Il presente saggio trae origine da una relazione presentata al convegno su «Esperienze di potere personale e signorile nelle città toscane (secoli XIII-XV)», tenuto in città dal 21 al 23 ottobre 2011, e sarà pubblicato anche nei relativi atti a cura di A. ZORZI. Si avverte che tutte le date citate nel testo sono riportate allo stile moderno.
Nell’autunno del 1340 il governo fiorentino era turbato dalla piega che stava prendendo la situazione politica nella vicina terra di Prato, dove le lotte di fazione fra i Guazzalotti da un lato e i Pugliesi e Rinaldeschi dall’altro esponevano a gravi rischi le istituzioni repubblicane1. Nella missiva inviata il 24 ottobre al re di Napoli Roberto d’Angiò, per informarlo degli eventi pratesi e sollecitarlo ad intervenire, i priori indicano espressamente l’origine della loro apprensione: il recentissimo precedente volterrano2.
Al sovrano angioino si rammenta, infatti, come «Vulterrarum civitas, de qua dolendum est, noviter tyranpnidi subiugatur»; un fatto, continuano i priori, che ha scosso l’intera Toscana, tanto da far temere che il «flagitium» abbattutosi su quella città possa risolversi in un pessimo insegnamento per Prato e le altre località della regione.
Il riferimento è agli avvenimenti volterrani di appena un mese e mezzo prima, sfociati nell’instaurazione di un regime che, come si è visto, i Fiorentini non tardarono ad etichettare come tirannico (non diversamente, del resto, dai cronisti senesi3) e al quale attribuirono una nocività che andava ben oltre le future relazioni con quella città, storicamente alleata, scorgendovi un potenziale focolaio epidemico di sistemi di potere incompatibili con l’ideale repubblicano e difficilmente controllabili.
L’insana lezione che usciva dalle mura di Volterra aveva un suo ben definito ’cattivo maestro’: Ottaviano Belforti. Da decenni protagonista della lotta politica locale, venuto in urto da almeno vent’anni con la fazione che faceva capo agli Allegretti, egli si era fatto promotore l’8 settembre 1340 di un vittorioso colpo di mano militare, dando inizio ad una forma di governo signorile destinata a durare per ventuno anni.
Se ci spostiamo al punto terminale di quella inedita esperienza politica, troviamo un documento di tutt’altra natura che pare tuttavia riecheggiare i timori manifestati inizialmente nella citata lettera al re Roberto. È il 10 ottobre 1361, data della condanna alla pena capitale inflitta a Paolo Belforti, meglio noto come Bocchino, figlio del già deceduto Ottaviano e suo erede di fatto come uomo forte del regime. Nella sentenza emessa dal fiorentino Migliore Guadagni nelle funzioni di Capitano di Volterra, viene enumerata una serie di capi di accusa relativi ai diversi misfatti attribuiti all’imputato nelle ultime fasi del regime. Il dispositivo si chiude, però, con un capitolo che suona come una condanna, piuttosto politica che giudiziaria, dell’intero svolgersi di quel ventennio signorile, rivolta implicitamente al casato Belforti nel suo insieme, benché formalmente diretta al solo Bocchino. Costui, si legge, «una cum quibusdam aliis sotiis de domo de Belfortibus, tamquam perversi et iniquissimi tiranni, per violentiam tirannicham usurpaverunt et tenuerunt civitatem Vulterrarum et eius districtum et homines et personas dicte civitatis per spatium viginti annorum et ultra». E prosegue menzionando una serie di crimini perpetrati dal regime, alcuni dei quali sono chiaramente riferibili al momento della presa di potere e perciò ascrivibili ad Ottaviano più che a Bocchino4.
Alla «tirannides» appena debellata e alla recuperata «libertas» si fa riferimento anche nel proemio del trattato decennale, che era stato concluso dieci giorni prima fra Firenze e Volterra, per effetto del quale la repubblica fiorentina, che nella caduta dei Belforti aveva svolto un ruolo decisivo, assumeva il diretto controllo del cassero cittadino presso la Porta a Selci, dando di fatto inizio all’integrazione del Comune di Volterra nel nascente Stato regionale5. Infine, il cronista fiorentino Matteo Villani, nel fornire una dettagliata ricostruzione degli eventi volterrani del 1361, individuava proprio nel desiderio di accentuare la tirannia la colpa fatale di Bocchino Belforti6.
