Le Origini del Frenocomio di Volterra

Nel 1888 quattro donne, tutte provenienti dal manicomio di Siena, con il loro ingresso nei locali dell’ex convento San Girolamo inaugurarono quello che qualche decennio dopo sarebbe diventato il frenocomio di Volterra. L’anno successivo furono tredici uomini, sempre provenienti dal manicomio senese, che con altre ventidue donne costituirono il primo nucleo di insediamento di dementi dell’istituto. Per quasi tutti questi ospiti, la reclusione si concluderà con la morte, che non tarderà ad arrivare, trattandosi di soggetti le cui condizioni generali si intuisce essere già fortemente compromesse al momento del trasferimento presso lo stabilimento volterrano.


LA FONDAZIONE DELL’ASILO DEI DEMENTI

La storia è però più antica e si può far risalire almeno al 5 gennaio del 1875 quando l’amministrazione comunale di Volterra, nella persona del sindaco Mario Ricciarelli, cedette al Consorzio Agrario prima e alla Congregazione di Carità dopo, il locale del fabbricato dell’ex convento di San Girolamo, che vi istituì un primo ricovero di mendicità2. Nel 1879, poi, la Congregazione di Carità inglobò anche il più antico ricovero degli Abbandonati in vista dell’istituendo ospizio di mendicità, includendo, come consuetudine, gli ospiti al tempo presenti3.

Il fondo finanziario originario era costituito da un legato di Giuseppe Niccolò Viti e da una somma raccolta molti anni prima per erigere nella cittadina toscana un monumento a Pio IX, che era stato studente presso il locale collegio di San Michele. In una fase successiva, questi stessi fondi raccolti sarebbero stati devoluti, con il placet del Papa, per la costruzione dell’ospizio4.

Nel corso degli anni seguenti, in vista dell’apertura dell’ospizio di mendicità «dovuto alla beneficenza di uomini caritatevoli e di imperatura memoria», l’elenco delle donazioni si accrebbe notevolmente, includendo voci persino minute come «letti, materassi» et similia. L’ospizio di mendicità fu quindi inaugurato nel gennaio del 1884 e retto giuridicamente dalla Congregazione di Carità.

Le finanze dell’ospizio continuarono ad essere sostenute sempre con forme varie di beneficenza privata: singoli individui che in occasione di matrimoni, morti, natalità donavano un’offerta, somme elargite da banche, raccolte di beneficenza come quella organizzata nel 1886 dalla Filodrammatica dei concordi nel teatro locale. In quell’occasione, tra gli altri, Eugenio Lazzerotti, segretario della “Società-Ricreazione Operaia di Volterra” scrisse che:

Lunedì dopo Pasqua ricorrendo il secondo anniversario della fondazione di questa società, mi pregio significarle che, venne deliberato ad unanimità d’inviare numero dieci fiaschi di vino all’Ospizio di mendicità; perciò si compiaccia la S. V. Illustrissima di distribuirlo in quel giorno ai poveri ivi ricoverati5.

Un biglietto del 1892 scritto da un cittadino volterrano illumina ulteriormente la tipologia di legati che nel tempo contribuirono a sostenere l’istituzione di beneficenza, che peraltro nel 1890 era stata ovviamente sottoposta alla legge varata dal governo Crispi sulle Opere Pie6:

[…] su incarico di mio fratello Luigi rimetto qui accluse lire italiane duegentocinquanta di cui esso ha disposto a benefizio di codesta pia congregazione nella circostanza del suo matrimonio con la nubile Virginia […].

Altri privati seguirono lo stesso esempio, magari in occasione del proprio genetliaco7.

L’incertezza circa il futuro dell’istituzione rimase comunque nettamente dominante ancora sul finire del secolo XIX: il dibattito verteva circa la necessità, in effetti perseguita, di separare l’amministrazione della piccola sezione dei “dementi innocui” da quella del ricovero di mendicità al quale era stata aggregata8; restava, invece, del tutto incerto il progetto di realizzare un nuovo manicomio.

