La Compagnia della Misericordia

La Compagnia della Misericordia è certo una delle istituzioni più antiche della nostra città, è ancora attiva e ancora, come nei secoli passati, meritevole della riconoscenza e della stima di tutti i Volterrani. Ricostruirne la storia vuoi dire quindi rendere il dovuto omaggio a chi nel tempo ha cercato di far del bene a Volterra e a chi tuttora, con pari passione e identico spirito di carità, persegue lo stesso obiettivo.

Già nel 1881 un illustre fratello della Compagnia, Annibale Cinci, ne portò a compimento una monografia di notevole interesse, per la serietà d’indagine e per l’attendibilità dei documenti cui fece riferimento; quest’opera è stata guida al nostro lavoro e ci riterremo più che soddisfatti se, alla fine, riusciremo a ricostruire la storia della Misericordia con la stessa acutezza e capacità di analisi del nostro illustre predecessore. Ove tuttavia se ne presenterà occasione, introdurremo considerazioni, che non vogliono essere una critica al lavoro del Cinci ma una semplice espressione di personali giudizi, e notizie, che non debbono apparire un rimprovero alla sua capacità di indagine, ma l’aggiornamento di chi ha potuto muoversi in archivi più ordinati di quelli a disposizione del nostro Annibale.


LE ORIGINI DELLA MISERICORDIA

Secondo quanto indagine storica e tradizione ci raccontano, la prima Compagnia della Misericordia si costituì a Firenze nel 1244 ma sarà motivo di soddisfazione per i Volterrani sapere che la nostra città fu tra le più sollecite a seguire, a distanza di poco tempo, l’edificante esempio dei Fiorentini. La storia dell’origine della Confraternita fiorentina della Misericordia va inserita nel clima culturale e sociale del XIII secolo che vide fiorire un po’ ovunque, ma particolarmente in Toscana, confraternite o compagnie laicali a sostegno dell’opera della Chiesa. Possiamo identificare quattro tipi di aggregazione: confraternite di devozione, la cui principale attività fu la preghiera e servirono ad avvicinare i laici alla liturgia, confraternite di penitenti, che fecero dell’autoflagellazione strumento di redenzione, confraternite di arti e mestieri, riunite nel culto di un santo protettore della professione e nel mutuo soccorso tra gli affiliati, e infine confraternite di beneficenza, sorte per spirito di carità a lenire le sofferenze del prossimo; tra queste ultime troviamo, appunto, le Compagnie della Misericordia. A differenza delle coeve aggregazioni religiose, le compagnie laicali non imponevano voti né l’obbligo di vivere in comunità.

Sempre più spesso, a supporto di queste istituzioni, l’autorità ecclesiastica emetteva formali decreti cui seguiva l’adozione di uno statuto che definiva gli obiettivi della confraternita e ne regolava i rapporti tra gli adepti. La storia di molte confraternite medievali si sviluppò pertanto in stretta connessione con la storia della Chiesa, sempre attenta a controllare che l’opera di queste compagnie si muovesse nell’ambito della corretta applicazione dei precetti del cristianesimo senza sconfinare, come talvolta accadde, nell’eresia. Le confraternite trovarono subito consenso in tutti gli strati sociali per l’esempio che seppero dare prodigandosi verso il prossimo, ossequiose al principio evangelico “…dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo loro” (Matteo 18, 20).

In questo contesto storico si organizzò in Firenze, nel 1244, la prima Confraternita della Misericordia che ebbe il padre fondatore nel frate domenicano Pietro da Verona dell’ordine dei predicatori. Erano tempi di accesa conflittualità tra Chiesa e Impero, tempi di guelfi e ghibellini. Nel 1240 l’imperatore Federico II, scomunicato da Papa Gregario IX, aveva tentato di occupare Roma e l’anno successivo le navi ghibelline dei Pisani avevano abbordato, a largo della Meloria, il convoglio che portava a Roma i prelati per il Concilio.