Nel giudizio dei contemporanei la relativamente breve esperienza signorile di Volterra pare dunque ineluttabilmente associata, e lungo tutta la sua durata, al concetto negativo di tirannide. Un concetto che in Toscana si caricherà di connotati ulteriormente negativi dopo l’infelice parentesi del Duca d’Atene, fra 1342 e 1343, ma che già in precedenza si era radicato nella riflessione e nel linguaggio politico come bersaglio polemico per caratterizzare, non tanto un regime signorile, quanto un sistema di governo che non agisse in funzione del bene comune7. Siamo del resto, con i Belforti, ad una fase già molto avanzata nell’evoluzione delle signorie italiane, quando ormai, anche fuori di Toscana, si è vistosamente allargato lo iato fra istanze popolari e domini, la cui legittimazione proviene sempre più spesso dall’alto. Ma è anche un’epoca in cui l’antinomia tirannides/libertas acquista una connotazione politica ben precisa nel gioco peninsulare di conflitti e alleanze, tanto da confondersi con l’opposizione tra guelfi e ghibellini: un’equazione fin troppo semplicistica, che spesso contrasta con la realtà, ma che basta a rendere sospetti i casi apparentemente anomali, quale, ad esempio, l’adesione al fronte guelfo di signori considerati tirannici.
Sarà proprio a carico dei Belforti che il già citato Matteo Villani farà notare un’incongruità di tal genere, allorché, nello stigmatizzare il giuramento prestato dai Volterrani all’imperatore Carlo IV nel 1355, egli ricorda che il loro Comune «si reggeva sotto la tirannia de’ figliuoli di messer Ottaviano de’ Belforti, i quali quanto che fossono guelfi di nazione, per la tirannia dichinavano ad animo ghibellino come mettesse loro bene, e non amavano il Comune di Firenze né’ Fiorentini per la tirannia, ch’era contradia alla libertà del nostro Comune»8.
Il regime signorile a Volterra si realizzò relativamente tardi e non ebbe una vita molto lunga; sufficiente, tuttavia, a dar luogo ad un passaggio dinastico e soprattutto a lasciare un’impronta indelebile sulla storia politica della città. In queste pagine ci proponiamo di discutere aspetti e offrire spunti di riflessione che servano a collocare i due decenni dominati dai Belforti nel più ampio quadro della vicenda comunale di questo centro urbano. Alcuni connotati di fondo caratterizzano la storia tardo medievale di Volterra. Città di dimensioni demografiche e peso politico che potremmo definire di seconda fascia in ambito toscano inferiore cioè a Pisa, Lucca, Firenze e Siena, ma non troppo distante da Arezzo e Pistoia9 essa fu tuttavia al centro di una diocesi e di un comitato di considerevole estensione, che sconfinava ampiamente nei territori dei Comuni circostanti10. Straordinario, rispetto al resto della Toscana, fu il potere acquisito dai vescovi, specialmente nel corso del XII secolo. Un potere ripetutamente confermato da diplomi imperiali e incardinato sull’esercizio di un’autorità di carattere comitale (sebbene i vescovi di Volterra mai si fregiassero del titolo di conte) su un cospicuo numero di castelli e terre disseminati fra Maremma, Val di Cecina, Val di Cornia, Valdelsa, Valdera e altre aree.
Un potere, inoltre, che faceva leva sulla particolare ricchezza mineraria del territorio, costituita da giacimenti di argento, rame, vetriolo e allume, nonché dal preziosissimo salgemma. Costretto a misurarsi con una forte signoria episcopale, che toccò l’apice della sua potenza nel corso del XII secolo fino all’inizio del successivo, soprattutto con i vescovi di casa Pannocchieschi, il Comune ebbe un avvio tardivo e uno sviluppo costantemente contenuto dalla presenza dell’ingombrante concorrente. Nel Duecento il tema dominante della scena politica volterrana è la contrapposizione fra le istanze di autonomia da parte della giovane organizzazione cittadina e la tenace resistenza del dominus ecclesiastico e dei suoi vassalli.
Un argomento che ha già goduto di una particolare fortuna storiografica grazie alle pagine dedicategli da Gioacchino Volpe nel 192311. Con l’avanzare del secolo il potere vescovile perde vigore, fiaccato finanziariamente e patrimonialmente dal conflitto interno con il Comune di Volterra, e all’esterno dall’avanzata nel vasto territorio della diocesi di potenti città vicine, in particolare Pisa, Firenze e Siena (ma anche San Gimignano e Colle), capaci di erodere le basi economiche e militari dell’antica supremazia.
Il vescovo perde anche il controllo su centri minerari che per secoli erano stati alla base della sua forza, primo fra tutti Montieri che, con le sue ricche argentiere, passa progressivamente nelle mani dei Senesi12. Contemporaneamente quelle stesse città sono in grado di esercitare una forte pressione sul Comune, minacciandone sempre più l’indipendenza faticosamente costruita e contenendone il distretto entro un territorio estremamente ridotto rispetto a quello della diocesi. La necessità di sapersi destreggiare fra i maggiori centri della Toscana diventa così un tratto costante per chi sia chiamato a governare Volterra 13
Come ha dimostrato il Volpe, un ruolo importante in queste dinamiche spetta ai partigiani del vescovo. Sono i suoi fideles, coloro che lo assistono nell’amministrazione della diocesi e nell’esercizio del potere temporale, ma anche i suoi sostenitori politici in città e i suoi primi prestatori di denaro. È a questa cerchia di famiglie, fortemente radicata nel sistema di potere cittadino e in parte integrata nell’aristocrazia consolare del Comune, che appartengono i Belforti14, le cui origini più che nella feudalità germanica, come voleva una lunga tradizione, sono probabilmente da ricercarsi fra i cattani e i riscuotitori di decime vescovili15.
