relegato in secondo piano. La gestione dei pazienti, infatti, non solo rimase nelle mani dell’organizzazione militare, ma nei numerosissimi processi giudiziari che si susseguirono (soprattutto per diserzione, indisciplina, autolesionismo, resa, sbandamento). In magistratura militare fece scarso ricorso alle perizie mediche e quando vi ricorse non le prese in grande considerazione. La giustizia militare mostrava, in questi frangenti, il volto più duro e – come ha efficacemente sottolineato Bruna Bianchi – per disertori e indisciplinati, la perizia si configurava come una lungaggine in contrasto con la celerità e l’esemplarità delle punizioni richieste dall’autorità giudiziaria27.

1 Le presenze balzano, infatti, nel biennio indicato da 1.125 a 1.866: cfr. tabella delle presenze, infra.
2 Non è possibile stabilire con precisione il numero dei soldati ricoverati durante il periodo bellico nei reparti psichiatrici, ma è attendibile la cifra che si aggira sulle 40.000 unità: cfr. Bruna Bianchi, Il trauma della modernità. Le nevrosi di guerra nella storiografia contemporanea, in Andrea Scarrabellati, Dalle trincee al manicomio. Esperienza bellica e destino di matti e psichiatri nella Grande guerra, Marco Valeria, Torino 2008, p. 14.
3 Cfr. Silvia Manente-Andrea Scartabellati, Gli psichiatri alla guerra. Organizzazione militare e servizio bellico (1911-1919), in A. Scartabellati, Dalle trincee al manicomio, cfr., in particolare pp. 106-107.
4 Va ricordato che nel giugno del 1916 Augusto Tamburini, nominato generale medico assimilato e consulente psichiatra del ministero della Guerra, aveva proposto per ogni armata uno psichiatra incaricato di dirigere reparti speciali per far fronte a patologie nervose facilmente guaribili: cfr. Valeria P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, il Mulino, Bologna 2009, p. 52. Lo stesso Tamburini ne scrive in L’organizzazione del servizio neuro-psicbiatrico di guerra nel nostro Esercito, in «Rivista sperimentale di psichiatria», XLII (1916), pp. 178-192.
5 Cfr. Angelo Alberti, I servizi psichiatrici di guerra, in «Rivista ospedaliera. Giornale di Medicina e Chirurgia», VII (1917), n. 9, pp. 233-239.
6 Sulla diffusione del trattamento elettrico per questa ripologia di malati cfr. le celebri pagine di Sigmund Freud in Gutachten ùber die elektrische Behandlung der Kriegsneurotiker, 1920 testo non pubblicato dall’autore (trad, it. del dattiloscritto di Ada Cinato in Promemoria sul trattamento elettrica dei neurotia di guerra, in Opere (1977·23), vol. IX, Boringhieri, Torino 1990, pp. 171·175). Cfr. anche F. Rousseau, Électrothérapic des néuroses de guerre durant la premièrc guerre mondiale, in «Guerres mondiales et conflits contemporaines», (1997), n. 185, pp. 13·27. Sul metodo Kaufman, cfr. B. Bianchi, Prcdisposizione, commozione o emozione’ Natura e terapia delle neuropsicosi di guerra (1975-7918), in «Movimento operaio e socialista», VI (1983), n. 3, in particolare p. 391.
7 Cfr. Francesco Paolella, Un laboratorio di medicina politica. Placido Consiglio e il Centro psichiatrico militare di prima raccolta, in Mirco Carrattieri-Alberto Ferraboschi (a cura di), Piccola patria, grande guerra. La prima guerra mondiale a Reggio Emilia, CLUEB, Bologna 2008, pp. J 87 ·204. Cfr. anche Emilio Riva, Il centro psichiatrico di 1° raccolta in «Rivista sperimentale di freniatria», XLIII (1919), pp. 308-324.
8 Cfr. F. Paolclla, Un laboratorio di medicina politica, cit.
9 Cfr. Lisa Roscioni-Luca Des Dorides, Il manicomio e la grande guerra, in L’Ospedale S. Maria della Pietà di Roma. L’ospedale psicbiatrico di Roma. Dal manicomio provinciale alla chiusura, vol.III, Dedalo, Bari 2003, p.140.
10 Cfr. infra, cap. III
11 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 58, fase. Rimpatri e trasferimenti mentecatti
12 ASOPVo, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, P.P. ammesso il 21 Luglio 1917 e dimesso il 30 dicembre 1917.
13 ASOPVo, Archivio sanitario, Cartelle cliniche, S.U. ammesso il 10 novembre 1917 e dimesso il 5 dicembre 1917.
14 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 49, fasc. Corrispondenza varia.
15 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 55, fasc. Compensi ai ricoverati per lavoro.
16 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 97 (2), fasc. Relazioni della Commissione di Vigilanza. Relazione della visita compiuta al Manicomio di S. Girolamo in Volterra dalla commissione provinciale di vigilanza (6-9 novembre 1915), pp. 1-2. La commissione è composta dal vice prefetto, dal medico provinciale, dal titolare della cattedra di psichiatria dell’Università di Pisa e da un suo assistente.
17 Dattiloscritto inedito a S.E. il prefetto della provincia di Pisa, conservato presso l’archivio privato della famiglia Scabia, p. 11.
18 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 64, fasc. Pratiche con gli asili infantili e Comune di Volterra. Curia vescovile ed altri per ottenere dei locali da servire ad accoglimento degli alienati della provincia di Vicenza.
19 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 55, fasc. Infezione di paratifo al manicomio.
20 Lettera di Arnaldo Dello Sbarba de 12 agosto 1917, in ivi.
21 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 64, fase. Proposte per l’istituzione nel frenocomio di una sezione pcr l’educazione di orfani di guerra e profugbi minorenni deficienti. Documento della Congregazione di Carità dell’8 dicembre 1917.
22 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 58, fasc. Pratiche coll’autorità politica e militare per l’impiego dei prigionieri di guerra nei lavori del frenocomio di San Girolamo.
23 Nel dicembre del 1915 vengono impiegati nelle officine dell’istituto dieci lavoratori maschi provenienti dalle province di Udine, Trieste e Treviso: cfr. Archivio amministrativo, b. 49, fase. Assunzione di profughi quali operai presso il frenocomio.
24 Il provvedimento è stato disposto dal Ministero della Guerra con circolare del 14 febbraio 1918 n. 6363, cfr. ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 55, fasc. Sussidio mensile di L. 10 ai militari degenti negli stabilimenti sanitari e le cui famiglie rimaste nel territorio invaso.
25 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 49, fasc. Trasferimenti e rimpatri mentecatti. Trasferte a soldati dimessi e b. 58, fasc. Rimpatri e trasferimenti mentecatti.
26 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 49, fase. Riforma e licenze di convalescenza dei militari.
27 B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’escrcito italiano (1975-1918), Bulzoni, Roma 2001, in particolare pp. 159 e ss.