La Compagnia della Misericordia

La Compagnia della Misericordia è certo una delle istituzioni più antiche della nostra città, è ancora attiva e ancora, come nei secoli passati, meritevole della riconoscenza e della stima di tutti i Volterrani. Ricostruirne la storia vuoi dire quindi rendere il dovuto omaggio a chi nel tempo ha cercato di far del bene a Volterra e a chi tuttora, con pari passione e identico spirito di carità, persegue lo stesso obiettivo.

Già nel 1881 un illustre fratello della Compagnia, Annibale Cinci, ne portò a compimento una monografia di notevole interesse, per la serietà d’indagine e per l’attendibilità dei documenti cui fece riferimento; quest’opera è stata guida al nostro lavoro e ci riterremo più che soddisfatti se, alla fine, riusciremo a ricostruire la storia della Misericordia con la stessa acutezza e capacità di analisi del nostro illustre predecessore. Ove tuttavia se ne presenterà occasione, introdurremo considerazioni, che non vogliono essere una critica al lavoro del Cinci ma una semplice espressione di personali giudizi, e notizie, che non debbono apparire un rimprovero alla sua capacità di indagine, ma l’aggiornamento di chi ha potuto muoversi in archivi più ordinati di quelli a disposizione del nostro Annibale.

LA COMPAGNIA DELLA MISERICORDIA DI VOLTERRA
SETTE SECOLI DI SOLIDARIETA’