Uno di loro, Belforte di Buonafidanza, è documentato nel 1214 nell’atto di concedere un forte credito al vescovo Pagano, in virtù del quale, insieme ad un altro prestatore, si assicura per quindici anni la metà dei proventi della Dogana del Sale16. Due anni dopo è la volta di suo fratello Corrado, che presta 300 lire allo stesso vescovo17. È tramite operazioni di tal genere che famiglie come i Belforti costruiscono la propria fortuna economica, riuscendo ad occupare porzioni crescenti di beni e diritti ecclesiastici.
Nello stesso tempo, è grazie alla protezione della Chiesa che esse si ritagliano ruoli da protagoniste sulla scena politica urbana. Fautori costanti della pars ecclesiae, fino a che, sul cadere del secolo, non sentono di poter sfidare il vescovo stesso e puntare direttamente alla sua cattedra, cavalcando le istanze comunali. È quanto avviene, sempre secondo la ricostruzione volpiana, nel 1288-89,quando i Belforti si pongono alla testa del movimento cittadino ostile al vescovo Ranieri Ubertini18.
Figura eminente di questa fase è Belforte di Ranieri, padre del futuro signore di Volterra. Al volgere del secolo è lui l’uomo di fiducia di papa Bonifacio VIII, che può contare sul suo zelo per imporre il predominio in città dei guelfi neri. Ed è grazie al pontefice Caetani che i Belforti nel 1301 ottengono per la prima volta la dignità episcopale nella persona di Ranieri, figlio dello stesso Belforte19. È un salto di qualità decisivo per il casato, assurto a protagonista assoluto della scena volterrana, in posizione di eminenza su entrambi i poli attorno ai quali ruota la vita pubblica locale.
Senza soffermarci sul quarantennio che precede l’avvento alla signoria di Ottaviano, benché si tratti ovviamente di un periodo di cruciale importanza per le sorti successive della città, ci si limiterà ad osservare che esso appare scisso in due fasi di pari entità cronologica, corrispondenti rispettivamente alla durata dell’episcopato di Ranieri Belforti, morto nel 1320, e a quella del suo successore Ranuccio Allegretti, rimasto in carica fino al 1348, ma sin dal 1340 estromesso da Volterra dal suo acerrimo nemico Ottaviano Belforti.
Sono decenni di crescente instabilità politica e sociale. Bastino pochi elementi: nel 1313 il vescovo Ranieri Belforti, entrato in contrasto con Arrigo VII di Lussemburgo, si vede annullare tutti i privilegi imperiali che da secoli puntellano l’autorità temporale della sede volterrana; il quadro diplomatico e militare della Toscana, sconvolto dall’espansionismo pisano e poi da Castruccio Castracani, mina la solidità delle alleanze spingendo Volterra ad ambigui atteggiamenti nei confronti del nemico ufficiale, la Pisa ghibellina, anche a costo di mettere a repentaglio la fedeltà guelfa a Firenze; la crescita sociale e politica dei Popolani determina il varo nel 1320 di una grande riforma, che incrementa da 400 a 600 il numero degli uomini armati del Popolo e decreta l’esclusione dal priorato e dal consiglio del pieno dominio di due categorie di famiglie, dichiarate, rispettivamente, ghibelline o magnatizie: fra queste ultime figurano sia i Belforti, significativamente in cima alla lista, sia gli Allegretti20.
Il conseguimento del vescovado da parte di questi ultimi nel 1320, dopo la morte di Ranieri, costituisce un evidente ribaltamento nella lotta fra le principali fazioni, che fanno capo alle due casate. L’elezione di Ranuccio, figlio del potente cavaliere Barone Allegretti, operata in questo caso dal Capitolo (e solo successivamente confermata dal pontefice Giovanni XXII), avviene infatti ai danni del candidato belfortesco, il pievano Benedetto, figlio di Ottaviano21.
Ne seguirà una lunga e cruenta contrapposizione fra le due partes: l’una, quella dei Belforti, più chiaramente identificabile con i Grandi e orientata ad un disegno signorile; l’altra, sostenuta da alcuni popolani desiderosi secondo le parole di Giovanni Villani di «vivere in libertà»22. È uno schema classico nelle città medievali italiane, che tuttavia nel caso di Volterra denota il permanere anche dopo la legislazione del 1320 di una posizione di netto predominio dei casati magnatizi nella lotta per il potere.
