All’inizio del Novecento esisteva un procaccia, o corriere come si direbbe oggi, che sbrigava il servizio postale bisettimanale proveniente da Firenze nel tratto Castelfiorentino-Volterra. Il titolare lo conoscevano come il «Tinti» di Castelfiorentino. Usava un barroccino tirato da un asino così venerando d’età, di servizio e di abitudini che aveva imparato a memoria la strada fra le due cittadine e la conosceva così bene che poteva andare e venire senza che il Tinti avesse preoccupazioni di guida, sveglio, addormentato o briaco che fosse.

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La rimessa del corriere, o stallaggio come si diceva all’epoca, era in piazzetta Minucci, dove il martedì si davan convegno per ricevere o affidare le «commissioni» extracittadine al servizievole corriere. Arrivava puntuale, o quasi, con la solita ora di ritardo, al grido «Eccomi donne!», «Donne c’è il Tinti!», con il berretto un po’ di traverso e la frusta a girocollo. Era scamiciato d’estate, cori una gran fusciacca di colore indefinito alla vita, per reggersi i calzoni sempre a braca e comprimere la voluminosa protuberanza addominale.

D’inverno stava intabarrato nel casentino rosso, di cui ostentava con malcelato orgoglio un collo di pelle di volpe, più spelacchiato del ciuco. Arrivava sempre rubicondo in viso per lo sforzo dell’ultima salita, come diceva lui, o per gli effetti del vino tracannato durante il viaggio, come dicevano tutti.

La verità è che la strada in barroccino era lunga e la stagione non sempre adatta ai viaggi «su legno scoperto» cosicché il bravo Tinti, d’inverno per riscaldarsi e d’estate per rinfrescarsi faceva sosta a tutte le stazioni normali e straordinarie cioè a tutti i poderi lungo la strada. Per bontà d’animo, inoltre, e per raggranellare qualche soldo in più, accettava oltre che dai cittadini anche da tutte le massaie che abitavano lungo la salaiola e queste, per gratitudine del servizio, al costo della commissione aggiungevano sempre un bicchiere di vino bono o un “bicchierino” particolare allorché l’incarico era importante e delicato, in maniera che quando il Tinti arrivava allo stallaggio mezzo di sudore, sprizzava vino da tutti i pori, che sembrava la cola del vinsanto.

Consegnata la posta e sbrigate le commissioni, andava a mangiare da Pagno, famoso per la trippa e l’arrosto girato, che teneva trattoria davanti a San Michele e lì, tra un boccone e l’altro, riposandosi in attesa di commissioni e di trovare l’ora del ritorno, pisolava il giusto riposo.

Dopo il consueto bicchiere della staffa, perché era fedelissimo osservante del proverbio “non ti mettere in cammino se la bocca ‘un sa di vino”, per sollecitare i ritardatari delle commissioni, con voce stentorea anche se un po’ tremolante per le bevute, urlava a squarciagola: «Donne me ne vo’ via» fino a che, riattaccato il ciuco al barroccino e tirata la martinicca per la discesa di via Ricciarelli, con il fatidico «arrilà» dava l’avvio al ciuco che, istruito com’era dall’abitudine, imboccava senza sbaglio la via del ritorno che passava allora per borgo S. Giusto.

Prima di avventurarsi nel viaggio però, sentendosi le gambe poco sicure vuoi per la sonnolenza dovuta al gustoso pranzo di Pagno, vuoi per i bicchieri assaporati senza contabile, si sdraiava sul barroccino, coperto dalla tela cerata se pioveva, e quando arrivava fuori porta San Francesco era già sprofondato nel sonno del giusto, senza aver neppure il tempo di fare un’ultima capatina dallo Sgherro.

I ragazzi dei Borghi allora sempre a corto di divertimenti, se ne procuravano qualcuno a spese di chi capitava e se vedevano passare il Tinti lungo e disteso nel barroccino, sognando forse vigneti,  botti e svinature era come il cacio sui maccheroni.  Prendevano il ciuco per la cavezza, lo giravano verso il centro e gli andavano dietro a distanza «di sicurezza», per non correre guai. Il Tinti, naturalmente, si ritrovava davanti alla consueta rimessa per la sagacia del sapiente animale, che si sfogava con un sonoro raglio di soddisfazione per la brevità del viaggio di ritorno.

Il povero vetturale, svegliato di soprassalto, abbozzava il solito stentoreo: «Donne me…» che gli rimaneva a mezzo tra le risate dei presenti e, capita l’antifona, a suon di moccoli e sbraitando «arrilà», accompagnandolo questa volta da qualche nerbata come se la colpa nell’inconsueto ritorno fosse del ciuco, prendeva nuovamente la via di Castelfiorentino, stando ben attento questa volta, a non addormentarsi prima di Mandringa, per non ritrovarsi nuovamente al punto di partenza, tra le risate di tutti.

Ecco perché quando uno si accomiata tante volte senza decidersi ad andar via, c’è un proverbio volterrano, ben noto ai non più giovani, che dice «E’ come il Tinti!»

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Per Volterra, RENATO GALLI
Donne me ne vo’, donne me ne vo’, in rivista “Volterra”