LE ORIGINI DELLA MISERICORDIA

Secondo quanto indagine storica e tradizione ci raccontano, la prima Compagnia della Misericordia si costituì a Firenze nel 1244 ma sarà motivo di soddisfazione per i Volterrani sapere che la nostra città fu tra le più sollecite a seguire, a distanza di poco tempo, l’edificante esempio dei Fiorentini. La storia dell’origine della Confraternita fiorentina della Misericordia va inserita nel clima culturale e sociale del XIII secolo che vide fiorire un po’ ovunque, ma particolarmente in Toscana, confraternite o compagnie laicali a sostegno dell’opera della Chiesa. Possiamo identificare quattro tipi di aggregazione: confraternite di devozione, la cui principale attività fu la preghiera e servirono ad avvicinare i laici alla liturgia, confraternite di penitenti, che fecero dell’autoflagellazione strumento di redenzione, confraternite di arti e mestieri, riunite nel culto di un santo protettore della professione e nel mutuo soccorso tra gli affiliati, e infine confraternite di beneficenza, sorte per spirito di carità a lenire le sofferenze del prossimo; tra queste ultime troviamo, appunto, le Compagnie della Misericordia. A differenza delle coeve aggregazioni religiose, le compagnie laicali non imponevano voti né l’obbligo di vivere in comunità. Sempre più spesso, a supporto di queste istituzioni, l’autorità ecclesiastica emetteva formali decreti cui seguiva l’adozione di uno statuto che definiva gli obiettivi della confraternita e ne regolava i rapporti tra gli adepti. La storia di molte confraternite medievali si sviluppò pertanto in stretta connessione con la storia della Chiesa, sempre attenta a controllare che l’opera di queste compagnie si muovesse nell’ambito della corretta applicazione dei precetti del cristianesimo senza sconfinare, come talvolta accadde, nell’eresia. Le confraternite trovarono subito consenso in tutti gli strati sociali per l’esempio che seppero dare prodigandosi verso il prossimo, ossequiose al principio evangelico “…dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo loro” (Matteo 18, 20). In questo contesto storico si organizzò in Firenze, nel 1244, la prima Confraternita della Misericordia che ebbe il padre fondatore nel frate domenicano Pietro da Verona dell’ordine dei predicatori. Erano tempi di accesa conflittualità tra Chiesa e Impero, tempi di guelfi e ghibellini. Nel 1240 l’imperatore Federico II, scomunicato da Papa Gregario IX, aveva tentato di occupare Roma e l’anno successivo le navi ghibelline dei Pisani avevano abbordato, a largo della Meloria, il convoglio che portava a Roma i prelati per il Concilio. Federico II sosteneva l’azione militare con un deciso appoggio politico a tutti coloro che dimostravano insofferenza verso l’autorità della Chiesa, così a Firenze non poca difficoltà incontrava l’Inquisitore della città, il frate domenicano Ruggero Calcagni, a far sì che il Podestà, di chiara fede ghibellina, assumesse provvedimenti nei confronti della diffusione dell’eresia patarina. L’inquisitore richiese l’intervento di un esperto predicatore, già distintosi qualche anno prima a Milano, Fra’ Pietro da Verona, pure lui domenicano. Questi arrivò nella città del giglio nel 1244. Fra’ Pietro si dette immediatamente da fare e oltre a predicare, con encomiabile fervore, dal pulpito della cattedrale di Santa Reparata, organizzò in Firenze la “Società della Fede”, una vera e propria milizia che in poche settimane seppe ripulire Firenze dagli eretici potarmi. Alla fine del 1245 il nostro frate, compiuta la sua missione, lasciò Firenze, ma già l’anno prima la “Società della Fede”, non avendo più motivo di esistere, si era sciolta dando vita a tre Compagnie, quella della Vergine, quella del Bigello e quella appunto della Misericordia. Fra’ Pietro fu assassinato pochi anni dopo in un agguato ghibellino a Barlassina, tra Como e Milano, e per questo proclamato santo e martire. Gli sopravvisse la Compagnia della Misericordia da lui fondata, capostipite di consimili aggregazioni che in breve tempo presero corpo in tutta la Toscana: a Siena nel 1250, a Pontremoli nel 1262, a Rifredi nel 1280, a Volterra nel 1290. E poi tantissime altre sorsero progressivamente, fino al XVI secolo, in quasi tutti i centri grandi e piccoli della nostra regione ed ancora, nei secoli successivi, in molte altre città italiane. Questa la storia della costituzione della prima Compagnia della Misericordia in Firenze come ci viene proposta in documenti redatti circa un secolo più tardi. E’ certo comunque che quella di Volterra fu in assoluto, per data di costituzione, la quinta Confraternita della Misericordia in Toscana e di conseguenza, per quanto detto sopra, in Italia. Accanto alla storia sta la leggenda e vale la pena raccontarla, perché sicuramente più gradevole al lettore e più consona allo spirito di spontanea carità che è alla base di ogni atto di misericordia, soprattutto meno contaminata dalle vicende politiche del tempo. Forse, proprio per questo, più vera della storia stessa. Correva l’anno 1240 e tanto fioriva nella città del giglio l’arte della lana che erano state istituite, per l’incremento di tale attività, due fiere: una per San Simone, l’altra per San Martino. Il giro degli affari si valutava intorno ai 15 milioni di fiorini e c’era notevole possibilità di lavoro per un gran numero di facchini. Dante non era ancora nato e il nostro volgare si avvaleva solo delle rime piuttosto rozze e farraginose di Guittone. Ma se la lingua letteraria non riluceva in tutto il suo dantesco splendore, già Firenze si distingueva in un genere espressivo tanto deplorevole quanto tutto “maledettamente toscano”, la bestemmia, posta spesso ancor oggi a guisa di commento intercalato per punteggiare la normale conversazione. Racconta Annibale Cinci (La Compagnia della Misericordia in Volterra, 1881), recependo questa leggenda nelle sue memorie, che i facchini ‘avevano preso a luogo di riunione una cantina sulla piazza di Santa Maria del Fiore e in quella convenivano, dopo le faccende, a passare le ore di riposo in allegra e sollazzevole brigata”. Tra un bicchiere e l’altro, tra allegre discussioni, motteggi e scherzi questi bravi lavoratori sembra indulgessero alquanto al “turpiloquio e alle bestemmie, vizio quasi comune a quella gente rozza e incolta…”. C’era tra loro un certo Pietro di Luca Borsi, piuttosto avanti con gli anni, “vago dell’onesto passatempo e della gioconda compagnia…” amante certo anche lui del buon vino, ma “buon cristiano… per cui gli appellativi, di cui era fatto oggetto nostro Signore, gli mandavano spesso di traverso quel vin santo e glielo facevan sembrare aceto “. Quindi “… a corregger ne suoi e ad estirpare un tanto male, propose che, quantunque volte alcuno di essi se ne fosse reso colpevole, dovesse porre una crazia in una cassetta all’uopo destinata. Fu la proposta di buona voglia accolta e quantunque i facchini si studiassero di tenere a freno la lingua non tanto per secondare il di Luca, cui tutti riguardavano quasi loro padre e capo, quanto per non cader nella multa, pure attesa la inveterata abitudine, si vide ben presto raccolta una somma non piccola “. Così racconta la leggenda, ma non pensiamo di essere troppo lontani dal vero immaginando che il nostro Pietro accompagnasse anche con qualche generoso e robusto scappellotto le sue reprimende ai compagni, che si disponevano così più di buon animo a versare la crazia in remissione dei loro peccati. Comunque si siano svolti i fatti, ” Il buon Pietro nel doppio intendimento di ingentilire la gente e il cuore di que suoi compagni e di profittare dell’opera loro a vantaggio della miseria e della indigenza, si die ad una seconda proposta e fu quella di far costruire sei zane capaci di potervi adattare una persona, destinare queste zane una per ciascun sestiere della città, e con quelle far trasportare per mezzo de’ suoi compagni i poveri infermi agli Spedali, non che gli impotenti o i caduti da fabbriche, o gli ammalati casualmente per via, e tutti quelli insomma che ne avessero avuto bisogno, e ciò colla ricompensa di un giulio a ciascun de’ portatori. Piacque a quella buona gente anche questo secondo progetto…”. Le zane (dal longobardo zaino, stessa etimologia di zaino) erano ceste di ragguardevoli dimensioni al punto di contenere un uomo rannicchiato. I nostri simpatici facchini, bestemmiatori sì ma bravi cristiani, si votarono a riempirle di ammalati per trasportarli agli “spedali” dell’epoca, modesti centri di raccolta e di ancor più modesta assistenza sanitaria, allestiti generalmente in prossimità delle chiese. “Questa bell’opera di cristiana carità, che rinnovellavasi ben di sovente – si legge ancora nello scritto di Annibale Cinci – era di edificazione a’ fiorentini, i quali offrivano bene spesso vistose ricompense a que’ buoni operai, che venivano da loro con nobile disinteresse rifiutate..”. Alla morte di Pietro, un altro facchino, desideroso di continuare la pia istituzione, ” provvide una tavola colla effigie della Pietà e, collocata la medesima sopra una cassetta colla iscrizione elemosine pe’ poveri e gli infermi, la pose alla porta di San Giovanni il giorno del perdono (31 Gennaio), nella intenzione di raccogliere tanto denaro per poter comprare una stanzetta da ridursi a oratorio, per le pratiche religiose e per le adunanze de’ suoi confratelli “. Furono così abbondanti le offerte dei fedeli che la somma arrivò a 500 fiorini, più che bastanti allo scopo prefisso …”e in breve tempo si vide aperto sulla cantina stessa il modesto oratorio, dove, dopo qualche anno, l’Arcivescovo Giovanni Vitelleschi inaugurava la nuova Confraternita ad onore di Maria SS., del S. Pietro martire, e di S. Giovanni Battista; e ponendo i fratelli sotto lo speciale patrocinio del S. Tobia, lo proponeva loro ad esempio nelle opere di misericordia “. Così, secondo la leggenda, nacque la Compagnia fiorentina della Misericordia che di lì a poco si dette una specie di statuto, distribuendo oneri e onori tra gli affiliati. Se guardiamo alla miscellanea di storia e leggenda che ci racconta come si formò la Confraternita non possiamo fare a meno di constatare che essa fu il parto di elementi contrastanti: alla sua origine non troviamo soltanto un inquisitore, ma anche l’onesta birbanteria e la genuinità brillante delle brigate, che valsero la loro energia, la blasfemia stessa, ali’ aiuto di chi aveva bisogno. Sembra di sentire un’intensità di risa, amicizie, contatti che ci aiutano a provare più empatia verso il nascere della Confraternita. Qualcosa ce la rende più giovane, più vicina se immaginiamo una monelleria divertente che trova il modo di essere buona e profondamente cristiana senza altisonanze e senza roghi. Crediamo che sia moderno interrogarsi su quanto della carità reale provenga dalle prediche e quanto, invece, provenga dal naturale e spontaneo gusto della vita condivisa. La leggenda di Pietro di Luca Borsi ci piace, ci piace perché racconta un po’ di noi, di vite che secoli fa parlavano la lingua della socialità molto più che quella dell’ ufficialità. Per questo, anche se la leggenda è per antonomasia solo fantasia, ci coinvolge. E poi in tutte le leggende c’è qualcosa di vero. E’ certo infatti che furono proprio i facchini a prendersi cura, di lì a poco, delle migliaio di appestati durante le epidemie che colpirono Firenze tra il 1325 e il 1348. Se lo fecero su incarico della Compagnia della Misericordia o per spontanea risposta, come corporazione, ad una esigenza della città non è dato sapere, di certo lo fecero. E’ un fatto che i facchini furono a più riprese visti caricarsi sulle spalle morti e moribondi e che la loro opera fu molto apprezzata in Firenze, tanto da produrre, probabilmente nel XIV secolo, la leggenda di Pietro di Luca Borsi. Forse all’origine della Confraternita Fiorentina ci fu un1 iniziativa di laica carità della quale meriti e strutture furono a posteriori, sempre nel corso del milletrecento, rivendicati dalla Chiesa. Una testimonianza diretta di che cosa sia accaduto in occasione della peste del 1325 ce la fornisce Giovanni Boccaccio in un passo del suo Decamerone in cui si dice che le esequie funebri erano mansione “di beccamorti, sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini “. Ora, “minuta gente” è sinonimo di “basso ceto sociale” quindi più probabilmente di facchini che di affiliati a ordini religiosi o a confraternite riconosciute ufficialmente; questo spiegherebbe come, nello stesso brano, ser Giovanni possa liberamente esprimere il proprio disprezzo per questa categoria di persone che egli dice “questi servigi prezzolata facea”. Non possiamo far a meno di notare come la Misericordia tragga origine da una sorta di solidarismo quasi primitivo, dove, in un inevitabile compromesso tra il cuore e il mondo, non ci appare scandaloso che l’opera di carità fosse sostenuta da quel “tenue salario” così spesso menzionato anche nei regolamenti ottocenteschi delle Misericordie. Del resto, portarsi dietro un appestato non era né edificante né igienicamente consigliabile e di certo non vi era un’immensa schiera di “buoni cristiani” disposti comunque a farlo! E viene naturale riflettere sul fatto che per operare nel mondo servono compromessi inevitabili, dolorosi quanto il peso di non tentare neanche un rimedio a tante ingiustizie; per modificare la realtà bisogna calarsi in essa, anche e soprattutto laddove appare più sgradevole. Quello dei facchini era un lavoro da povera gente, che per campar la giornata si assumeva un compito ingrato e pericoloso, era un lavoro insomma da… facchini e…, a dispetto della storia ufficiale, ancora una volta a noi piace pensare più a loro che a Pietro da Verone, neppure toscano, come fondatori della prima Compagnia della Misericordia. In ogni caso, tornando nello specifico dell’informazione sulla Confraternita, possiamo dire che tra storia, da assumere con riguardo, e leggenda, cui guardare con simpatia, alcuni punti fermi circa l’origine della Prima Compagnia della Misericordia li possiamo comunque fissare: 1) fu fondata in Firenze attorno alla metà del XIII secolo, probabilmente nel 1244; 2) ebbero un ruolo importante, nell’attività iniziale della Compagnia, i facchini fiorentini; 3) servì da modello a consimili Confraternite che nacquero in altre comunità toscane tra le quali, probabilmente nel 1290, la Compagnia della Misericordia di Volterra.