Al fine di tratteggiare per linee essenziali i ventuno anni compresi fra la presa del potere da parte di Ottaviano (8 settembre 1340) e la decapitazione di suo figlio Bocchino (10 ottobre 1361), è opportuno definire preliminarmente alcune partizioni cronologiche. La morte nel 1348 di Ottaviano, vittima con ogni probabilità della peste nera, costituisce lo spartiacque principale fra una prima fase dominata dalla personalità del fondatore e una seconda, caratterizzata da una leadership più diffusa, in cui spicca la figura di Bocchino. La cesura del 1348 vale anche per il cruciale passaggio del titolo vescovile da Ranuccio Allegretti a Filippo Belforti, altro figlio di Ottaviano.
A sua volta, la prima fase appare scandita in tre tempi per l’intermezzo creato dalla fugace dominazione di Gualtieri di Brienne, Duca d’Atene, che tenne la signoria di Volterra per sette mesi, dal 25 dicembre 1342 al 29 luglio 1343. Nell’occasione Ottaviano cedette formalmente i poteri, ma conservò una posizione di rilievo che gli consentì di recuperare e perfino rafforzare il suo ruolo subito dopo la cacciata del Duca. La principale fonte documentaria del segmento iniziale della prima fase, corrispondente a poco più di un biennio, è costituita da un prezioso copia lettere contenente la copia delle missive inviate dallo stesso Ottaviano in qualità di Capitano generale di custodia della città e distretto di Volterra, la magistratura permanente che gli fu assegnata fin dall’instaurazione del nuovo regime23.
Parte di queste lettere è sottoscritta insieme ai Dodici Difensori (i priori di Volterra), ma quelle che recano la sola firma del signore sono solitamente più interessanti, avendo un carattere meno formale e più riservato. Nella maggioranza dei casi i destinatari sono i reggitori degli altri Comuni di Toscana (magistrature di vertice, ma anche signori), cosicché emerge soprattutto un quadro delle relazioni diplomatiche all’interno dell’area regionale. Tuttavia, la presenza di missive al re di Napoli Roberto d’Angiò, a papa Benedetto XII, ad alti dignitari ecclesiastici o a signori cittadini d’oltre Appennino, come Taddeo Pepoli di Bologna e Francesco Ordelaffi di Forlì, testimoniano di una capacità del regime belfortesco di estendere alla penisola il proprio raggio di interlocuzione politica. La fonte epistolare conferma come in questo primo periodo l’azione di governo fosse dominata dall’incessante stato di belligeranza con il vescovo esule.
Un conflitto che aveva vissuto il momento più drammatico l’8 settembre 1340, quando Ottaviano si era impadronito della città con la forza servendosi di truppe forestiere, e immediatamente dopo aveva scatenato una dura repressione contro i sostenitori dell’Allegretti, sottoponendo ad un lungo assedio la rocca di Berignone, dove il presule aveva trovato rifugio24. La città era stata di conseguenza colpita da interdetto, la cattedrale privata delle funzioni religiose.
I governi di Firenze e di Siena, coinvolti nella diatriba come pacificatori, riuscirono ad imporre ai contendenti tregue di breve durata, più volte prorogate. La signoria dei Belforti nasceva così con pesanti ipoteche sia sulla sua autonomia politica sia sulle sue finanze, sottoposte fin da subito ad uno sforzo straordinario. Una lettera di Ottaviano a Roberto d’Angiò del 25 marzo 1342 appare sintomatica del senso di fragilità avvertito dal signore volterrano al cospetto delle maggiori potenze della regione25.
Egli si lamenta velatamente di non potersi appellare al vicario di Sua Maestà, malgrado la lunga fedeltà alla Casa d’Angiò dimostrata da lui e da tutti i Belforti. Lo prega pertanto di offrirgli la sua protezione indirizzando lettere commendatizie in suo favore ai reggitori di Firenze, Siena e Pisa, ovvero al terzetto di Stati confinanti che, a prescindere dalla collocazione di ciascuno nel quadro delle alleanze, rappresentava una minaccia costante per la libertà di Volterra e la tenuta del regime belfortesco.
Fu probabilmente il peso della situazione interna, cui si aggiungeva il gravame delle esigenze belliche della Lega Guelfa, ad indurre Ottaviano a rivedere gli strumenti fiscali per renderli più efficaci. L’8 gennaio 1341 fu varata una serie di misure riguardante non solo le comunità del distretto, ma anche la popolazione urbana, in particolare coloro che esercitavano una professione o un mestiere, che furono assoggettati ad una specifica gabella. L’iniziativa produsse un censimento dei professionisti e degli artefici della città, che denota una volontà di ‘conoscere per disciplinare’ indicativa di uno stile di governo più sofisticato rispetto al passato, ma che forse, proprio con atti di questo genere, rivelava tratti in cui i concittadini avrebbero riconosciuto i sintomi della tirannide.