Federico II sosteneva l’azione militare con un deciso appoggio politico a tutti coloro che dimostravano insofferenza verso l’autorità della Chiesa, così a Firenze non poca difficoltà incontrava l’Inquisitore della città, il frate domenicano Ruggero Calcagni, a far sì che il Podestà, di chiara fede ghibellina, assumesse provvedimenti nei confronti della diffusione dell’eresia patarina. L’inquisitore richiese l’intervento di un esperto predicatore, già distintosi qualche anno prima a Milano, Fra’ Pietro da Verona, pure lui domenicano.

Questi arrivò nella città del giglio nel 1244. Fra’ Pietro si dette immediatamente da fare e oltre a predicare, con encomiabile fervore, dal pulpito della cattedrale di Santa Reparata, organizzò in Firenze la “Società della Fede”, una vera e propria milizia che in poche settimane seppe ripulire Firenze dagli eretici potarmi. Alla fine del 1245 il nostro frate, compiuta la sua missione, lasciò Firenze, ma già l’anno prima la “Società della Fede”, non avendo più motivo di esistere, si era sciolta dando vita a tre Compagnie, quella della Vergine, quella del Bigello e quella appunto della Misericordia. Fra’ Pietro fu assassinato pochi anni dopo in un agguato ghibellino a Barlassina, tra Como e Milano, e per questo proclamato santo e martire. Gli sopravvisse la Compagnia della Misericordia da lui fondata, capostipite di consimili aggregazioni che in breve tempo presero corpo in tutta la Toscana: a Siena nel 1250, a Pontremoli nel 1262, a Rifredi nel 1280, a Volterra nel 1290.

E poi tantissime altre sorsero progressivamente, fino al XVI secolo, in quasi tutti i centri grandi e piccoli della nostra regione ed ancora, nei secoli successivi, in molte altre città italiane. Questa la storia della costituzione della prima Compagnia della Misericordia in Firenze come ci viene proposta in documenti redatti circa un secolo più tardi. E’ certo comunque che quella di Volterra fu in assoluto, per data di costituzione, la quinta Confraternita della Misericordia in Toscana e di conseguenza, per quanto detto sopra, in Italia.

Accanto alla storia sta la leggenda e vale la pena raccontarla, perché sicuramente più gradevole al lettore e più consona allo spirito di spontanea carità che è alla base di ogni atto di misericordia, soprattutto meno contaminata dalle vicende politiche del tempo. Forse, proprio per questo, più vera della storia stessa. Correva l’anno 1240 e tanto fioriva nella città del giglio l’arte della lana che erano state istituite, per l’incremento di tale attività, due fiere: una per San Simone, l’altra per San Martino.

Il giro degli affari si valutava intorno ai 15 milioni di fiorini e c’era notevole possibilità di lavoro per un gran numero di facchini. Dante non era ancora nato e il nostro volgare si avvaleva solo delle rime piuttosto rozze e farraginose di Guittone. Ma se la lingua letteraria non riluceva in tutto il suo dantesco splendore, già Firenze si distingueva in un genere espressivo tanto deplorevole quanto tutto “maledettamente toscano”, la bestemmia, posta spesso ancor oggi a guisa di commento intercalato per punteggiare la normale conversazione.

Racconta Annibale Cinci (La Compagnia della Misericordia in Volterra, 1881), recependo questa leggenda nelle sue memorie, che i facchini “avevano preso a luogo di riunione una cantina sulla piazza di Santa Maria del Fiore e in quella convenivano, dopo le faccende, a passare le ore di riposo in allegra e sollazzevole brigata”. Tra un bicchiere e l’altro, tra allegre discussioni, motteggi e scherzi questi bravi lavoratori sembra indulgessero alquanto al “turpiloquio e alle bestemmie, vizio quasi comune a quella gente rozza e incolta…”.