Quest’ultima possibilità era indissolubilmente legata alle scelte politiche operate dall’Amministrazione provinciale di Pisa, che non aveva un proprio manicomio, ma che in seguito all’applicazione della legge comunale e provinciale del 1865 doveva ovviamente provvedere al «mantenimento dei mentecatti poveri». È, infatti, proprio negli ultimi decenni del XIX secolo che si assiste in Italia a spinte diverse: molte province, proprio in virtù della legge del 1865, misero in cantiere la costruzione di nuovi stabilimenti; altre si impegnarono per riformare la normativa del 1865 tentando di spostare sui Comuni e sullo Stato l’onere della gestione dei malati di mente9.

La città di Pisa aveva alle spalle un percorso non particolarmente originale: il Regolamento dell’Ospedale di Santa Chiara, approvato con Motuproprio granducale del 1784, accennava all’esistenza di un «luogo appartato», adibito al ricovero dei «deliranti e idrofobi». Riguardo al «trattamento» previsto per questo tipo di ammalati, il regolamento si limitava a segnalare le misure di sicurezza adottate per renderli innocui agli altri ricoverati; misure che consistevano soprattutto nel tenerli legati e controllare il possibile disturbo che avrebbero potuto arrecare10. È inoltre plausibile che la permanenza in ospedale fosse limitata alla sola osservazione, dal momento che un decreto granducale del 1774 aveva stabilito che i maniaci toscani sarebbero stati ospitati presso l’Ospedale fiorentino di Santa Dorotea, casa de’ pazzerelli fondata nel 1643 da alcuni religiosi11. Dopo la fondazione dell’ospedale fiorentino Bonifazio, nel 1778, i malati di mente continuarono naturalmente ad essere ricoverati nel capoluogo toscano.

Nella seconda metà dell’800 erano però intervenuti dei fatti nuovi: la struttura fiorentina era significativamente sovraffollata ed erano esplosi importanti contrasti tra Francesco Bini, direttore del Bonifazio, e l’amministrazione provinciale fiorentina; con temporaneamente Carlo Livi, in qualità di direttore, aveva dato un grande impulso al manicomio San Niccolò di Siena. I malati provenienti dal territorio pisano, come quelli provenienti dalle province di Livorno ed Arezzo, saranno così destinati all’internamento presso l’istituto senese.

Rimaneva, naturalmente, un problema ineludibile per la provincia pisana: quello di trovare una soluzione autonoma, ossia una struttura adeguata e idonea all’accoglimento dei malati di mente, posta nel proprio territorio. I costi non certo vantaggiosi che la provincia pisana pagava, in osservanza della convenzione stipulata con il manicomio senese, spingevano verso questa soluzione. Si profilarono, quindi, oltre a quella volterrana, altre due alternative: la prima consisteva nell’adattare a manicomio l’ex-Certosa di Calci, confiscata dallo Stato nel 1866 in seguito alle leggi di soppressione degli enti ecclesiastici; la seconda prevedeva una soluzione più prossima al centro urbano e faceva intravedere la possibilità di una costruzione ex-novo o di un recupero di un ex-convento. Su quest’ultima ipotesi si espressero favorevolmente alcuni docenti dell’Università di Pisa: tra questi spicca il nome di Beniamino Sadun, docente di medicina legale e, dal 1864, responsabile delle «stanze di osservazione» istituite presso l’ospedale di Santa Chiara. Queste ultime, espressione di un avvio del processo di medicalizzazione della follia, volevano costituire un luogo di filtro o di accertamento della reale esistenza della malattia mentale ed accoglievano, infatti, i pazienti per una durata temporale molto limitata (circa quindici giorni, cioè il tempo considerato necessario per la formulazione di una diagnosi). Tali ricoveri, con le osservazioni e le cure relative, cercavano di contenere le manifestazioni più acute della malattia per poi proporre le dimissioni o l’ingresso al manicomio. Si trattava di un filtro certo non banale – previsto in tutto il moderno sistema manicomiale12 – che a Pisa riguardava un centinaio di malati per ogni anno, tra i quali circa un terzo veniva poi inviato al manicomio13. Beniamino Sadun, che nell’anno accademico 1887-88, ottenne l’istituzione sempre presso l’Università di Pisa della Clinica Freniatrica, fu, in tutta la complessa vicenda, una figura di rilievo in quanto si configurò come il più strenuo avversario della soluzione volterrana: ne contestava la fattibilità del progetto, nutriva incertezze sulle garanzie date, reputava il luogo non idoneo perché difficilmente raggiungibile. Egli era fautore, viceversa, di un’istituzione vicina al capoluogo, che fosse dunque più prossima al centro universitario, già sede per l’appunto degli studi freniatrici14. Sadun aveva peraltro denunciato con toni severi la totale mancanza di mezzi e il disinteresse mostrato dalle autorità accademiche nei confronti della psichiatria, così come aveva denunciato il fatto che le «stanze di osservazione», i cui costi ricadevano sul bilancio dell’amministrazione provinciale, oltre ad avere una ricettività piuttosto limitata, «da 35 anni sono da tutti ritenute come pessime e vergognose»15.