Il quadro che scaturisce dagli elenchi compilati nell’occasione è peraltro molto interessante per la ricostruzione della struttura professionale di una città alle soglie della catastrofe demografica di metà ‘300. Il documento pervenuto fino a noi, probabilmente incompleto, contiene 243 nominativi ripartiti in dieci categorie professionali. Impressionante il numero dei notai: 116 quasi la metà del totale, ma nutrito è anche il gruppo dei calzolai (42) e dei sarti (17). In città risiedevano inoltre nove giudici. Mancano del tutto i mestieri legati all’Arte della lana, che pure era abbastanza sviluppata, eccezion fatta per quattro cimatori26. Anche le botteghe, complessivamente in numero di cinquantuno, furono oggetto di un censimento a fini fiscali, conservatosi fra le stesse carte d’archivio, con indicazione del nome del titolare e della stima per ciascuna di esse27.
Non siamo informati sulle modalità giuridiche adottate nel 1340 per introdurre il nuovo regime. Il registro di deliberazioni di quell’anno si interrompe alla nomina, quello stesso 8 settembre, di sei statutari muniti di amplissima autorità per la riforma degli statuti28. Certo è che il Belforti ne uscì con un’investitura formale, che gli conferiva il titolo di Capitano generale di custodia: rinnovando una prassi già ampiamente sperimentata altrove, un ufficio costituzionale di vertice veniva piegato ad esigenze extra costituzionali per impiantare un sistema di governo nuovo, senza stravolgere le istituzioni comunali. Una sola forzatura, ma decisiva: per Ottaviano quella carica sarebbe stata permanente.
Considerata a posteriori, la breve signoria volterrana di Gualtieri di Brienne, instaurata il giorno di Natale del 1342, e che di fatto sospese il regime belfortesco per soli sette mesi, appare come un piccolo capolavoro di abilità politica da parte del Belforti, capace nell’occasione di tirarsi indietro quanto necessario per riuscire successivamente a restaurare senza difficoltà la propria supremazia. È abbastanza ovvio che per Ottaviano e in genere per i Volterrani la dedizione a colui che da pochi mesi era stato proclamato signore a vita di Firenze non fosse stata una scelta libera da condizionamenti, come dimostra la sorte analoga sperimentata da altre città toscane29. Tuttavia, le fonti ci informano che l’ex signore mantenne un ruolo preminente nella nuova struttura di governo, entrando a far parte del consiglio del Duca insieme a Ranuccio Allegretti30, una circostanza che induce a ritenere che il cambiamento al vertice fosse avvenuto nel quadro di una pacificazione degli antichi conflitti, quale sbocco finale di due anni di mediazione fiorentina31. Il mantenimento di una posizione di primo piano da parte dei Belforti appare confermato da una provvisione governativa di 1500 lire a loro favore 32, anticipatrice delle elargizioni di cui essi avrebbero goduto nella fase successiva.
Il regime di Gualtieri ha lasciato scarsissime tracce documentarie negli archivi di Volterra, anche se qualche elemento lo si può desumere dagli atti immediatamente posteriori alla sua caduta. Apprendiamo ad esempio che la figura chiave era il vicario, il fiorentino messer Geri di messer Francesco de’ Pazzi, affiancato da un tesoriere, da un notaio e da un ufficiale della gabella generale33. Come testimonianza materiale resta invece il cassero di Porta a Selci, la cui torre fu fatta erigere dal Duca e portata a termine da Ottaviano34. Passato dal Brienne ai Belforti e successivamente agli ufficiali fiorentini, quel fortilizio cittadino era destinato a diventare per Volterra l’emblema per eccellenza della tirannide e dell’oppressione militare.
La forma più compiuta della signoria belfortesca si realizza con il ritorno al potere di Ottaviano il 29 luglio 1343, quando un parlamento generale di tutti gli uomini della città, convocato in cattedrale, lo investe di una speciale balia34. Forte di questa legittimazione popolare, il Belforti si fa ora aggiungere il titolo di Gonfaloniere di giustizia a quello di Capitano generale di custodia. Quasi avesse affinato le tecniche di comando, il restaurato signore di Volterra fece subito introdurre una serie di norme volte a consolidarne il predominio personale e familiare. Tra queste è compreso il controllo del cassero cittadino, assegnato alla domus dei Belforti con il compito di custodirlo per mezzo di un corpo di guardia composto da un connestabile e quattordici fanti36. Allo stesso casato, investito di una speciale autorità militare, vengono inoltre affidate le rocche di Monteverdi, Castelnuovo e Montevoltraio, cui seguiranno due anni più tardi Montecastelli e Montecatini37. Tali servizi sono ricompensati dal Comune con una provvisione mensile di 500 fiorini d’oro38: una spesa imponente, che da sola impegnava tutti i proventi della Dogana del Sale39. Si trattava, di fatto, di una sorta di appannaggio a beneficio di un soggetto nuovo della costituzione non scritta di Volterra, la famiglia signorile, la quale assume funzioni e privilegi distinti rispetto al resto del gruppo dirigente locale. Uno di questi privilegi è rappresentato dalla partecipazione fissa di membri della famiglia ai maggiori uffici del Comune, il che comporta la costituzione di borse elettorali separate per i Belforti. In realtà, almeno per quanto concerne i Dodici Difensori la presenza costante di elementi della famiglia si rileva già prima del Duca d’Atene, precisamente dal febbraio 134240. Come si può evincere dagli elenchi dei Difensori, da quel momento la norma fu osservata senza eccezioni fino alla caduta del regime.