C’era tra loro un certo Pietro di Luca Borsi, piuttosto avanti con gli anni, “vago dell’onesto passatempo e della gioconda compagnia…” amante certo anche lui del buon vino, ma “buon cristiano… per cui gli appellativi, di cui era fatto oggetto nostro Signore, gli mandavano spesso di traverso quel vin santo e glielo facevano sembrare aceto “. Quindi “…a corregger ne suoi e ad estirpare un tanto male, propose che, quantunque volte alcuno di essi se ne fosse reso colpevole, dovesse porre una crazia in una cassetta all’uopo destinata. Fu la proposta di buona voglia accolta e quantunque i facchini si studiassero di tenere a freno la lingua non tanto per secondare il di Luca, cui tutti riguardavano quasi loro padre e capo, quanto per non cader nella multa, pure attesa la inveterata abitudine, si vide ben presto raccolta una somma non piccola “. Così racconta la leggenda, ma non pensiamo di essere troppo lontani dal vero immaginando che il nostro Pietro accompagnasse anche con qualche generoso e robusto scappellotto le sue reprimende ai compagni, che si disponevano così più di buon animo a versare la crazia in remissione dei loro peccati. Comunque si siano svolti i fatti, “Il buon Pietro nel doppio intendimento di ingentilire la gente e il cuore di quei suoi compagni e di profittare dell’opera loro a vantaggio della miseria e della indigenza, si die ad una seconda proposta e fu quella di far costruire sei zane capaci di potervi adattare una persona, destinare queste zane una per ciascun sestiere della città, e con quelle far trasportare per mezzo de’ suoi compagni i poveri infermi agli Spedali, non che gli impotenti o i caduti da fabbriche, o gli ammalati casualmente per via, e tutti quelli insomma che ne avessero avuto bisogno, e ciò colla ricompensa di un giulio a ciascun de’ portatori. Piacque a quella buona gente anche questo secondo progetto…”.

Le zane (dal longobardo zaino, stessa etimologia di zaino) erano ceste di ragguardevoli dimensioni al punto di contenere un uomo rannicchiato. I nostri simpatici facchini, bestemmiatori sì ma bravi cristiani, si votarono a riempirle di ammalati per trasportarli agli “spedali” dell’epoca, modesti centri di raccolta e di ancor più modesta assistenza sanitaria, allestiti generalmente in prossimità delle chiese.

“Questa bell’opera di cristiana carità, che rinnovellavasi ben di sovente – si legge ancora nello scritto di Annibale Cinci – era di edificazione a’ fiorentini, i quali offrivano bene spesso vistose ricompense a que’ buoni operai, che venivano da loro con nobile disinteresse rifiutate..”. Alla morte di Pietro, un altro facchino, desideroso di continuare la pia istituzione, “provvide una tavola colla effigie della Pietà e, collocata la medesima sopra una cassetta colla iscrizione elemosine pe’ poveri e gli infermi, la pose alla porta di San Giovanni il giorno del perdono (31 Gennaio), nella intenzione di raccogliere tanto denaro per poter comprare una stanzetta da ridursi a oratorio, per le pratiche religiose e per le adunanze de’ suoi confratelli “.

Furono così abbondanti le offerte dei fedeli che la somma arrivò a 500 fiorini, più che bastanti allo scopo prefisso …“e in breve tempo si vide aperto sulla cantina stessa il modesto oratorio, dove, dopo qualche anno, l’Arcivescovo Giovanni Vitelleschi inaugurava la nuova Confraternita ad onore di Maria SS., del S. Pietro martire, e di S. Giovanni Battista; e ponendo i fratelli sotto lo speciale patrocinio del S. Tobia, lo proponeva loro ad esempio nelle opere di misericordia”. Così, secondo la leggenda, nacque la Compagnia fiorentina della Misericordia che di lì a poco si dette una specie di statuto, distribuendo oneri e onori tra gli affiliati.

Se guardiamo alla miscellanea di storia e leggenda che ci racconta come si formò la Confraternita non possiamo fare a meno di constatare che essa fu il parto di elementi contrastanti: alla sua origine non troviamo soltanto un inquisitore, ma anche l’onesta birbanteria e la genuinità brillante delle brigate, che valsero la loro energia, la blasfemia stessa, ali’ aiuto di chi aveva bisogno. Sembra di sentire un’intensità di risa, amicizie, contatti che ci aiutano a provare più empatia verso il nascere della Confraternita. Qualcosa ce la rende più giovane, più vicina se immaginiamo una monelleria divertente che trova il modo di essere buona e profondamente cristiana senza altisonanti e senza roghi.