In ambito universitario, l’eventualità di giungere ad una nuova soluzione vicina al capoluogo pisano era già stata prospettata, nel 1868, da Giuseppe Neri, in occasione della prolusione al corso di clinica delle malattie mentali tenuto presso l’ateneo pisano. Giuseppe Neri, allievo di Francesco Bini a Firenze, era stato direttore del manicomio lucchese della Fregionaia e forse (circostanza però da lui stesso smentita) interessato a candidarsi alla direzione del costituendo ospedale pisano16. Lo stesso Neri si oppose alla soluzione prospettata dall’amministrazione di Pisa della Certosa di Calci, propendendo per una soluzione urbana (sostanzialmente per riadattare un ex-convento cittadino a manicomio).

L’opposizione di Sadun e Neri alla soluzione volterrana aveva implicazioni di un qualche rilievo: si contrapponevano infatti due diverse concezioni della malattia e del suo governo. Le loro posizioni si inserivano, infatti, nella volontà di un certo filone della psichiatria del tempo di definire uno studio della malattia mentale fuori dai ristretti confini dello spazio manicomiale. La stessa gestione delle stanze di osservazione – ha scritto acutamente Giovanna Tanti – rivelava «il difficile e tormentato cammino della nascita di una scienza psichiatrica distinta e separata dallo spazio manicorniale»17. Attorno all’accertamento della malattia, alla sua prova, si delinea un interesse proprio dei clinici della nascente psichiatria «che tenta di ricavare un suo spazio autonomo di ricerca e di diagnosi all’interno degli ospedali civili»18, ma che soprattutto immagina un nuovo equilibrio tra manicomio e clinica ospedaliera19.

Le posizioni di Neri e Sadun, in ogni caso, non indugiavano affatto sui benefici che potevano derivare dallo stare in luoghi aperti e «dall’aria salubre», né, aspetto forse più importante, credevano minimamente nella terapia del lavoro, che già si profilava come connaturale allo spazio volterrano. Credevano, viceversa, in una soluzione clinica, nella quale la medicalizzazione si estrinsecasse nell’osservazione e nella sperimentazione; delineavano uno spazio più organico tra quello clinico e quello dello stabilimento manicomiale dove, ovviamente, quest’ultimo fosse ancillare al primo.

Giuseppe Neri, fautore dei manicomi urbani, smentiva l’adagio secondo cui l’aria campestre potesse giovare alla salute mentale e ironizzava persino sulla retorica circa i benefici che i malati avrebbero potuto trarre dallo stare all’aria aperta; con le sue parole:

Vi fu un tempo nel quale si credeva, e forse da taluno vi crede tuttora, che un ameno fabbricato provvisto di orti, di un boschetto, di un giardino, di una fontana e di campi destinati ai lavori bastassero senz’altro alla guarigione degli alienati20.

Molto prosaicamente affermava che i lavori agricoli, da molti lodati, incontravano la ferma resistenza di molti alienati che sistematicamente si rifiutavano di eseguirli: i maniaci furiosi, ad esempio, non sono adatti, mentre molti monomaniaci e i lipemaniaci generalmente non vogliono lavorare; viceversa, lavorano gli imbecilli, gli idioti e i dementi che però curabili non sono. Si delinea pertanto un paradosso: la terapia potrebbe essere applicata solo a pochi malati e, tra questi, proprio a coloro che non potranno guarire mai. Le sue conclusioni erano apodittiche:

[…] non vi sarà mai dato di rinvenire chi si diverta a maneggiare la zappa e la vanga21.