LA COMPAGNIA DELLA MISERICORDIA

Niente sappiamo di sicuro riguardo all’anno in cui questa lodevole Istituzione iniziò la sua attività anche se possiamo individuare un termine “ante quem” al 2 Aprile 1291. In tale data infatti si apriva nella nostra città un ospedale grazie all’iniziativa di Boccio di Federigo Ruffoli o Ruffolo. Il vescovo di allora, inaugurandolo, lo chiamava Spedale di S. Maria o della Misericordia, per cui viene spontaneo pensare che, se la si citava, doveva già esistere anche a Volterra una Compagnia della Misericordia. Il 1290 ci sembra pertanto l’anno in cui probabilmente a Volterra si costituì la Confraternita della Misericordia che a breve distanza di tempo, appunto nel 1291, fu riconosciuta ufficialmente dall’autorità ecclesiastica. E’ difficile poter fare riferimento a documentazioni sicuramente attendibili e illuminanti circa l’operato e l’organizzazione interna della Compagnia della Misericordia, durante il XIV e XV secolo.

Nelle provvigioni magistrali del nostro Comune si fa riferimento qua e là a sussidi concessi agli “uomini della Misericordia” per le loro opere di carità. Infatti, oltre che delle sepolture dei morti e dell’assistenza ai malati, questi benemeriti si preoccupavano anche di lenire le misere condizioni di vita della parte più povera della popolazione volterrana. I fondi della Compagnia venivano probabilmente depositati, sull’esempio dell’omonima istituzione fiorentina, in una cassa comune che, con poche zane e, forse, un cataletto, doveva costituire tutto il patrimonio della Confraternita in quei primi anni di attività. Gli affiliati raccoglievano elemosine e le distribuivano, in tutta segretezza, a chi più ne aveva bisogno.

Non è immaginabile che i sussidi di allora fossero in denaro; generalmente si trattava di vestiario e cibo accattato alle case dei più ricchi o, più spesso, dei meno poveri, dato che in quei secoli anche nella nostra città, travagliata da letali epidemie e frequentemente impegnata in campagne militari, la miseria era certo il morbo di maggiore diffusione. Numerosi erano gli sbandati che si aggiravano per le strade in cerca di un qualsiasi lavoro, costretti a dormire dove capitava, senza casa, laceri e malati; non mancava quindi occasione, a chi era animato da spirito di carità, di rendersi utile.

Quel mondo di allegre brigate, di cavalieri elegantemente vestiti, di compiacenti madonne, cui fanno riferimento grandi scrittori dell’epoca, era un’ oasi cui accedevano pochi fortunati; per molti un vestito era quasi una casa, perché riparava, sia pure in parte, il corpo dalle intemperie, un pezzo di pane era il sostentamento di un giorno, e non importava se si trattava dell’avanzo di una mensa più o meno nobile.

Inevitabile che per far fronte a questa situazione la Misericordia cercasse anche di ricorrere, come sopra accennato, a sussidi della pubblica istituzione, cominciando una propria lotta economica per avere un luogo di adunanza, i mezzi di soccorso e carità, insomma un proprio pur minimo possedere. Non dimentichiamo che il Comune aveva da poco soppiantato il feudalesimo e una nuova classe, quella commerciante, cominciava a dettare le proprie regole, regole dove poco era lo spazio riservato alla misericordia verso il prossimo. Se il privato latitava, il Comune aveva invece un qualche interesse a controllare le masse popolari, facilmente convertibili in milizie sia ordinate che tumultuanti, ed era quindi più sensibile a tutte quelle iniziative che andavano a sostegno del “popolino”. La contaminazione economica non ridusse lo slancio emotivo della Compagnia che cercò di alleviare le disuguaglianze esistenti con l’opera e, quando non era possibile diversamente, con il conforto delle parole. Si trattò comunque quasi sempre dell’aiuto dato dal povero al più povero. Tra le mansioni della Misericordia c’era anche quella di confortare e assistere i condannati a morte.

Non è difficile rendersi conto di quanto questo compito fosse ingrato: bisognava parlare di Dio e del Suo Regno dei dei Cieli a chi si sentiva completamente abbandonato, anche dalla Provvidenza Divina.

Né era poi eccezionale che avvenisse sulla pubblica piazza un’esecuzione, anche in una città non grande come Volterra. Aggressioni e furti, dettati dalle precarie condizioni di vita, portavano spesso all’omicidio e venivano puniti con la decapitazione di poveri diavoli esasperati dalla continua lotta per la sopravvivenza; per converso c’erano anche esecuzioni di illustri personaggi, vittime di intrighi politici. Anche quegli sventurati venivano giustiziati, dopo processi sommari, a furor di popolo e, spesso, il cadere della testa di un nobile, se non serviva a riempire la pancia di chi era in miseria, soddisfaceva la fame di vendetta delle classi meno abbienti. L’assistenza ai condannati a morte era dunque un’opera di misericordia difficile e spesso incompresa. Comunque furono ancora una volta le epidemie, e ogni generazione ne vedeva succedersi almeno due o tre, ad impegnare maggiormente i Fratelli della Misericordia di Volterra, che accorrevano, con le loro zane, per raccogliere i malati e portarli in ospedali e lazzaretti, oppure cercavano i morti, spesso lasciati soli dalla fuga dei familiari impauriti, per rendere loro le onoranze funebri e seppellirli. Il tetro incedere di queste processioni, precedute dal suono di un campanello che invitava i passanti a non fermarsi per evitare il contagio, rappresenta ancor oggi nell’immaginario collettivo l’opera della Misericordia nel buio di quei secoli.

LA MISERICORDIA NEL CINQUECENTO

Nel 1511 terminava, per così dire, la preistoria della Compagnia della Misericordia e, poiché in tale anno la Confraternita fu formalmente eretta a sodalizio religioso, le notizie su di essa si fanno più frequenti e sicuramente attendibili per la disponibilità di adeguata documentazione.

In occasione della visita pastorale del Messo apostolico Mons. Castelli nel 1576 sappiamo, infatti, che l’alto prelato si recò, il 5 luglio, al “luogo della Misericordia, dove questa Confraternita di uomini già da 65 anni era stata creata.” Il documento, redatto per ricordare l’avvenimento, ci dice anche che “confratelli vestono cappe nere col cappuccio; nulla hanno di proprio, ma raccolgono elemosine in danaro che dispensano segretamente, assistono i condannati a morte e seppelliscono i morti di qualunque parrocchia, non si adunano per speciali obblighi, ma celebrano nel loro luogo messe di devozione per S. Giovanni Decollato, nel giorno seguente pe’ defunti, e alcune volte pe’ benefattori. Non vi sono sacri indumenti, ma vengono questi somministrati quando occorrono dalla sacrestia della vicina Cattedrale “. Le ultime parole ci fanno capire che fin da quei tempi il “luogo della Misericordia”, o Oratorio di S. Giovanni Decollato, era sulla piazza del Duomo.

La storia della Misericordia nella prima metà del XVI secolo coincise pienamente con la storia di Volterra, e fu un periodo particolarmente triste.

Nel 1528 la peste si avvicinava e, nonostante la solenne processione, nella quale figuravano la testa di S. Ottaviano e S. Vittore, oltre alle reliquie di tutti i santi, nonostante l’attenta sorveglianza delle guardie alle porte, per impedire che gli abitanti dei sobborghi vi penetrassero, alla metà di agosto il morbo cominciò a diffondersi inesorabilmente. Per quanto manchino notizie dettagliate, lo stanziamento di una somma eccezionale, 2600 scudi, per combattere l’epidemia e l’ampiezza del lazzaretto impiantato a Sant’Andrea, tra Pinzano e Pescaia, lasciano immaginare quanto grande fosse la strage.

Davanti alla peste, quasi sempre attribuita a fantomatici “untori” o all’avvelenamento delle acque da parte del nemico di turno, si era impotenti; mancavano cure, l’organizzazione sanitaria era pressoché inesistente, si poteva solo pregare, bruciare e isolare tutto ciò che sembrava contaminato dall’infezione, sperando di poter raccontare i toccanti episodi cui si era costretti ad assistere. Si trasportavano al lazzaretto appestati, o sospetti tali, e si attendeva pregando che l’epidemia facesse il suo corso con le sue vittime. A novembre, come era nelle attese, i casi di contagio diminuirono, fino a spegnersi nell’inverno successivo. Non ci fu tempo per rallegrarsi, subito altre calamità si abbatterono su Volterra; basterà ricordare che Volterra, in un breve volgere di tempo, tra il 1529 e il 1530, dovette subire prima le violenze dei pontifici, poi l’assedio ed il saccheggio del Ferrucci, quindi i feroci attacchi del Maramaldo e del Marchese del Vasto, che erano stati inviati da Clemente VII a recuperare la nostra città.

