Nel 1631 lo Compagnia della Misericordia si trovò a fronteggiare una nuova tremenda epidemia di peste, anzi la peste per eccellenza, la più celebre, quella che due secoli più tardi ci fu raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Si trattò di una sciagura che, scendendo da nord, si abbattè progressivamente su quasi tutta l’Italia, portando ovunque lutti e desolazione. Della peste a Volterra hanno scritto molti studiosi locali che ci hanno lasciato una descrizione puntuale e realistica di come si svolsero i fatti. L’epidemia fu portata in Italia dalle truppe imperiali tedesche, che attraversarono le Alpi per intervenire nel conflitto che vedeva contrapporsi il duca di Nevers a quello di Savoia e al Gonzaga di Guastalla, in merito al diritto di possedere proprio i territori in cui si ambienta la vicenda dei Promessi Sposi.
> Sommario, La Compagnia della Misericordia di Volterra
Il contagio si sparse prima in tutta la Lombardia, poi in Veneto e Piemonte, quindi in Romagna e Toscana. Nel 1630 la peste, già a Firenze e a Colle Val d’Elsa, suscitava apprensione nei Volterrani, tanto che fu interrotta qualsiasi relazione commerciale con queste città tranne per la fornitura del sale. Fu però stabilito che questo sale fosse portato all’osteria di S. Ottaviano, al di là del fiume Era, e che qui andassero a prenderlo i vetturali fiorentini.
Le precauzioni, anche questa volta, furono inutili; dopo che si erano manifestati alcuni casi del morbo nelle campagne, il 14 luglio 1631 la peste entrò in città e le prime vittime furono proprio un vetturino, proveniente da S. Gimignano, e la guardia alle porte che gli concesse l’accesso. Nel breve tempo di quattro giorni i morti furono più di venti. La situazione fu inoltre aggravata dal fatto che i medici e i cerusici di Volterra erano stati richiamati, in precedenza, a Firenze per prestare la loro opera e non c’era perciò in tutta la città chi curasse i malati.
La Compagnia della Misericordia aveva predisposto zane, cataletti e portatori ma ben presto si dovette cercare chi seppellisse i confratelli, tra i primi, come al solito, ad essere contagiati. I morti rigurgitavano nel lazzaretto, la disperazione e la paura serpeggiavano fra gli incolumi. Il 14 novembre giunse Luigi Capponi, espressamente inviato dalla Sanità di Firenze, indisse la quarantena e impose l’applicazione di rigorose disposizione igieniche. Il miglioramento fu subito evidente, anche favorito, ancora una volta, dal cambio della stagione.
Ai primi del gennaio 1632 il morbo sembrò debellato e il Capponi ordinò che fosse bruciato il lazzaretto ma, per precauzione, non riaprì il mercato e pregò il Vescovo di limitare il numero delle riunioni in chiesa. Sembrò quest’ultima richiesta quasi un attentato alla professione del culto e fu ampiamente disattesa. Ne fu conseguenza che l’epidemia tornò a manifestarsi progressivamente fin dalla terza decade del mese: nel frattempo avevano raggiunto un alto grado di tensione i rapporti tra il Vescovo e il Capponi, fortemente criticato dal Vescovo medesimo perché aveva fatto sciogliere con le armi le processioni, arrestando addirittura il portatore del crocifisso, e scacciato i fedeli dalla chiesa; a mettere ancor più in cattiva luce il Capponi fu poi la sua decisione di imporre pesanti tasse ai notabili della città per sfamare la popolazione e finanziare provvedimenti di emergenza. Così, mentre il processo indetto dal granducato al Capponi, in base alle accuse del Vescovo, finiva nel nulla, l’epidemia riprese nuovo e devastante vigore senza che niente si facesse per impedirlo. Il Capponi, ignorando ripetute minacce di scomunica, si adoperò in ogni modo ma i suoi sforzi furono resi vani dalla mancanza di collaborazione dei Volterrani, incitati contro di lui.
Tralasciando di narrare toccanti e drammatici episodi, poiché anche noi avemmo madri di Cecilia, untori e monatti, dirò che dell’operato della Compagnia della Misericordia nella circostanza non si trova menzione e il silenzio delle fonti può avere solo due spiegazioni: o i confratelli morirono tutti durante la prima esplosione dell’epidemia, oppure i pochi superstiti vennero coinvolti nella polemica contro il Capponi e si trovarono nelle condizioni di non poter svolgere le tradizionali mansioni.
Fu comunque in occasione di questa pestilenza che, per la prima volta, si adottò l’accorgimento di sostituire il materasso di tela del cataletto con un giaciglio di paglia, che veniva di volta in volta bruciato per evitare che potesse divenire strumento di diffusione del contagio.
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