Nel corso della sua esperienza di direttore del manicomio di Lucca – racconta sempre Giuseppe Neri – si vide costretto a togliere dai lavori agricoli i ricoverati a causa dell’alto numero di fughe, senza perciò far crollare la percentuale dei guariti. Favorevole ad un modello asilare fondato sul mero internamento, egli si pose invece un problema di prima grandezza emerso proprio nella cultura ottocentesca: il punto non è far risiedere il malato in un luogo ameno, ma dar conto della sua assenza di libertà22; come è possibile – infatti – in riferimento alla malattia mentale, legittimare la privazione di questo bene? L’analisi non procede, ma, si intuisce, che l’assenza di ragione giustifica la completa presa in carico dei soggetti da parte delle pubbliche istituzioni.

La sua visione alternativa al modello aperto che sembra profilarsi nella soluzione volterrana si estrinseca anche in un’apologia del manicomio cittadino; questo favorirebbe le visite dei parenti.

Perocché sia fuori di dubbio che molti di questi disgraziati restano distratti e provano vero sollievo e conforto sfogandosi coi loro congiunti, i quali naturalmente si sforzano di persuaderli e consolarli, È in tali visite che il medico resta istruito sulle sofferenze del malato, sulle cagioni della malattia […]23.

Ed ancora:

Ai malati non giova la monotonia della campagna, per la cura morale «occorrono sensazioni forti, insolite, variate, commoventi. Una festa sacra o profana, la rappresentazione di una commedia, di un’opera di musica, di un ballo, una rivista militare e simili, sono distrazioni utilissime che non possono ritrovarsi in campagna24.

Emerge quindi una visione del manicomio che ha abbandonato la centralità dell’isolamento per i malati come mezzo terapeutico – e con essa anche il pur minimo spazio dato ai colloqui con i pazienti – per assestarsi su un progetto di gestione della follia più clinico e medicalizzato. La priorità spetta infatti all’osservazione e alla specializzazione psichiatrica: a tale fine urge un manicomio «vicino casa» senza perdite di tempo in visite e trasferimenti; in sostanza:

[ … ] ciò che deve fermare l’attenzione di ognuno è il vantaggio che il Manicomio di Pisa apporterebbe ai bisogni dell’Università, specialmente pel concetto di ottenere il compimento degli studi medici, alla pari delle altre Università italiane25.

Per il completamento degli studi e per l’insegnamento medico – si aggiunge esplicitamente – mancavano persino i cadaveri, a cui il vicino manicomio avrebbe provveduto.

Sulla base di questi indirizzi, incentrati sull’idea che si dovrebbero studiare le psicopatie alla stregua delle altre malattie e sull’aspirazione al raggiungimento di un giudizio scientifico certo e definitivo sulle malattie, Neri auspicava un manicomio per Pisa capace di accogliere almeno duecento pazienti26. Raccoglie inoltre, a suo sostegno, anche il consenso del direttore del manicomio romano del tempo, il prof. Giuseppe Girolami, di cui viene ricordata anche la sua vasta conoscenza diretta di vari manicomi italiani ed europei27.

Giuseppe Neri si trasferirà a Perugia e rimarrà pertanto escluso dagli sviluppi del successivo dibattito sul manicomio pisano.

Intanto il progetto volterrano proseguiva: nel 1887 il nuovo presidente della Congregazione di Carità, Aurelio Caioli, si era mostrato favorevole ad accogliere i primi dementi a carico della Provincia di Pisa e nel 1888 il prefetto Sensales, attraverso la mediazione del conte Guido Guidi di Volterra, avviò con la Congregazione stessa le trattative per il ricovero dei malati cronici28. In seguito, la Congregazione di Carità si dimostrò sempre favorevole a fare dell’istituto volterrano un moderno manicomio e a siglare nuove convenzioni con la Provincia di Pisa, così come con le altre.