Per confermare il godimento di questa sorta di statuto speciale riservato ai membri del casato, nel febbraio 1346 Ottaviano pensò bene di conferire personalmente la militia (ossia la dignità cavalleresca) agli uomini di casa Belforti. Con una solenne cerimonia che costituì un’autentica apoteosi per la famiglia il titolo fu assegnato, quanto meno, ai figli Belforte, Bocchino e Roberto, al fratello Musciatto e al cugino Franco di Dino41. Uno strumento chiave per far valere l’arbitrio della casa signorile e aggirare le istituzioni repubblicane fu quello delle riforme statutarie, attuate con una frequenza biennale, se non addirittura annuale, da speciali commissioni di statutari, solitamente composte di sei membri, uno dei quali, invariabilmente, di casa Belforti. I provvedimenti riguardano naturalmente le materie più varie, ma non è difficile individuarne un buon numero che sia teso a compiacere il signore o la sua casa.
Così, il 13 marzo 1345, un collegio di statutari, fra i quali figura Bocchino, non esita a donare ad Ottaviano il castello di Caselle, nei pressi di Monteverdi, a titolo di riconoscimento per i tanti servigi resi alla patria. Gli stessi statutari gli assegnano 1000 lire per la riattazione dei casseri di città e contado affidati ai Belforti42. Nel contempo un’amplissima balia viene concessa a lui e ai priori per affrontare la delicata questione dei banditi e ribelli del Comune43. L’orizzonte sociopolitico in cui intende collocarsi Ottaviano è abbastanza chiaro.
Egli è magnate tra i magnati, senza però chiudersi entro le mura della propria città. Si considerino le alleanze familiari concluse tramite il matrimonio dei figli: Bocchino si sposa con una donna appartenente ad un’importante casata magnatizia fiorentina, Bandecca di Giovanni di messer Pino dei Rossi; Piero si unisce ad una Salimbeni di Siena, Agnola di messer Benuccio; il matrimonio di Roberto con Gemma di messer Gaddo dei Cavalcanti da Libbiano tende invece a privilegiare i legami con un gruppo di lambardi del territorio, annoverato nel 1320 fra i magnati di Volterra; sulla stessa linea le unioni di due figlie femmine, utilizzate per rinsaldare i rapporti con altri magnati locali, come i Bonaguidi e i Picchinesi.
È una politica che sarà perseguita anche dopo la morte di Ottaviano e che permetterà ai Belforti di legarsi ad altri casati senesi come i Malavolti e i Buonsignori, a ricche famiglie fiorentine come gli Spinelli o a nobili lignaggi quali i Pannocchieschi d’Elci44. È l’esercizio stesso del comando a proiettare i Belforti in un contesto regionale (se non peninsulare) più ampio, inserendoli in una rete di relazioni e di amicizie estranea al mondo volterrano e soprattutto alle sue istituzioni.
L’essere divenuti signori di una città ha assicurato loro il diritto di partecipare al fitto scambio di favori e raccomandazioni, che delle basi locali di potere si serve come carta da giocare per ottenere altro. Una lettera di Tarlato da Pietramala a Bocchino, non datata, ma probabilmente collocabile nei primi anni di signoria belfortesca, ci fa intravedere quel tavolo da gioco e le regole che lo governano. Tarlato fa notare al suo interlocutore come, da quando i Belforti avevano raggiunto il potere, fosse cresciuto il flusso di richieste di favori che attraverso i loro amici d’antica data (compresi i Tarlati) si rivolgeva ai nuovi signori di Volterra. Come distinguere però, fra tante petizioni e lettere di raccomandazione, quelle che l’intermediario intendesse realmente caldeggiare da quelle trasmesse per semplice obbligo di cortesia? Tarlato fornisce a Bocchino il codice di riconoscimento: la presenza di tre punti dopo la sua firma (di cui dà dimostrazione nella lettera stessa; fig. 1) sarà segno che la sua intercessione è seria45.
La comunicazione di simili istruzioni che ricordano da vicino le pratiche usate oltre un secolo più tardi dalla cancelleria milanese degli Sforza46 equivale ad una consegna delle chiavi per accedere al selezionato circolo dei signori sparsi per l’Italia. Alimentando la rete delle reciproche relazioni, essi si procuravano una sorta di legittimazione orizzontale del proprio ruolo che si affiancava o suppliva ai formali riconoscimenti dall’alto o dal basso. I Belforti furono frequentatori assidui di questo mondo per tutto il corso degli anni Quaranta e Cinquanta, come testimoniato, ad esempio, dal registro delle missive di Filippo, fratello di Bocchino, nei dieci anni del suo vescovado47.