Il 28 luglio 1530 il Maramaldo, più volte respinto dai Volterrani e dai soldati del Ferrucci, toglieva l’assedio, ma non fu una vittoria militare, la ritirata del condottiero fu motivata dalla notizia che, fin dal 12 luglio “l’agglomeramento di pecore e bestiame – come racconta Mario Battistini  ne Le epidemie di Volterra dal 1400 al 1800 – Il disagio, la fatica, la sporcizia delle strade e delle case, avevano prodotto casi di sospetta peste in Volterra”.

Il morbo non tardò a manifestarsi diffondendosi rapidamente; ogni giorno si chiudevano case, perché infette, e gli abitanti venivano cacciati fuori dalle porte, mentre gli ufficiali della sanità si davano da fare in ogni modo per circoscrivere l’epidemia. Ma con quali mezzi? Vuote le casse del Comune, spogliate le chiese e i monasteri, saccheggiate le case dei cittadini, dissanguati dalle esose imposizioni del Ferrucci, non si trovava uno scudo per sfamare i Volterrani. Il 20 agosto Marco Strozzi, uno dei commissari lasciati in Volterra dal Ferrucci, moriva di peste e il nuovo commissario, Giovanni Vittori, giunto il 23, spaventato dalle dimensioni dell’epidemia si chiuse nella fortezza, mentre i soldati, atterriti dal morbo e temendo la vendetta dei cittadini, da loro più volte oltraggiati, fuggivano scalando le mura, finché i pochi rimasti furono richiamati a Firenze, nella certezza che nessuno si sarebbe sognato, in presenza della peste, di occupare Volterra.

In mezzo a tanti dolori l’opera della Misericordia non venne meno ma ben presto anche i confratelli furono ridotti all’impotenza per la rapida e letale diffusione del contagio e per l’assoluta mancanza di fondi. La Compagnia stessa fu decimata dall’infezione, tanto che il commissario Vittori dette ordine di prelevare nelle campagne uomini per seppellire i morti e, nonostante questo, il cronista Incontri racconta di aver dovuto provvedere “propriis humeris”, cioè caricandoselo sulle spalle, alla sepoltura di uno zio poiché non si trovava chi assolvesse tale compito. La peste si protrasse fino al 1532, allorché sopravvenne una terribile carestia.

Durante la pestilenza morirono circa trenta persone al giorno e solo quattro case sfuggirono al contagio, tanto che, alla fine del 1532, rimasero in Volterra, ormai spopolata e quasi deserta, solo trenta donne in grado di partorire. Davanti a tanti mali ben poco aveva potuto la Confraternita che tuttavia prontamente riordinò le sue file, riprese le tradizionali attività e fu, anche negli anni difficili, successivi alle tragiche sciagure che si erano abbattute sulla città, sempre pronta a perorare ed assistere la causa dei poveri e degli infelici.

Nel 1548 gli ufficiali della Misericordia chiesero e ottennero che fossero stanziati dal Comune dieci sacchi di grano da distribuire agli indigenti in occasione del Santo Natale. Due anni dopo, nell’adunanza del 13 gennaio 1550, la Compagnia illustrò, con accurata relazione, lo stato desolante dei poveri della città ridotti a morir di fame, fece presente di non poter più sostenere le spese per il vitto e i medicinali agli infermi e di essere in debito di 50 lire; furono così disposte dal comune 40 lire per acquistare legna e affittare un edificio dove i poveri, vaganti per la città, potessero trovare alloggio. Nella circostanza la Misericordia ottenne anche 40 sacchi di grano da distribuire in quattro mesi, sussidio che in seguito, sempre su richiesta dei confratelli, fu incrementato fino a che furono disposti 40 socchi di grano al mese per i mendicanti e 30 socchi per i monasteri e i luoghi pii.

Nella seconda metà del XVI secolo particolarmente solerte fu l’attività della Confraternita e notevole la riconoscenza che seppe meritarsi tanto che, nel 1608, ebbe l’onore di essere aggregata a quella omonima esistente in Roma; nel 1615 fu poi insignita del titolo di Venerabile.

Intanto riceveva sempre più frequentemente, da privati cittadini, sussidi degni di nota; tra questi, per la discreta entità, possono essere ricordati quello di 50 scudi fattole da Antonio Meloni da S. Lazzero nel 1620 e quello di 100 scudi e una casa, con masserizie e argenterie, arrivati in dono, l’anno successivo, da Antonio Pontremoli. Già in questo periodo risulta chiaro l’ordinamento della Compagnia: oltre a un priore e a un sottopriore venivano eletti ogni sei mesi due camarlinghi, cioè cassieri, quattro distributori di elemosine, che avevano facoltà di elargire fino a 5 lire e di chiedere licenza al priore per la distribuzione di somme maggiori, quattro difensori dei carcerati, due procuratori, uno per i detenuti a Volterra l’altro per i concittadini che si trovavano in prigione a Firenze, quattro sacrestani e dodici questori di elemosine, che svolgevano la loro opera in città e nei sobborghi.

La Misericordia, dandosi un ordine istituzionale, non sfuggì all’avvilimento del suo primario slancio, ma questo momento della sua storia testimonia ancora una volta come sia impossibile non contaminarsi con le strutture della società organizzata. La realtà infatti finisce per riconoscere un ruolo all’anima solo se questa si piega al suo modello e con la realtà anche la Misericordia dovette, ancora una volta, misurarsi.

Insieme ai ruoli i confratelli si dettero una “divisa” che li contraddistinguesse. A cavallo tra i secoli XVI – XVII si definisce il loro abbigliamento, un abbigliamento destinato a rivestire a lungo i membri della Compagnia. Una cappa di tela nera, lunga fino al collo del piede, celava gli abiti indossati mentre un cappuccio, detto “buffa”, nascondeva la faccia così da garantire l’assoluto anonimato di chi esercitava l’opera di misericordia. Questo abbigliamento genererà il nomignolo con cui saranno a lungo chiamati i confratelli; gli “sfacciati”. Un mantelluccio di pelle nera, il “sanrocchino”, in onore di San Rocco, protettore degli appestati, copriva le spalle consentendo di appoggiarvi più comodamente le barre del cataletto, offrendo nel contempo un riparo dalla pioggia. Anche un cappello a tesa larga, legato sotto il mento, serviva a proteggere dagli agenti atmosferici. Completava il vestimento il cordiglio, un legaccio attorno ai fianchi, da cui pendeva la corona del rosario, abitualmente recitato durante lo svolgimento dei servizi. Infine un robusto bastone, il “bordone”, dotato di una punta metallica, serviva di appoggio alla mano durante il cammino, consentiva una solida presa sul terreno e poteva essere impiegato anche come arma, per difendersi dagli eventuali attacchi di malintenzionati. Sulla sommità del bastone un gancio permetteva di allacciare una bisaccia o una zucca svuotata ed essiccata che, piena di acqua, fosse di conforto durante il viaggio, talvolta molto impegnativo; spesso infatti si trattava di raggiungere un infermo nelle campagne, con un lungo percorso fatto sempre a piedi. L’abbigliamento della Misericordia evoca molti pensieri; i volti di coloro che aiutavano erano coperti secondo il principio per cui il bene deve rimanere anonimo e lontano dalla celebrazione, anche se è la gioia di essere amati che ci da fame di donare ancora e il reciproco sguardo non andrebbe censurato.

Per contrasto, o per affinità, la mente associa i colori in un meccanismo d’involontari richiami. Di fronte al cupo abbigliarsi dei Misericordiosi di un tempo stanno, con i loro giubbotti fosforescenti, i ragazzi che ancora oggi si impegnano nella Misericordia, senza niente di tetro a coprire i loro sorrisi, quasi a ricordarci la ribalda monelleria degli antichi facchini di Firenze.