Crediamo che sia moderno interrogarsi su quanto della carità reale provenga dalle prediche e quanto, invece, provenga dal naturale e spontaneo gusto della vita condivisa. La leggenda di Pietro di Luca Borsi ci piace, ci piace perché racconta un po’ di noi, di vite che secoli fa parlavano la lingua della socialità molto più che quella dell’ufficialità. Per questo, anche se la leggenda è per antonomasia solo fantasia, ci coinvolge. E poi in tutte le leggende c’è qualcosa di vero.

E’ certo infatti che furono proprio i facchini a prendersi cura, di lì a poco, delle migliaio di appestati durante le epidemie che colpirono Firenze tra il 1325 e il 1348. Se lo fecero su incarico della Compagnia della Misericordia o per spontanea risposta, come corporazione, ad una esigenza della città non è dato sapere, di certo lo fecero.

E’ un fatto che i facchini furono a più riprese visti caricarsi sulle spalle morti e moribondi e che la loro opera fu molto apprezzata in Firenze, tanto da produrre, probabilmente nel XIV secolo, la leggenda di Pietro di Luca Borsi. Forse all’origine della Confraternita Fiorentina ci fu un’iniziativa di laica carità della quale meriti e strutture furono a posteriori, sempre nel corso del milletrecento, rivendicati dalla Chiesa.

Una testimonianza diretta di che cosa sia accaduto in occasione della peste del 1325 ce la fornisce Giovanni Boccaccio in un passo del suo Decamerone in cui si dice che le esequie funebri erano mansione “di beccamorti, sopravvenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini “. Ora, “minuta gente” è sinonimo di “basso ceto sociale” quindi più probabilmente di facchini che di affiliati a ordini religiosi o a confraternite riconosciute ufficialmente; questo spiegherebbe come, nello stesso brano, ser Giovanni possa liberamente esprimere il proprio disprezzo per questa categoria di persone che egli dice “questi servigi prezzolata facea”.

Non possiamo far a meno di notare come la Misericordia tragga origine da una sorta di solidarismo quasi primitivo, dove, in un inevitabile compromesso tra il cuore e il mondo, non ci appare scandaloso che l’opera di carità fosse sostenuta da quel “tenue salario” così spesso menzionato anche nei regolamenti ottocenteschi delle Misericordie. Del resto, portarsi dietro un appestato non era né edificante né igienicamente consigliabile e di certo non vi era un’immensa schiera di “buoni cristiani” disposti comunque a farlo! E viene naturale riflettere sul fatto che per operare nel mondo servono compromessi inevitabili, dolorosi quanto il peso di non tentare neanche un rimedio a tante ingiustizie; per modificare la realtà bisogna calarsi in essa, anche e soprattutto laddove appare più sgradevole.

Quello dei facchini era un lavoro da povera gente, che per campar la giornata si assumeva un compito ingrato e pericoloso, era un lavoro insomma da… facchini e…, a dispetto della storia ufficiale, ancora una volta a noi piace pensare più a loro che a Pietro da Verone, neppure toscano, come fondatori della prima Compagnia della Misericordia.

In ogni caso, tornando nello specifico dell’informazione sulla Confraternita, possiamo dire che tra storia, da assumere con riguardo, e leggenda, cui guardare con simpatia, alcuni punti fermi circa l’origine della Prima Compagnia della Misericordia li possiamo comunque fissare:

1) fu fondata in Firenze attorno alla metà del XIII secolo, probabilmente nel 1244;

2) ebbero un ruolo importante, nell’attività iniziale della Compagnia, i facchini fiorentini;

3) servì da modello a consimili Confraternite che nacquero in altre comunità toscane tra le quali, probabilmente nel 1290, la Compagnia della Misericordia di Volterra.

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© Arciconfraternita della Misericordia di Volterra, RENATO BACCI – SUSANNA TRENTINI
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