Il 1348 costituisce un passaggio decisivo nella storia della signoria belfortesca. Non è un caso se a rendere cruciale quell’anno funesto siano state due morti eccellenti: quella del vescovo Ranuccio Allegretti48, cui Ottaviano ebbe modo di far succedere suo figlio Filippo, e quella di Ottaviano stesso, avvenuta a breve distanza di tempo49. Tutti gli storici sono concordi nel ritenere che i tredici anni della seconda fase della signoria fossero dominati dalla figura di Bocchino, sia pur coadiuvato dai fratelli Roberto e Filippo.
Questo convincimento appare valido nella sostanza, anche se si basa in gran parte sull’esito finale del regime quando Bocchino è indiscutibilmente al centro della scena. Una cosa ci pare di poter affermare, almeno fin quando non compaia un documento contrario, cioè che a differenza del genitore, Bocchino non ebbe mai alcun riconoscimento ufficiale dai consigli volterrani, né tanto meno fu designato da Ottaviano come suo successore. Da un registro di deliberazioni apprendiamo invece che il 4 agosto 1348, nell’infuriare della pestilenza, le misure urgenti per far fronte al decesso di gran parte degli ufficiali furono delegate ai priori in carica e a tre Belforti «habentes baliamet auctoritatem».
Costoro erano Roberto di Ottaviano, Bernardo di Belforte e Franco di Dino, cioè, rispettivamente, un figlio, un fratello e un cugino del defunto signore50. Un atto successivo chiarisce come i tre fossero stati indicati dallo stesso Ottaviano51, nell’intento, evidentemente, di trasmettere i suoi poteri conferitigli da un parlamento generale ad un triumvirato che fosse rappresentativo dell’intero casato. Si passava, dunque, almeno a livello teorico, da un modello classico di dominazione individuale, sancita dall’attribuzione permanente di un’alta magistratura, ad una compartecipazione di tutti i membri del casato all’autorità signorile, in virtù dei privilegi che già in precedenza avevano posto la domus su un piano distinto e nettamente superiore al resto della cittadinanza.
Da un punto di vista costituzionale niente pare mutato, eccetto il fatto che l’ufficio di Capitano di Custodia resta vacante. Gli uomini di casa Belforti continuano invece ad alternarsi l’un l’altro come Difensori, statutari, ufficiali o membri dei principali consigli, nonché nelle funzioni di ambasciatori. Alcuni, tra cui lo stesso Bocchino e suo fratello Roberto, si prestano anche a ricoprire incarichi in terra forestiera, soprattutto podesterie o capitaneati, che li terranno lontani dalla città per interi semestri52.
Tutti impegni da cui Ottaviano si era costantemente astenuto durante il tempo della sua signoria. Altra cosa, naturalmente, è l’esercizio reale del potere. Vari indizi sembrano confermare che questo fosse stato effettivamente ereditato dai tre figli di Ottaviano piuttosto che dai parenti collaterali. Esplicite sull’argomento sono due lettere di Filippo Belforti, spedite alla corte angioina il 19 gennaio 1350. Sia con il principe Luigi di Taranto sia con il gran siniscalco Niccolò Acciaiuoli, destinatari delle due missive, il vescovo volterrano si scusa per aver mancato di visitarli adducendo il fatto che, essendo Roberto suo fratello da tempo impegnato in un pellegrinaggio al Santo Sepolcro, egli era rimasto da solo con Bocchino «ad [.] vulterrane civitatis custodiam»53.
Gli stessi verbali delle deliberazioni comunali attestano una partecipazione più intensa e qualificata alla vita istituzionale da parte di Bocchino e Roberto, che spesso troviamo impegnati anche in importanti ambascerie, mentre il ruolo chiave di Filippo, specie nelle relazioni diplomatiche, emerge chiaramente dal suo registro di missive. I loro parenti collaterali si limitano invece ad accedere agli uffici secondo la rotazione prevista, senza impegnarsi in altre urgenze dello Stato. La compresenza per un decennio dei figli di Ottaviano ai vertici del potere civile ed ecclesiastico locale contribuì a consolidarne il primato e disinnescò temporaneamente il peculiare elemento perturbatore della storia volterrana, ovvero il contrasto fra vescovo e Comune. Certo, fra i due centri di autorità non mancarono gli attriti, ma si giunse anche a risolvere controversie di lunghissima data, come quella sul possesso di Montecastelli, che proprio in questi anni fu definitivamente assegnato all’organismo comunale54.
Un altro episodio rilevante è l’omaggio reso in Pisa all’imperatore Carlo IV, nel 1355, sia dal vescovo che ottenne anche un nuovo, seppur formale, riconoscimento degli antichi privilegi della sua sede sia da un’ambasceria comunale capeggiata da Roberto Belforti. L’operazione non andò disgiunta da tensioni fra Filippo e i suoi fratelli, tanto che il primo ritenne di dover protestare ufficialmente contro eventuali lesioni ai diritti della Chiesa volterrana insite nel giuramento del Comune55. Tuttavia, vi fu intesa fra le due parti nel volersi sottomettere alla potestà imperiale, al punto da accogliere trionfalmente Carlo IV in città il 21 marzo di quell’anno56, malgrado il rischio di urtare pericolosamente l’antica benevolenza degli Angiò e soprattutto l’alleanza con gli alleati guelfi di Toscana.57
L’indeterminatezza dei diritti e delle responsabilità fu tuttavia alla base della crisi finale che colpì il regime fra 1360 e 1361.