LA PESTE DEL MANZONI IN VOLTERRA

Nel 1631 lo Compagnia della Misericordia si trovò a fronteggiare una nuova tremenda epidemia di peste, anzi la peste per eccellenza, la più celebre, quella che due secoli più tardi ci fu raccontata da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Si trattò di una sciagura che, scendendo da nord, si abbattè progressivamente su quasi tutta l’Italia, portando ovunque lutti e desolazione. Della peste a Volterra hanno scritto molti studiosi locali che ci hanno lasciato una descrizione puntuale e realistica di come si svolsero i fatti. L’epidemia fu portata in Italia dalle truppe imperiali tedesche, che attraversarono le Alpi per intervenire nel conflitto che vedeva contrapporsi il duca di Nevers a quello di Savoia e al Gonzaga di Guastalla, in merito al diritto di possedere proprio i territori in cui si ambienta la vicenda dei Promessi Sposi. Il contagio si sparse prima in tutta la Lombardia, poi in Veneto e Piemonte, quindi in Romagna e Toscana. Nel 1630 la peste, già a Firenze e a Colle Val d’Elsa, suscitava apprensione nei Volterrani, tanto che fu interrotta qualsiasi relazione commerciale con queste città tranne per la fornitura del sale. Fu però stabilito che questo sale fosse portato all’osteria di S. Ottaviano, al di là del fiume Era, e che qui andassero a prenderlo i vetturali fiorentini. Le precauzioni, anche questa volta, furono inutili; dopo che si erano manifestati alcuni casi del morbo nelle campagne, il 14 luglio 1631 la peste entrò in città e le prime vittime furono proprio un vetturino, proveniente da S. Gimignano, e la guardia alle porte che gli concesse l’accesso. Nel breve tempo di quattro giorni i morti furono più di venti. La situazione fu inoltre aggravata dal fatto che i medici e i cerusici di Volterra erano stati richiamati, in precedenza, a Firenze per prestare la loro opera e non c’era perciò in tutta la città chi curasse i malati. La Compagnia della Misericordia aveva predisposto zane, cataletti e portatori ma ben presto si dovette cercare chi seppellisse i confratelli, tra i primi, come al solito, ad essere contagiati. I morti rigurgitavano nel lazzaretto, la disperazione e la paura serpeggiavano fra gli incolumi. Il 14 novembre giunse Luigi Capponi, espressamente inviato dalla Sanità di Firenze, indisse la quarantena e impose l’applicazione di rigorose disposizione igieniche. Il miglioramento fu subito evidente, anche favorito, ancora una volta, dal cambio della stagione. Ai primi del gennaio 1632 il morbo sembrò debellato e il Capponi ordinò che fosse bruciato il lazzaretto ma, per precauzione, non riaprì il mercato e pregò il Vescovo di limitare il numero delle riunioni in chiesa. Sembrò quest’ultima richiesta quasi un attentato alla professione del culto e fu ampiamente disattesa. Ne fu conseguenza che l’epidemia tornò a manifestarsi progressivamente fin dalla terza decade del mese: nel frattempo avevano raggiunto un alto grado di tensione i rapporti tra il Vescovo e il Capponi, fortemente criticato dal Vescovo medesimo perché aveva fatto sciogliere con le armi le processioni, arrestando addirittura il portatore del crocifisso, e scacciato i fedeli dalla chiesa; a mettere ancor più in cattiva luce il Capponi fu poi la sua decisione di imporre pesanti tasse ai notabili della città per sfamare la popolazione e finanziare provvedimenti di emergenza. Così, mentre il processo indetto dal granducato al Capponi, in base alle accuse del Vescovo, finiva nel nulla, l’epidemia riprese nuovo e devastante vigore senza che niente si facesse per impedirlo. Il Capponi, ignorando ripetute minacce di scomunica, si adoperò in ogni modo ma i suoi sforzi furono resi vani dalla mancanza di collaborazione dei Volterrani, incitati contro di lui. Tralasciando di narrare toccanti e drammatici episodi, poiché anche noi avemmo madri di Cecilia, untori e monatti, dirò che dell’operato della Compagnia della Misericordia nella circostanza non si trova menzione e il silenzio delle fonti può avere solo due spiegazioni: o i confratelli morirono tutti durante la prima esplosione dell’epidemia, oppure i pochi superstiti vennero coinvolti nella polemica contro il Capponi e si trovarono nelle condizioni di non poter svolgere le tradizionali mansioni. Fu comunque in occasione di questa pestilenza che, per la prima volta, si adottò l’accorgimento di sostituire il materasso di tela del cataletto con un giaciglio di paglia, che veniva di volta in volta bruciato per evitare che potesse divenire strumento di diffusione del contagio.

I SECOLI DOPO LA PESTE

Passata la bufera della peste la Compagnia prese a riorganizzarsi, ricercando soprattutto contributi finanziari a sostegno della sua attività visto che, per carenza di denari, era stata costretta nel 1630 a vendere anche un locale, posto in Firenzuola, dove erano tenute le assemblee dei confratelli. La ripresa fu abbastanza rapida, come testimonia il rapporto sulle condizioni della Compagnia steso in occasione della visita pastorale di Mons. Sfrondati nel 1667, documento utile a fare il punto sullo stato e l’organizzazione interna della Confraternita poco dopo la metà del XVII secolo.

Si legge testualmente: “Questa Compagnia della Misericordia, detta anche di S. Giovanni Decollato, ha un oratorio sotto lo stesso titolo e nel 2 Novembre 1608, venne aggregata a quella omonima esistente in Roma. Gli esercizi spirituali che le incombono sono associar gratis i cadaveri de’ poveri della città ed elargire copiose elemosine in pane e in danaro agli indigenti. Somministra infatti quotidianamente un pane a ciascuno dei detenuti nelle pubbliche carceri: nella notte del Sabato Santo distribuisce egualmente in pane, portandolo alle case, oltre 30 stala di grano, e per 12 staio nella solennità del SS. Sacramento. A firma del delegato dell’Arciprete Paolo Riccobaldi Del Bava nel giorno della Purificazione distribuisce pane per 6 staio di grano, che deve essere somministrato dal maggiorenne della famiglia, sotto grave pena non soddisfacendovi. Unica possessione della Compagnia è un piccolo campo pervenutole per pio legato e le cui tenui rendite, come tutte le altre che le provengono dalla pietà de’ fedeli, sono erogate nelle riferite elemosine: ed ogni rimanente vien custodito in una cassa che conservasi nel monastero di S. Lino, con una chiave presso l’Abbadessa ed altra presso il Camarlingo. Non ci sono obblighi sacri da soddisfare, ma per devozione vi si celebra la festa del Santo titolare e nel dì seguente un uffizio di requiem, al quale intervengono i Cappellani della Cattedrale, e ne’ sabati e nelle feste si recitano le litanie della Vergine. Nel Venerdì Santo si suoi dare al Predicatore che ha narrata la passione del Redentore un volontario munuscolo di lire sette. La Confraternita ha fratelli e sorelle: un priore, un sottopriore, due camarlinghi, quattro distributori d’elemosine per le quali fanno mandato al camarlingo fino alla somma di lire cinque, al di là della quale occorre la licenza del priore, quattro difensori dei carcerati, due procuratori, uno pe’ poveri carcerati in Volterra, l’altro per quelli che fossero mandati nelle carceri di Firenze; ha infine quattro sacrestani e dodici questori di elemosine per la città e pe’ suburbi e di queste vien tenuto esatto registro. L’elezione degli uffizioli si fa ogni sei mesi e per mezzo del capitolo della società. Vestono cappe nere con cappuccio e pazienza cerulei e nelle processioni sono preceduti dal Crocifisso che sta sull’altare della Compagnia”.

In occasione della visita pastorale fu sottoposto all’esame di Mons. Sfrondati il lettuccio/bara che serviva alla Compagnia per il trasporto dei defunti al cimitero e, apparsa evidente la necessità di apportarvi qualche restauro, vi si provvide per gentile interessamento dell’alto prelato. Sempre nella circostanza, dopo la visita ai magazzini del grano, fu anche verificata la consistenza dei fondi giacenti nella cassa tenuta nel monastero di San Lino, venne accertata l’esistenza della non indifferente somma di lire 1139, tra monete d’oro e d’argento. A proposito del piccolo possedimento terriero della Compagnia, citato nel rapporto della visita pastorale, vale la pena di annotare che fu dato in affitto con delibera del 12 maggio 1672 e, con tutta probabilità, venne in seguito venduto, infatti non se ne trova, a partire da questa data, più alcuna menzione. Da quanto risulta dall’atto di delibera, tale possedimento doveva consistere di alcune terre in località Saggio e la decisione di disfarsene fu certo da attribuire alla necessità di realizzare moneta contante per far fronte a impellenti spese per opere carità.