Il progetto di stabilire a Volterra il manicomio continuava, però, a suscitare non poche opposizioni e qualche polemica in ambito pisano. Nell’aprile del 1890 il Consiglio provinciale prendeva in esame il progetto dell’architetto Calderini, per il quale era prevista una spesa di quasi due milioni di lire: il nuovo edificio sarebbe stato collocato nell’area settentrionale della città e prevedeva una struttura a padiglioni in grado di ospitare circa 400 malati. Il progetto, caldeggiato in un primo momento dal prefetto Sensales, sarebbe stato, però, subito dopo abbandonato a causa dei costi alquanto esosi.

In questo contesto tornò nuovamente in auge la proposta della Certosa di Calci, caldeggiata dal consigliere provinciale Toscanelli, poi incaricato di preparare un progetto per l’adattamento della Certosa stessa a manicomio29.

Periodicamente la soluzione calcesana sarebbe tornata attuale, nonostante i pareri negativi legati agli alti costi dell’intera operazione, all’inadeguatezza degli spazi e alla vicinanza dal mare che avrebbe potuto recare gravi danni a soggetti sofferenti di malattie nervose; gli sviluppi dell’istituto volterrano faranno definitivamente tramontare quest’ipotesi.

Sotto il profilo istituzionale, la definizione formale di manicomio fu, infine, fortemente voluta dall’amministrazione provinciale di Pisa; il successo della soluzione volterrana si deve infine essenzialmente all’impegno profuso dal deputato conte Guido Guidi, autore di un progetto specifico presentato al presidente della Congregazione di Carità, Aurelio Caioli. L’Ente provinciale doveva raggiungere un obiettivo preciso: trovare una collocazione per i malati di mente del suo territorio e ridurre, al tempo stesso, i costi di mantenimento per gli stessi mentecatti poveri. La soluzione senese era, come ho già anticipato, alquanto costosa dal momento che la retta giornaliera era pari ad una lira e mezzo; l’accordo siglato con la Congregazione volterrana fissava invece ad una lira il costo giornaliero per ogni internato.