Negli ultimi anni si coglie il venir meno di un equilibrio all’interno del casato, che se lasciava spazio all’iniziativa politica dei figli di Ottaviano, in particolare a Bocchino, riconosceva una serie di prerogative anche agli altri rami. Ora queste prerogative sono messe in questione dal profilarsi sempre più evidente di un progetto di signoria personale concepito dallo stesso Bocchino, «cupido d’aumentare sua tirannia», secondo le parole di Matteo Villani58. Un disegno che tuttavia incontra come primo ostacolo i figli di due cugini di suo padre, parenti ormai distanti, ma pur sempre detentori di beni derivanti dall’appartenenza al casato, quale la rocca di Montevoltraio, che per la sua prossimità alla città costituiva un punto strategico di fondamentale importanza59.
Al rifiuto di consegnare il fortilizio Bocchino risponde con l’invio di un contingente militare. La rocca è presa, i suoi occupanti tratti in arresto, ma la contesa intra familiare non si spenge, anzi si allarga. Tutto nasce dalla spaccatura dell’unità di consorteria, messa a dura prova da una condivisione del potere alla lunga inapplicabile. Ma entro breve si scinde anche il ceto dirigente cittadino, diviso fra filo-belforteschi e anti-belforteschi. Riaffiorano gli aneliti repubblicani e libertari, le istanze anti-tiranniche.
La guerra civile, che rischia di scaturirne, chiama allora in causa le potenze regionali in veste di interessati pacificatori oppure di alleati dell’una o l’altra parte. Il governo fiorentino si pone a garante della riconciliazione, inaugurando un’abile politica nei confronti di Volterra che caratterizzerà i decenni successivi. I Pisani tentano invece la carta del salvataggio in extremis del tiranno, che offre loro la città in cambio di una somma cospicua. Più ambiguo il ruolo di Siena, che pur schierandosi con gli anti-belforteschi, cerca di sfruttarne i timori di fronte ad una probabile egemonia fiorentina.
L’antica politica volterrana di bilanciamento fra le maggiori potenze regionali stavolta fallisce. Firenze, Pisa e Siena possono finalmente disputare la partita decisiva per accaparrarsi il dominio sulla città. Le conseguenze sono letali per il regime belfortesco, che soccombe rapidamente agli avversari interni ed esterni, ma non risparmiano il Comune, che finirà per soggiacere gradualmente, ma definitivamente, alla repubblica fiorentina60. A conti fatti, tuttavia, la crisi del regime era stata scatenata dall’implosione di quella solidarietà di lignaggio su cui Ottaviano aveva puntato per la perpetuazione della sua creatura.
Il tentativo di creare un modello di regime fondato sul potere collettivo della domus signorile mirava forse adagevolare il passaggio dinastico e a garantire, successivamente, un controllo più articolato e meno incerto delle leve del potere politico e militare, reso ancor più efficace dalla contemporanea occupazione della cattedra vescovile. Si trattava di un’operazione innovativa ed audace, che però rivelava i suoi punti deboli nell’inevitabile divaricarsi delle ambizioni individuali enel progressivo allentarsi dei vincoli familiari. Tutto ciò avveniva peraltro in un contesto di forte predominanza magnatizia, che i Belforti avevano saputo impiantare in reazione frontale alla legislazione popolare varata nel 1320. Fu questo un altro elemento di fragilità di un regime che faceva affidamento sul controllo familiare degli uffici politici e delle fortificazioni militari, ma non poteva contare su una solida base di consenso popolare.
Nel quadro della storia tardomedievale di Volterra il ventennio della signoria Belforti si staglia come un momento di elevato protagonismo della città nel contesto toscano. Per una comunità non di prima grandezza essere retta da leader riconosciuti, capaci di imparentarsi con grandi famiglie delle maggiori città toscane e di intrattenere relazioni con i governanti di altri Stati, anche fuori dai confini regionali, significava inserirsi in un gioco di rapporti e alleanze che, se abilmente sfruttate, potevano assicurare alla città un ruolo chiave. Ciò avvenne in misura maggiore dopo il 1348, grazie all’ascesa di Filippo Belforti alla cattedra vescovile, che consentì alla politica volterrana di ampliare il raggio territoriale di riferimento, e di interagire più incisivamente con i principali attori dello scenario regionale. Era, però, il canto del cigno. Con la morte del vescovo nel 1358, e soprattutto con la drammatica caduta di Bocchino tre anni più tardi, l’orizzonte politico di Volterra si ridusse inesorabilmente a quello di realtà periferica di uno Stato più vasto.