Nessuna notizia interessante emerge dai registri della Compagnia fino al 1763, anno in cui un’apposita commissione, presieduta dal Priore Giovanni Inghirami, capo del sodalizio, e composta dal Cav. Pietro Guarnacci, arcidiacono, oltre che dai sigg. Lorenzo Cecchi, Giuseppe Lecchini, Giusto dott. Cai, Casimiro Amidei e Luigi Lorenzi, provvide a redigere lo statuto della benemerita istituzione, probabilmente su richiesta delle autorità.

Di questo statuto, che sostanzialmente confermava norme e ordinamenti che avevano regolato fino a quel tempo l’operato della Confraternita, merita riportare il capitolo XVIII dal titolo “Della maniera di accompagnare al patibolo i condannati”, che tratta di un compito particolarmente ingrato, svolto dai confratelli, che può offrire al lettore un interessante esempio di bella prosa settecentesca.

Ecco dunque la fedele e drammatica descrizione di un avvenimento, non troppo insolito, che si svolgeva secondo un rituale preciso cui oggi, fortunatamente, non è dato più modo di assistere: “Quando avverrà, che Dio ne liberi, che abbia a seguir giustizia nella nostra città, e che il nostro priore sia stato di ciò segretamente inteso dai signori ministri di corte, tre giorni avanti all’esecuzione della sentenza farà questuare per la città da due sagrestani per il giustiziando, e farà nel giorno, in cui dovrà essere notificata la sentenza al reo, intimare da uno degli aiutanti de’ sagrestani tutti i confortatori che saranno restati approvati da mons.ill.mo e rev.mo e li farà vestire nel nostro oratorio dell’abito della confraternita, e nell’ora che sarà determinata che esca dalle carceri il paziente per esser posto nella cappella del palazzo pubblico, ordinerà che in essa tutti seco si portino ed ivi facciano quanto nel capo superiore sì è accennato. Quei confortatori che non saranno impegnati in assistere ai bisogni e al sollievo spirituale e temporale del paziente, si trattengano nella cappella suddetta a recitare i salmi penitenziali e l’uffizio della beata Vergine ed altre devote preghiere, che non servano dì disturbo al paziente, specialmente allorquando egli si dispone a fare o fa realmente la sua confessione. In tal funesta decorrenza deve il provveditore de’ carcerati prendersi la cura di provvedere ad ogni temperai bisogno che possa avere il paziente medesimo tenendo pronti que’ confortativi e ristori che possono esser necessari in queste terrìbili congiunture. Procurerà inoltre il priore che all’ora determinata dall’ill.mo sig. commissario e suoi sigg. ministri, i nostri confratelli vadano al palazzo di giustizia vestiti dell’abito col cappellone, e fuori della porta di quello attendano che venga fuori il paziente. Appena che esso metterà fuori il  piede della porta suddetta, il nostro cappellano vestito di cotta e di stola farà a lui baciare il crocifisso, e dopo passando per mezzo de’ fratelli, che gli faranno largo dirigendosi in due fila con buon ordine e procedendo essi, il primo di tutti anderà verso il nostro oratorio: i fratelli lo seguiranno coppia a coppia ed i confratelli terranno l’ultimo luogo in detta processione, eccettuati quelli che, come i più esperti e di maggiore spirito, sarà reputato necessario che stiano intorno al paziente, per vie più indurlo ad accettare nella rassegnazione e contrizione la morte. Giunto il paziente nel nostro oratorio ascolti la santa messa, e qualora abbia bisogno di riconciliarsi gliene sia data la opportunità, fatta che avrà il sacerdote l’elevazione dell’ostia consacrata, si schieri di nuovo la processione nell’ordine che sopra, con condizione che i quattro de nostri confratelli aiutanti de’ sagrestani portino dietro al paziente la sedia per rinfranco del medesimo, qualora gli piaccia farne uso. uopo tal sedia ne venga la bara portata da quattro nostri confratelli. Da due sacerdoti confratelli si recitino con voce lugubre le litanie de santi nella maniera che si sogliono dire per un agonizzante. Il priore o chi ad esso piacerà porti seco una scure o altro tagliente strumento per poter recidere la fune da cui starà appeso il giustiziato. Quando il paziente sarà presso il patibolo, venga baciato e prima che sia tratto sopra il medesimo sia riconciliato e asperso dell’acqua santa dal nostro cappellano e assistito colla più efficace premura da due confortatori. Appena il carnefice avrà eseguita la sentenza, il di lui cadavere sia immediatamente in nostro potere, e perciò il priore o altro fratello come sopra, lo levi dal patibolo tagliando la fune, e venga posto entro la bara, (qualora per motivo di maggiore infamia non debba questo esser sepolto sotto il patibolo) ed in quella coperto col panno nero venga associato al nostro oratorio, acciò ivi gli si facciano le esequie e gli diano poi sepoltura”.

Ogni commento a tanta barbaria consumata secondo il rito dell’epoca è assolutamente superfluo. Raccapriccianti sono l’atmosfera e il significato di una pubblica esecuzione, alla quale pare partecipare anche chi consola, chi da un ultimo sorso d’acqua al condannato, poiché si tratta di un’assistenza interna al cerimoniale di morte e pare naturalizzare come accettabile e legittimo il pubblico uccidere. Con i loro cappucci i misericordiosi sembrano condividere l’apologia del supplizio e quasi contribuirvi. E’ invece da considerare, e apprezzare, come la Misericordia conferisse un ultimo barlume di dignità al derelitto di turno, che aveva tutti contro, dal boia al pubblico vociente, assiepato per assistere all’esecuzione.

Ma torniamo alla storia della Confraternita per annotare che essa ottenne dalle autorità, in data 17 gennaio 1782, la donazione della vecchia campana di S. Giusto che, posta sulla torre del Duomo, servì da quel momento per convocare i confratelli. La piccola campanella precedentemente in uso, ormai inadeguata, fu posta a riposo. Sempre in quegli anni Monsignor Buonamici, accogliendo una petizione della Confraternita, concedeva il diritto a nuove sepolture nel cimitero urbano, allora nei pressi di S. Giovanni, dietro pagamento di mezza libbra di cera per la tumulazione di un confratello e di una libbra per quella di un estraneo. Nel 1785 la Compagnia, in conseguenza delle leggi leopoldine, al pari di altri sodalizi con le medesime caratteristiche e finalità, fu disciolta tra lo sgomento della popolazione; la sospensione delle sue tradizionali attività afflisse Volterra per circa un lustro. Già nell’aprile del 1790 si cominciò, da più parti, a far pressione sulle autorità affinché un’istituzione tanto benemerita potesse tornare in vita. Il 17 di quello stesso mese venne presentata ai Gonfalonieri e ai Priori una richiesta scritta dai parroci di città e di campagna, ove si sollecitava la ricostituzione della Compagnia della Misericordia, poiché le locali congreghe di carità non riuscivano assolutamente a provvedere al trasporto dei malati all’ospedale e sempre minore era il numero di coloro che si prestavano alla sepoltura dei morti. La richiesta fu appoggiata dal parere ampiamente favorevole di tutti i medici condotti e I’8 maggio dello stesso anno il signor Francesco Naldini riceveva dai Priori l’incarico di farsi portavoce della relativa supplica presso il governo. Contemporaneamente veniva dato agli ex – confratelli il permesso di riprendere le tradizionali attività e, un anno dopo, le stesse autorità cittadine stanziavano i fondi necessari all’acquisto di un cataletto per il trasporto dei malati all’ospedale.

Dal 1790 al 1791 si può dire che la Compagnia, pur ufficialmente non esistente, contribuì ugualmente al miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie della città. Alla fine, anche per l’interessamento di alcuni notabili Volterrani, come il cav. Niccolo Maffei, il primicerio Carlo Leonori, il dott. Giusto Cai e il sig. Giuseppe Buonamici, il permesso di formare il sodalizio fu concesso, con motu proprio granducale, il 13 agosto 1791 e, il 14 del mese successivo, la Segreteria del Regio Diritto ne approvava i capitoli sotto il titolo di Compagnia di S. Giovanni Decollato o della Misericordia di Volterra. Grande fu la soddisfazione dei cittadini e notevole la riconoscenza verso il governo, che in fin dei conti aveva avuto la bontà dì riconcedere ciò che prima aveva tolto, secondo gli usi di una ricorrente politica per la quale; “prima levare e poi dare serve a… lasciare tutto uguale”.