© Edizioni ETS, VINZIA FIORINO
Le Officine della Follia, Il frenocomio di Volterra (1888-1978) Cap. I Le Origini, Ed. Edizioni ETS, 2011, pp 304
FONTI
1 Archivio storico dell’ospedale psichiatrico di Volterra (d’ora in poi ASOPVo), Archivio amministrativo, Registro delle ammissioni. Uomini (relativo al periodo 1889- 1923) e Donne (relativo al periodo 1888-1925).
2 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. l, fase. Cessione e concessione dell’amministrazione de! fondo del culto del fabbricato ex convento di San Girolamo… Atto del 5 gennaio 1875. L’ex convento di San Girolamo a sua volta era venuto meno in seguito alla legge di soppressione degli Ordini e delle Corporazioni religiose del 1866 e quindi concesso al Comune.
3 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 5, fasc. Ricovero di mendicità. Note sul lavoro e dei servizi fatti dai ricoverati.
4 Silvano Bertini, Luigi Scabia e l’ospedale psichiatrico di Volterra, in «Volterra», III (1964), n. 9, pp. 12-15.
5 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 5, fasc. Ricovero di Mendicità.
6 Al riguardo cfr. Franco Della Peruta, Sanità pubblica e legislazione sanitaria dall’Unità a Crispi, in «Studi Storici», XXI (1980), n. 4, pp. 713-759.
7 ASOPVo, Archivio amministrativo, b. 5, fasc. Ricovero di Mendicità.
8 Nel 1897, quando gli internati erano settantacinque, il ricovero di mendicità venne trasferito in un altro edificio per consentire l’allargamento della sezione dei malati di mente, che diveniva così ufficialmente l’«asilo dementi» con gestione autonoma da parte della Congregazione: cfr. Fabio Stok, Luigi Scabia e l’Ospedale psichiatrico di Volterra, num. monografico di «Neopsichiatria», I (1983), n. 4, p. 30.
9 Per un quadro generale dell’enorme sviluppo delle istituzioni manicorniali effettuatosi sul finire dell’Ottocento rinvio a Filippo M. Ferro, Note per uua stona dei manicomi in ltalia, in «Giornale storico di psicologia dinamica», (1978), n. 4, pp. 161-176.
10 Vittorio Biotti, Alle origini della psichiatria italiana. Procedure e dispositivi di istituzionalizzazione in territorio pisano, 1838-1842, in Strutture sanitarie a Pisa. Contributi alla storia della città secc. XIIl-XIX, Comune di Pisa – Assessorato alla cultura, Pisa 1986, p. 235. Lo studio analizza anche le procedure di ricovero che prevedevano vari soggetti protagonisti: in primo luogo la famiglia, quindi le autorità di governo e del giusdicente (ossia il Giudice Direttore degli Atti criminali), i medici fiscali o i medici curanti sulla base di testimonianze prodotte dai vicini di casa, dai parenti e, qualche volta, dai parroci; cfr. per questi aspetti in particolare le pp. 242 e 55.
11 Ivi, p. 234 e p. 236. Cfr. anche V. Biotti, Il folle nella società fiorentina e toscana tra XVI e XV1l secolo e la nascita di “S. Dorotea de’ pazzerelli”, in Alberto De Bernardi (a cura di). Follia, psichiatria e società. Istituzioni manicomiali, scienza psichiatrica e classi sociali nell’Italia moderna e contemporanea, Franco Angeli, Milano 1982, pp. 170- 210 e Lisa Roscioni, Il governo della follia. Ospedali, medici e pazzi nell’età moderna, Bruno Mondadori, Milano 2003.
12 Per quanto riguarda, sempre nello stesso periodo, le dinamiche di internamento manicomiale a Roma, lo stesso ruolo di accertamento della malattia mentale era svolto presso le Carceri Nuove dai medici fiscali a tal fine incaricati; rimando a Vinzia Fiorino Matti; indemoniate e vagabondi. Dinamiche di internamento manicomiale, Marsilio, Venezia 2002, in particolare pp. 56 e ss.
13 F. Stok, Luigi Scabia… cit., p. 26.
14 Beniamino Sadun, Sulla proposta del manicomio di Volterra per i mentecatti poveri di Pisa, Vannucchi, Pisa 1890 e F. Stok, Luigi Scabia…, cit. p. 33.
15 B. Sadun, Le stanze di osservazione e la Clinica Freniatrica di Pisa. Lettere aperte agli onorevoli D. Supino (rettore dell’Università) e A. Nardi-Dei (presidente Spedali), Vannucchi, Pisa 1899, p. 3.
16 A smentire quest’ipotesi interviene con una Avvertenza nel suo: Sulla ubicazione di un manicomio e sulla convenienza di averlo in Pisa, Tip. Lana, Fano 1869.
17 Giovanna Tanti, Materiali per lo studio della nascita della psichiatria a Pisa nell’Archivio ottocentesco degli Spedali Riuniti, in «Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria», L (1989), n. 2, p. 364.
18 Ivi, p. 367.
19 Sul tema cfr. Annalucia Forti Messina, Il sapere e la clinica. La formazione professionale del medico nell’Italia unita, Franco Angeli, Milano 1998.
20 Giuseppe Neri, Sulla ubicazione…, cit., p. 6.
21 lvi, p. 10.
22 Se, come ha notato molto puntualmente Michel Foucault, la follia a partire dal Seicento ha cessato di essere ricerca ai confini del mondo, viaggio verso l’ignoto, per diventare sragione e permettere una messa a punto del sistema di internamento, in seguito alla Rivoluzione francese il problema del rispetto della procedura formale di ricovero è divenuta rilevante proprio perché rispondeva ad un nuovo sistema di Iegittirnazione politica e ad un nuovo principio fondamentale: la libertà personale; cfr. Histoire de la folie à l’age classique. Folie et déraison, Plon, Paris 1961 (trad. it. di Franco Ferrucci, La storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1992).
23 G. Neri, Sulla ubicazione … cit., p. 15.
24 lvi, p. 16.
25 lvi, p. 32.
26 G. Neri, Sulla importanza e difficoltà degli studi psichiatrici. Prolusione clinica delle malattie mentali, Tip. Lana, Fano 1868.
27 Giuseppe Girolami è infatti autore di: Intorno ad un viaggio scientifico aj manicomi delle principali nazioni d’Europa, Annesio Nobili, Pesaro 1854.
28 F. Stok, Luigi Scabia… cit., p. 30.
29 lvi, p. 23.