In base ai nuovi statuti la Compagnia ebbe un priore, un sottopriore, due consiglieri, un camarlingo, un campioniere, due sindaci, un segretario, un cappellano, due sagrestani e rispettivi aiutanti, quattro uomini di carità e otto assistenti alle deliberazioni, estratti a sorte ogni anno; il sodalizio comprendeva molti “ufficiali”, non aveva però un luogo dove riunirsi per le sacre cerimonie e dovette attendere qualche mese per ottenere dal Capitolo dei Canonici l’uso dell’oratorio di S.Antonio. Si trattò però di una sistemazione provvisoria dato che, grazie ai contributi di tutti i cittadini, fu deciso, nell’aprile del 1796, di fabbricare presso il Duomo il nuovo oratorio. Nel luglio dello stesso anno si dava il via ai lavori, sotto la direzione dell’ing. Giuseppe Franchini; dopo circa tredici mesi, tra la soddisfazione generale, l’oratorio fu finito e, grazie alla solidarietà della cittadinanza, furono pagate tutte le spese della costruzione. Il 28 agosto 1797, in pompa solenne, avvenne l’inaugurazione con una Messa celebrata dall’Arciprete Luigi Riccobaldi Del Bava e la sera dello stesso giorno vi fu cantata una sacra composizione, il Giobbe, scritta e appositamente stampata per l’occasione. L’anno successivo fu solennemente istituita nell’oratorio la compagnia dell’Adorazione Perpetua del Santissimo Sacramento cui, nel 1799, si aggiunse la venerazione della Madonna di Arezzo, immagine allora molto nota poiché si trovava sui vessilli delle bande toscane che cacciarono dalla regione, con una guerra popolare, i Francesi occupanti.

DAL GRANDUCATO AL REGNO D’ITALIA

La nuova Compagnia, già aggregata da quasi due secoli a quella della Morte e dell’Orazione esistente a Roma, fu insignita nel 1800 del titolo di Arciconfraternita e, ispirandosi agli ordinamenti della simile istituzione fiorentina, elesse, per la prima volta nel marzo 1802, dodici capi guardia a comando delle brigate e di lì a poco ne aumentò il numero a trentasei. Di questi, oltre a dodici sacerdoti, facevano parte anche due capi guardia onorari, il Vescovo della città e il Granduca di Toscana che, accettando l’onore tributategli, si impegnava a considerare sotto la sua protezione la Compagnia. Nel 1804, dopo l’aggregazione all’omonimo sodalizio fiorentino, l’Arciconfraternita ottenne, per interessamento del priore Leonori, che la campana della torre del Palazzo dei Priori, ormai in disuso, fosse collocata, a spese della Compagnia, nel campanile della Cattedrale per convocare i confratelli alle opere di carità e alle funzioni religiose. A pochi anni di distanza infine, e precisamente al 1807, risale l’abbellimento della facciata dell’oratorio con inserimento della terrazza e del pietrame alla porta e alle finestre, su disegno dell’ing. Luigi Campani.

Il colera che afflisse Volterra nell’agosto 1855, provocando sessantacinque morti, trovò una Compagnia della Misericordia ben organizzata e in grado di far fronte ai bisogni della cittadinanza; i fratelli seppero provvedere ordinatamente alle necessarie tumulazioni e al trasporto dei malati al lazzaretto. Un’ampia documentazione ancora esistente ci ricorda come nella circostanza furono adottate, ed era la prima volta, tutte le precauzioni possibili per tutelare la salute di chi si prestava al pericoloso ufficio. Tali precauzioni costituirono nel 1874 parte integrante dello Statuto dell’Arciconfraternita; all’articolo 85 venivano canonizzate le regole per raccogliere un ammalato grave “sì prende il coltrino, al quale è attaccato un nastro, e arrotolato che sia, si colloca sotto il capo dell’infelice; quindi si prendono le fasce e ad una ad una, per mezzo della stecca, si introducono delicatamente sotto l’ammalato e precisamente una sotto le spalle, che corrisponde alle broccia, la seconda ai lombi, l’altra a mezzo le cosce e la quarta sotto le gambe, si solleva prima la fascia delle spalle per introdurre il coltrino, e poi le altre finché il coltrino non sia al suo posto. Col coltrino ad un cenno del Capo guardia, si alza l’infermo e si porta nel cataletto, lasciando le fasce ove si trovano per ripetere la stessa operazione nel collocare l’ammalato nel letto dello Ospedale” : perimenti per ” le mute di letto”, cioè per i cambi delle lenzuola agli affetti da malattie contagiose, ci si serviva di una specie dì argano (pegroleva), che permetteva di sollevare il malato e togliere rapidamente da sotto le lenzuola sporche. L’associazione degli ammalati all’Ospedale, le mute, il trasporto dei defunti al cimitero e l’assistenza notturna ai fratelli infermi erano tra gli uffici di carità tradizionalmente e scrupolosamente praticati dagli affiliati alla Compagnia.

Secondo le norme del sopra citato statuto, regole precise presiedevano allo svolgimento di tali opere di misericordia; se l’apposita campana, posta nel campanile della Cattedrale, suonava a distesa per tre minuti, e quindi riprendeva dopo dieci, convocava i fratelli per un ordinario ricovero di un malato all’Ospedale, se diffondeva due repliche e tre tocchi comunicava che si trattava di un caso urgente, se batteva l’Ave Maria a tre riprese significava che c’era bisogno di trasportare un defunto dalla casa alla chiesa e di lì al luogo di sepoltura.

Un capo guardia provvedeva alla formazione della brigata che doveva adempiere alle opere di carità, non prima che fosse passata mezzora dal rintocco della campana, a meno che non si trattasse di un caso urgente, nella quale circostanza, non appena si fosse riunito un sufficiente numero di fratelli, indicava dove occorreva dirigersi rapidamente. Se il capoguardia si accorgeva, durante il trasporto all’ospedale, di un aggravamento delle condizioni dell’infermo era suo dovere fermarsi e procurare al morente l’assistenza di un sacerdote. Se il malato decedeva per strada il servo della Compagnia veniva inviato a dare avviso dell’avvenuto decesso all’ospedale, affinché fossero presi gli opportuni provvedimenti per l’arrivo del morto. Il servo, sopra menzionato, era un dipendente, regolarmente stipendiato, che svolgeva diverse funzioni, era un po’ il «factotum» dell’Arciconfraternita; doveva essere reperibile in qualunque ora del giorno e della notte nelle stanze della Compagnia, eseguiva gli ordini dei diversi ufficiali, portava gli inviti per le adunanze, suonava la campana, distribuiva le cappe, col permesso del massaio, apriva e chiudeva l’Oratorio della Misericordia, curava la pulizia degli ambienti, dei quali vennero a far parte per successivi acquisti nel 1851 e 1876 le varie stanze dell’edificio sorgente nella piazza del Duomo, lateralmente alla chiesa della Misericordia, proprio in quei luoghi dove era esistito il piccolo Oratorio di S. Giovanni Decollato e in cui la Confraternita aveva avuto la sua prima sede. In questi locali i fratelli si riunivano per le adunanze e per formare le brigate che dovevano svolgere le varie opere di carità.

Regole severe ancora una volta stabilivano abbigliamento e portamento di chi partecipava all’esecuzione dei servizi: si doveva essere vestiti della cappa di tela nera, con buffa e cappello, non era concesso incapparsi a chi non portava scarpe e calze ed era desiderabile che i fratelli avessero calze nere, ghette o stivali, non era permesso alzare la buffa se non in strade remote e fuori dalle porte della città; atti sconci erano considerati il sedersi sulle stanghe del cataletto, in attesa della partenza della brigata, o il parlare durante un trasporto. Chi incorreva in queste mancanze rischiava di essere radiato dalla Compagnia.

Tra le encomiabili iniziative della Arciconfraternita c’era anche l’annuale distribuzione di doti a fanciulle povere. Qualunque fratello che avesse prestato servizio con particolare assiduità poteva presentare una ragazza aspirante alla dote. Questa doveva essere iscritta alla Misericordia, aver compiuto i diciotto anni e non superato i trentacinque, essere di buoni costumi attestati da certificato del Parroco. Nella sera dell’Epifania venivano sorteggiati i nomi delle fanciulle che avrebbero conseguito la dote, purché fossero convolate a nozze durante l’anno. I fondi per le doti provenivano da elargizioni dei notabili della città e annualmente si provvedeva a beneficiare con quanto raccolto sei o sette maritande.

Pensando agli oneri cui si sottoponevano i fratelli della Compagnia, qualcuno giustamente si domanderà quali fossero gli onori in contropartita. Si trattava, per la verità, di una ricompensa oggi non troppo apprezzata ma allora tenuta in gran conto.

Allorché veniva meno un capo guardia, un ufficiale, un fratello benemerito, cioè qualcuno che avesse accumulato meriti nelle tradizionali mansioni della Misericordia, la Compagnia provvedeva al trasporto della salma, prima alla chiesa e quindi al cimitero secondo un cerimoniale preciso, previsto dallo statuto dell’Arciconfraternita; ricevuta notizia della morte di uno degli affiliati sopra ricordati, fatta suonare l’Ave Maria per un quarto d’ora, il servo si portava all’abitazione del defunto e dopo averlo rivestito della cappa nera apprestava la camera ardente. Alle ventitré e trenta risuonava ancora l’Ave Maria e, a mezzanotte, una brigata dell’Arciconfraternita si recava alla casa del morto e provvedeva al trasferimento della salma alla Chiesa della Misericordia, in pompa magna con ceri e cantori. Qui si svolgeva una solenne cerimonia funebre e, sorto il giorno, all’ora stabilita da un apposito regolamento, si procedeva, sempre in maniera più o meno solenne, a seconda dell’importanza dell’estinto, al trasporto del cadavere al cimitero e alla tumulazione in una cappella o altro luogo scelto dal fratello prima della morte. Un bel funerale veniva così a essere la ricompensa per chi aveva trascorso la vita nell’aiutare il prossimo.

L’avvenuta unità dell’Italia, nel 1861, e la successiva proclamazione di Roma capitale del regno avevano nel frattempo mutato il quadro di riferimento politico e legislativo, non più locale, per le associazioni di volontariato. Da qui la costituzione nel 1899 della Federazione delle Misericordie, sorta a Pistola a seguito del primo Congresso nazionale, che vide l’adesione di 45 sodalizi, impegnati a tutelare il più possibile la tradizionale autonomia amministrativa e gestionale.

La Compagnia della Misericordia di Volterra, dopo aver ottenuto, nel 1884, la medaglia di bronzo all’esposizione di Torino, nel 1890, in ossequio alle disposizioni della legge Crispi, passò sotto il controllo prefettizio, perdendo così un po’ di quella caratteristica autogestione, ma conservando inalterato tra gli affiliati l’entusiasmo per i propri compiti e il desiderio di far sempre meglio.

IL NOVECENTO

La Confraternita fu impegnata, di lì a poco, a far fronte all’assistenza richiesta dalla popolazione e dai molti profughi trasportati nel nostro territorio dalla Grande Guerra. Non pochi problemi alla sopravvivenza delle Misericordie creò il successivo regime fascista quando, nel tentativo di ricondurre ogni intervento assistenziale sotto il controllo dello Stato, dispose la confisca dei loro beni a favore della costituenda Croce Rossa Italiana. Fortunatamente le disposizioni non trovarono rigorosa applicazione anche, e soprattutto, per l’intervento del re Vittorio Emanuele III, che, tra l’altro, presenziò il Congresso nazionale delle Misericordie che si tenne a Viareggio nel 1926. Il progresso veniva incontro alle crescenti esigenze della locale Compagnia della Misericordia che, nel corso della prima metà degli anni ’20, mise in funzione, accanto alle tradizionali portantine a mano e ai carri a trazione umana o ippica, una moderna autoambulanza e un’auto funebre Fiat, quest’ultima sormontata da un cassone in gran pompa che, in seguito, fu riadattato su una più recente Lancia-Astura rimasta poi in servizio per molti anni. Il primo autista della Misericordia fu 11 il Toni “, per decenni fedele “servo” della Misericordia e presenza costante in tutte le foto dell’epoca. Sul finire degli anni trenta la Compagnia era un’istituzione ben funzionante, dotata di due moderne ambulanze tanto che i tedeschi, al passaggio del fronte, pensarono bene di portarsele via. La guerra vide i fratelli della Misericordia prodigarsi per alleviare le miserie e le crudeltà che il conflitto inevitabilmente si portò dietro, basti ricordare la tragica esplosione della Caserma di Volterra. Il conflitto segnò profondamente la Compagnia, tanto che nel 1948, dopo quasi sette secoli, fu sul punto di cessare ogni attività per mancanza dì fondi e dì mezzi. Una commissione straordinaria, con pieni poteri, presieduta da Eugenio Logorio, fu incaricata di fare tutto il possibile per porre rimedio alla difficilissima situazione e in tre anni di indefessa attività vi riuscì pienamente. Per gli eventi bellici, erano andate perse l’autoambulanza più moderna, come detto sopra, e l’auto funebre; era rimasta in funzione solo una vecchia Fiat tipo 2, definita però dalla stessa commissione “insufficiente e indecorosa”, tanto che si provvide all’acquisto di un “Dodge”, un mastodontico autocarro americano, che si rivelò subito costoso nella manutenzione e inadeguato a circolare per le strette viuzze volterrane, tanto che fu riattivato il vecchio carretto a mano di inizio secolo, il mitico “cannoncino di volata”. La scarsità di mezzi e i debiti contratti raffreddarono molto le simpatie dei Volterrani per l’Istituzione e, come spesso accade quando una società è moribonda, cominciarono presto a scarseggiare anche gli affiliati. Davanti a questa situazione la Commissione dovette davvero darsi un gran da fare. Attraverso una campagna per la raccolta di contributi straordinari, l’intensificazione degli accatti settimanali, il ripristino del controllo direttivo, amministrativo e contabile, anche con l’adeguamento delle tariffe di alcuni dei servizi prestati, sì da esercitare le opere di assistenza senza paurose rimesse, il passivo prese gradualmente a diminuire e già nell’assemblea generale del 6 marzo 1949 si cominciò a parlare di vendere il “Dodge” e di acquistare una più modesta e funzionale Fiat, alla quale accoppiare un’auto funebre almeno decorosa. Il programma fu rispettato di lì ad un anno e, per quanto difficile fosse stato trovare un acquirente del “Dodge”, grazie all’aiuto della Cassa di Risparmio di Volterra e alla ritrovata solidarietà dei cittadini, la Misericordia fu dotata di due fiammanti 1100 Fiat, adattate una ad autoambulanza e una a carro funebre. L’anno successivo la Commissione amministrativa straordinaria cessò la sua attività, dopo aver riassettato il bilancio e l’organizzazione della Compagnia, lasciando le redini della Confraternita ad un Magistrato eletto a norma di statuto che, subito, designò Governatore lo stesso Logorio. Per convenzione gli ultimi cinquanta anni si considerano cronaca e non ancora storia; il nostro raccontare si ferma dunque a metà del XX secolo, ma siamo certi che i Volterrani ben sappiano riconoscere, e apprezzare, nell’opera presente della loro Confraternita lo stesso spirito di carità e di sacrificio di quei facchini che in Firenze, molto tempo fa, dettero vita, stando alla leggenda, alla prima Compagnia della Misericordia.

© Arciconfraternita della Misericordia di Volterra, RENATO BACCI – SUSANNA TRENTINI
In “La Compagnia della Misericordia di Volterra: Sette Secoli di Solidarietà” , pp. 4-21
Arch. della Curia Vescovile: Visita Castelli, carta 50;
AA.VV., Atti del primo congresso delle Associazioni della Misericordia, Pistoia, 1899;
AA.VV., Dizionario di Volterra, a cura di Lelio Logorio, Pisa, Pacini, 1997;
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